Laggiù nel Bronx

Questo racconto (che, vi avviso, è lunghetto) l’ho scritto perché nel mio precedente eds Kermitilrospo aveva notato l’assenza di mortammazzati, e ci si era messa poi anche mia sorella a storcere il naso per l’eccessivo buonismo ottocentesco.
Stavolta, come vedrete se avrete la pazienza di leggerlo tutto (è lunghetto, vi avviso), i mortammazzati non si contano, e spunta anche – forse, spero, mi auguro, ci ho provato – un non so che di sano cinismo post-moderno, nel quale in effetti mi riconosco di più.

Me ne stavo seduta sul mio gradino preferito, il penultimo, perché da lì potevo occhieggiare il marciapiede da un angolo all’altro della strada e verificare, dall’affollamento di cartacce e lattine, il grado di efficienza del servizio municipale di nettezza urbana nel nostro quartiere, e intanto facevo quella cosa stupida che faccio sempre quando sono assorta e/o triste: mi grattavo le ginocchia. Con una specie di affetto, senza graffiare, più che altro un surrogato di carezze e pacche sulle spalle come quelle di cui era carente la mia vita di dodicenne. I gatti risaliti dai seminterrati o scesi dai cornicioni sezionavano scientificamente i sacchi dell’immondizia, riportando alla luce i vassoi di cartone stagnato in cui mia madre e io avevamo cenato con la robaccia unta del cinese all’angolo. Lei aveva smesso di cucinare molti anni prima, il giorno in cui era scomparso mio padre. Molte cose aveva smesso di fare, da quel giorno, e dal momento che già prima ne faceva assai poche si può dire che fu da allora che avevo dovuto farle tutte io. Lei del resto non era in grado. All’inizio, per quasi un anno intero si era dedicata alla ricerca di papà. Era diventata una habituée dell’obitorio, ci andava non meno di due volte al mese, e in certi periodi anche quattro, se aveva fortuna. Ogni volta che ripescavano nella baia il cadavere violaceo e gonfio di un ubriaco, oppure raccoglievano quello stecchito e brinato di un barbone congelato sotto un viadotto della metro, o ancora recuperavano quello raggomitolato nel vomito secco di un tossico in un edificio in demolizione, ogni volta, purché di sesso maschile e privo di documenti – cioè in almeno metà dei casi – facevano un giro di telefonate per invitare le persone che avevano fatto denuncia di scomparsa di un familiare a presentarsi per l’eventuale riconoscimento, e mia madre fra queste.
Per mesi se li andò a vedere tutti, con cura e accanimento, non trascurando nemmeno i cadaveri di razza asiatica e gli afroamericani. Riceveva la chiamata e subito si emozionava come per un appuntamento in centro: indossava un vestito appropriato, dei pochi che aveva, e prendeva un certo numero di autobus per andare fin laggiù. Stava fuori anche diverse ore, perché prendeva la cosa molto sul serio; talmente sul serio che, lungo la strada del ritorno, sentiva il bisogno di fermarsi in qualche bar e concedersi una colazione abbondante, e poi magari un giretto per negozi dove provava vestiti che non poteva permettersi di pagare.
“Come è andata oggi? – le chiedevo educatamente.
“Niente. Era un cinese. Gli somigliava molto, non mi sarebbe dispiaciuto che fosse proprio lui, ma non c’è stato niente da fare: era proprio un cinese – riferiva, delusa.
Oppure:
“Quello di oggi non so proprio come abbiano potuto propormelo. Tuo padre aveva tanti difetti ma, diamine, non certo un occhio di vetro!”
Le piaceva così tanto che a volte andava all’obitorio di sua iniziativa, si affacciava chiedendo garrula “C’è niente per me?” e poi si tratteneva a prendere caffè e ciambelle con gli inservienti fino a mezzogiorno, per tornare a casa se non altro di buon umore per aver passato del tempo con amici.
Per la frustrazione, mia madre si era buttata sul cibo. In forma non era mai stata, era più il tipo tendente al tondeggiante, un tondeggiante sodo e qua e là bozzuto, ma ora si sentiva autorizzata dalle circostanze a introdurre nel suo corpo, senza il minimo riguardo, calorie sufficienti a riempire il vuoto lasciato da mio padre, sotto forma di cibi tra i peggiori, più grassi e malsani potesse trovare al supermercato o nelle rosticcerie più malfamate. Casa nostra si riempì di involucri, cartocci, scatole di pizza, incarti di dolciumi, bicchieroni di plastica di gelato; ingeriva 4 hot-dog e 2 stecche di cioccolato già per colazione, a pranzo scartocciava un vassoio formato famiglia di ali di pollo e patatine fritte, poi per cena diceva di volersi tenere un po’ più leggera e si faceva bastare un paio di pizze e una scatola di gelato. I cioccolatini se li portava a letto, erano quelli della buonanotte, diceva, e presi uno alla volta e così piccoli non potevano farle male. Di tutto questo posso riferire, ma alla mia osservazione sfuggivano gli spuntini che certamente faceva durante la giornata mentre io ero a scuola, e di cui restavano testimonianze nei rifiuti che scovavo sotto il letto quando andavo alla caccia di quei topi che, a un certo punto, cominciai a sospettare coabitassero l’appartamento.
In pochi mesi, mia madre era ingrassata ben oltre il limite dell’obesità media di cui soffre, pare, un’altissima percentuale di americani. Le sue dimensioni avevano qualcosa di sciamanico; il suo corpo non aveