I custodi

Non era così che volevo arrivare a Natale, non così affannata, insoddisfatta e in ritardo con tutto. Avevo programmato bambini docili, papà collaborativo, umori radiosi, estro in cucina e pace nel mondo, e invece il pomeriggio della Vigilia è stata l’ennesima prova di sopravvivenza. Il gatto si è appeso ai festoni dell’albero tirando giù tutto. Il papà ha imprecato così forte da farlo scappare a nascondersi chissà dove, e all’ora di andare a letto non si era ancora rivisto. La figlia di mezzo se l’è presa col papà per via del suo gatto amatissimo ed è corsa a chiudersi in camera sua a piangere istericamente. Il grande si è messo a tirare calci alla porta per farla smettere. I gemelli di un anno hanno cominciato a gridare a squarciagola anche loro, così la tosse gli è aumentata e quasi si strozzavano. Il papà seccatissimo è uscito a prendere un po’ d’aria lontano da questa gabbia di matti, e quando è tornato si è arrabbiato di nuovo perché non era cambiato niente e in più si era accorto di aver perso gli occhiali da riposo.
Io in cucina, tentando di portarmi avanti con i preparativi del pranzo di Natale, ho fatto impazzire la maionese per spalmare burro e marmellata sul pane della merenda, afflosciare il soufflé per pulire nasi colanti, lasciato bruciare la zucca per pacificare i turbolenti e dimenticato di scongelare l’arrosto per riordinare il macello in salotto.
Alle sette ho dovuto lasciare la cucina per fare il bagnetto ai gemelli, e sul più bello telefona la cognata per gli auguri in anticipo (domani vanno a pranzo al ristorante, loro!); il papà è stravaccato davanti al televisore e tocca rispondere a me, con il cordless incastrato tra guancia e spalla mentre strofino i piccoli con l’asciugamano. Il grande e la media adesso litigano per la doccia, e il gatto è sparito, forse per sempre, lui, l’unico in questa casa che mi riservava attimi di serenità e languide fusa. Lo sciroppo per la tosse dei gemelli finisce sui bavaglini, gli altri si lamentano perché la minestra scotta e mi sono dimenticata di preparare i crostini; il papà a cena brontola ancora per gli occhiali e incolpa il solito gatto, scatenando nuove crisi di pianto nella figlia gattofila, mentre a me è venuto finalmente il mal di testa tanto aspettato. Inoltre comincio a sentire freddo: l’acqua per lavare i piatti non si riscalda, e capiamo presto che la caldaia è andata in blocco. Che tempismo: ora per parlare con il tecnico dovremo aspettare al freddo tre giorni, e io ho due mocciosi con la tosse e sono freddolosa.
Dopo cena cerco di combinare ancora qualcosa in cucina ma mi sento impotente di fronte al programma in ritardo, e poi col mal di testa non ci ragiono più: meglio andare a letto e rimandare tutto a domattina presto, sperando in qualche miracolo. Del resto il papà a letto ci è già andato perché senza occhiali accidentaccio non riesce a guardare a lungo la tele e poi non c’è niente di interessante da vedere, sempre le solite fetecchie di Natale e uno intanto paga il canone ma perché dico io si può sapere perché.

Devono essere le sei, o almeno lo spero. Spero non sia più tardi, perché ho tantissimo da fare e contavo di approfittare di questi momenti in cui tutti dormono ancora. La prima sensazione è di tepore. Eh sì, i radiatori sono caldini, la caldaia si deve essere sbloccata da sola. Chissà, forse solo una bolla d’aria, Dio ti ringrazio. Dalla cameretta dei gemelli non sento gorgoglii preoccupanti: i loro respiri sono calmi e regolari, e mi rendo conto che hanno dormito tutta notte senza tossire. Il grande ha lasciato scivolare la coperta per terra: piano piano gliela rimbocco addosso, lui si gira con un sospirone felice e grazie a Cielo non si sveglia. La media dorme abbracciata a un peluche che la consola, almeno nel sonno, dalla perdita del gatto. Il papà russa, quindi va tutto bene e continuerà ad andare tutto bene almeno per un’altra oretta.
Io scendo in cucina.
Davanti ai fornelli c’è una vecchina con la crocchia, un vestituccio nero a fiorellini e un grembiule immacolato in vita. Sta mescolando religiosamente una pentola che fuma, e un’altra pentola coperta sobbolle sul fornello accanto sprigionando un soave profumo di ragù mentre, sui ripiani, dei canovacci puliti coprono amorosamente dei vassoi di qualcosa. Il gatto è ricomparso e dorme placido nel suo cestino attaccato al termosifone, come se nulla fosse successo.
“Nonna…” sussurro incantata.
La nonna si gira, mi sorride, posa il mestolo e mi viene ad abbracciare con infinita semplicità.
“Buon Natale, tesoro” mi dice, ed è proprio la sua voce, quella che si è spenta tanti anni fa.
“Nonna… ma non eri morta?”
La nonna è morta quand’ero appena ragazzina. Non sono cose che si possano equivocare o dimenticare. Gli ultimi giorni li aveva passati a casa nostra, i miei le avevano riservato la mia cameretta e il mio letto per farla stare più comoda con la flebo e l’ossigeno, e io dormivo nella stanzetta del guardaroba e ogni mattina salivo a salutarla prima di andare a scuola.
“Guarda, ti ho fatto la pasta fresca” mi dice, indicando i vassoi e i canovacci.
Mi ricordo il tavolone di cucina in casa dei nonni, le vigilie della grandi feste: la sfoglia tirata, le linee tracciate con una riga da disegno di legno, la ciotolona con il ripieno che imparavo a dosare tra pollice e indice per depositarlo nei quadrati, e quel gesto antico e preciso della nonna per chiudere i tortellini che invece non ho mai saputo riprodurre.
“E qui c’è il ragù, lo faccio andare pianino pianino. Intanto è pronta anche la besciamella, è venuta proprio vellutata come si deve” e me ne dà dimostrazione sollevando il mestolo dal quale cola un nastro bianco e cremoso esente dal benché minimo grumo.
“L’arrosto è pronto in forno, già farcito e legato con gli aromi. Il purè dovrai farlo tu all’ultimo momento, ma è facile”.
“Ma nonna, hai cucinato tutto…”
“Ti ho lasciato riposare, ne avevi proprio bisogno”.
Oh sì che ne avevo bisogno, ero così stanca ieri, e avevo tanto mal di testa… ma adesso è sparito, non ce l’ho più, non ho più mal di testa e non mi sento neanche più così stanca. E il gatto è tornato, sono proprio felice!
“Sai dov’era? Si era nascosto dietro la caldaia, qualcosa deve averlo spaventato” mi spiega sorridendo.
Le piacevano i gatti, amava tutti gli animali ma i gatti in modo speciale.
“Lo ha trovato il nonno quando è sceso a riparare la caldaia” aggiunge poi, come se fosse una cosa normale, semplice da capire.
“Il nonno?”
“Lo sai che è un bravo artigiano, un vero aggiustatutto. Ve l’ha sistemata in un attimo, sei contenta? Non potevate mica stare al freddo proprio a Natale, ti pare?”
“Il nonno, il nonno mio! Dov’è, dov’è, che voglio rivederlo!”
“Oh, il nonno, lo sai come è fatto: un po’ orso. Non voleva commuoversi e così ha fatto il lavoro e poi se ne è andato. Ė andato alla stazione a vedere i treni. Gli piacciono tanto, i treni”.
Oh sì, quanto gli piacevano i treni! Da piccola mi portava spesso a vederli, dopo i pranzi di famiglia a casa loro; i grandi restavano in salotto a chiacchierare e noi due uscivamo per fare due passi dopo l’abbondante mangiata, io appesa alla sua mano calda di falegname. Guardavamo i treni di lusso e i notturni, e poi le littorine e i merci, e io imparavo a leggere i cartelli con i nomi delle destinazioni. In tasca aveva sempre delle mentine o delle liquirizie.
“Avrei voluto che conoscesse i miei bambini…”
“Non ti preoccupare. Li ha visti. E gli sono piaciuti tantissimo. Ma loro hanno già i loro nonni”.
Hanno i loro nonni, è vero, ma sono nonni di oggi. Gran bravi nonni, ottimi nonni, moderni, sportivi, però non somigliano a quelli che ho avuto io. Quelli sì che erano nonni, avevano una specie di magia, sembravano personaggi delle fiabe, ed erano capaci di miracoli e incantesimi.
“Ah, guarda che ho spalmato un po’ di Viks Vaporub sul petto ai gemelli: hai sentito come respirano meglio? E gli occhiali di tuo marito erano al loro posto, sul tavolino del salotto ma sotto il giornale. Ora è tutto a posto. E io me ne devo andare”.
Non so se sia stata un’ultima magia, ma mi sono accorta che non mi veniva da piangere come mi sarei aspettata al momento dell’inevitabile congedo. Mi sentivo commossa, sì, ma non era di piangere che avevo voglia, bensì di sorridere e sentirmi straordinariamente felice, come poche altre volte nella mia vita adulta. Più come sapevo esserlo da bambina, direi.
E così l’ho salutata e l’ho lasciata andare, perché il campanile già suonava la prima Messa, e la nonna non avrebbe mai voluto perderla o arrivare in ritardo. Ma io credo che tornerà ancora. Se mi troverò proprio nei guai, io ci credo: tornerà.

(dedicato a nonna Luigia e nonno Giacinto, i veri Custodi della mia lontana infanzia)

Badanti a Natale

– Io vengo di Moldavia.
– Io vengo di Ucraina.
– Noi a Moldavia celabbiamo Babbo Natale.
– Anche noi da Ucraina celabbiamo Babbo Natale.
– Tutti paesi poveri celanno Babbo Natale.
– Italia no povera, Italia no Babbo Natale.
– Italia regali Natale li porta genitori nonni zii.
– Italia genitori nonni zii è ricchi, celà soldi per regali.
– Italia regalano bambini computer e plestèscion e scarpe 300 euri.
– Italia regalano smarfon e rolex oro.
– Noi Moldavia no soldi no ricchi no oro no neanche scarpe.
– Noi fame e no panettoni.
– Noi freddo e no giacconi firmati.
– Noi poveri e no vacanze Cortina.
– Neanche Sescèl.
– Poveri italiani.
– Spendono tutti soldi per regali.
– Ecco perché c’è crisi. Grossa grossa crisi.
– Noi fortunati che celabbiamo Babbo Natale che pensa tutto lui.
– Senza pagare niente, che non celabbiamo soldi.
– Noi Ucraina Babbo Natale ci porta calzettoni lana grossa e arance.
– Noi Moldavia Babbo Natale ci porta fazzoletti e noci.
– Miei signori fatto albero di Natale 3 metri: 1.000 euri.
– Miei fatto presepio 5 metri con trenino e cascate: 5.000 euri.
– C’è crisi.
– C’è grossa crisi.
– Mia figlia fatto scuole, è maestra, dice bambini italiani viziati, in classe sempre giocano con cellulare.
– Mio figlio capufficio in fabbrica, dice operai italiani sempre beve caffè alla macchinetta.
– C’è crisi.
– C’è grossa, grossa crisi.
– Cavolfiori a 3 euri e 50.
– Casa mia Moldavia cavolfiori gratis in orto quanti vuole.
– Poi quelli poveri siamo noi.
– Mondo tutto rovescio.
– Beh vado a fare bagno al nonno.
– Io farmacia comprare pannoloni.
– Poveri vecchi.
– Figli non vuole bene.
– Figli egoisti.
– Italiani così. No come noi.
– Perché italiani non crede Babbo Natale.
– Crede Renzi, che coglioni eh.

E ai libri, chi ci pensa?

Visto che siete tutti lettori e scrittori, vi ricordo il blog Matti per leggere, da me medesima creato e curato, dell’Associazione Amici della Biblioteca dove faccio la sguattera di pomeriggio.
Oggi c’è anche un raccontino di Natale, sempre di me medesima, in omaggio ai cari compagni con i quali condivido l’impegno per la divulgazione della lettura e il sostegno alle attività della biblioteca rivolte agli adulti.

L’appartamento

L’ultimo cliente era uscito da venti minuti.
Alle diciannove e trenta, Augusto Linassi, libraio in Campo santa Margherita, spense le luci, chiuse il negozio e percorse i pochi metri che lo separavano dall’ambulatorio dell’amico dottor Attilio Cavagnis. Lo faceva almeno due volte la settimana da oltre vent’anni; passare, affacciarsi un momento solo per un saluto, oppure aspettare che terminasse e poi uscire per fare un pezzo di strada insieme, chiacchierando sobriamente.
La sala d’attesa era vuota, e un lieve mormorio segnalava la presenza di un ultimo paziente dietro la porta chiusa. Non ci mise molto.
Attilio lo ricevette serenamente rilassato sulla sua poltrona dietro la scrivania in disordine.
“Finito?”
“Credo”.
Seduti uno di fronte all’altro, si guardavano con vecchi sorrisi virili, assaporando la soddisfazione in cui si stemperava la stanchezza di fine giornata.
“Allora”.
“Allora – ripeté Augusto. Era un vezzo quello di rimpallarsi l’esordio della conversazione, la quale avrebbe dovuto svolgersi senza fretta, su un registro disteso. Potevano farsi compagnia per interi minuti così, senza parlare, senza affrontare alcun tema, solo lasciandosi scorrere addosso quei preziosi istanti di serenità e reciproca confidenza.
“Tanto lavoro? – chiese il medico.
“Non mi lamento. C’è ancora chi regala libri a Natale, per fortuna. Meno di una volta, ma c’è”.
“Adesso va il tecnologico – notò Cavagnis.
“E tu, qua? Arrivata l’influenza?”
“Il solito, i malanni di stagione, i certificati di malattia, sai com’è”.
“Guarda che io non mi vaccino, sai. Il vaccino è per i vecchi, io mica sono vecchio. Ho la tua età!”
Risero affettuosamente.
“Casomai dovrei vaccinarmi io, che passo tanto tempo in mezzo a gente piena di bacilli”.
Poi, come ricordando improvvisamente la sua missione, chiese:
“E Liliana come sta? Tanto che non passa a misurarsi la pressione”.
“Liliana sta da dio, figuriamoci. Sempre in giro a conferenze, corsi di yoga. La pressione se la fa vedere dal farmacista, dice. Costa 3 euro”.
Attilio si alzò prendendo l’apparecchio:
“Vieni qua che a te la misuro io, e gratis”.
“Tre euro! – ribadì Augusto, scoprendo il braccio.
“E vai sempre a remare? – chiese Attilio dopo la misurazione.
“Come no, come no. E do dei punti ai giovini, anche”.
“Ci credo, ci credo. Sei sempre stato uno sportivo”.
“Com’era la pressione?”
“A posto”.
Tornarono a sedere l’uno di fronte all’altro.
“Cosa fai a Natale? Perché non vieni da noi? Liliana mi ha raccomandato di invitarti”.
“Vado a Padova da mia sorella, ma ti ringrazio lo stesso”.
“Attilio, da quant’è che siamo amici?”
Attilio Cavagnis la conosceva, quell’ouverture. Saltava fuori nei momenti di maggiore abbandono, di più intima confidenza, e preludeva a un piccolo viaggio nella commozione della memoria.
“Dall’asilo, Augusto. Dall’asilo”.
“Suor Geromina, te la ricordi?”
“Eccome se me la ricordo. Cicciottella ma con manine piccolissime. Anche i piedi. Piedini minuscoli. E il resto, tutto cicciottello”.
“Ci soffiava il naso fino a farci uscire il cervello”.
“E il liceo, te lo ricordi?”
Domande che non necessitavano di risposte.
“Tu sei l’unico con cui non abbia fatto a pugni al liceo. Perché portavi gli occhiali” – rievocò Augusto, e aggiunse, togliendoli per pulirli col fazzoletto:
“E adesso li porto anch’io”.
Tacquero per qualche istante, poi fu il medico a prendere in mano la situazione:
“Ma tu volevi dirmi qualche cosa, vero?”
I loro sguardi, da dietro le rispettive lenti, si fecero complici. Il libraio assunse un’espressione da cospiratore e si sporse sulla scrivania per dare un tono più teatrale alla sua rivelazione:
“L’appartamento. Quello sopra il negozio. Due piani luminosi più soffitta abitabile – qui una pausa strategica, per poi subito dopo raddrizzarsi e annunciare trionfante: “L’hanno messo in vendita”.
La notizia era delle più felici.
“Ma non mi dire!”
“Il vecchio è morto l’anno scorso, e ora il figlio, l’australiano, sì, quello emigrato in Australia, si è deciso a venderlo. Sì sì. Già”.
“E tu hai fatto un’offerta, immagino?”
“Fatta. E accettata. Lunedì firmiamo”.
Il dottore rimase senza fiato:
“Bel colpo, vecchio mio! Erano anni che gli stavi dietro!”
“Anni. Anni che me lo sognavo anche di notte. Casa e bottega, capisci.  Così il giorno che mi stufo di lavorare affido il negozio a qualcuno e mi limito a scendere qualche ora ogni tanto, per vedere se tutto va come dico io”.
“Son contento, son proprio contento”.
“Sai, mia moglie è figlia unica e ha ereditato bene. Io ho messo da parte un po’ di soldi, e poi ho il mio appartamento ai Frari, che se la banca mi fa un prestito posso venderlo bene, con calma”.
“Ottimo, ottimo. Passerete un bel Natale. Son proprio contento – ripeté Attilio, sul viso un largo sorriso.
Poi, stringendosi un po’ nelle spalle come per timidezza, si decise a mettere in tavola la propria, di notizia.
“Anch’io, Augusto, ho una cosa da dirti. Niente di che, in confronto alla storia dell’appartamento, però nel suo piccolo per me è importante”.
Augusto lo incalzò con aria canagliesca:
“Dai, spara!”
Attilio Cavagnis abbassò gli occhi, congiungendo le mani sul piano della scrivania in atteggiamento imbarazzato, ma felice.
“Un editore mi ha offerto un contratto. Il mio libro uscirà tra poco”.
Augusto saltò su dalla sedia alzando le braccia giubilante:
“Alleluia, era ora! Il tuo romanzo storico, quello sulla peste a Venezia! Grande lavoro, grande affresco, io l’ho letto in bozza e posso ben dirlo!”
“Allora, lo venderai nel tuo negozio? – chiese Attilio ridendo.
“Gli farò una vetrina apposta, scherziamo. Ti organizzerò una presentazione al pubblico e farò venire mezza città. Ah, lascia fare a me che conosco tutti!”
“Vedremo, vedremo… – si schermì il medico, notoriamente schivo.
“Qua ci sta uno spritz! – tuonò Augusto alzandosi – Alla nostra salute, alla salute di due vecchi veneziani che alla loro non fresca età ancora sono capaci di fargliela vedere!”

Sulla soglia sostarono a infilarsi i guanti osservando benevolmente i passanti con i pacchetti lucenti, le luminarie rosse e oro, le vetrine dei caffè appannate di vapore.
Augusto alzò gli occhi annusando il cielo buio sopra i tetti invisibili.
“Sai cosa ti dico? – annunciò in tono sapiente – C’è aria di neve”.

 nell’immagine, un’opera di Renato Ambrosi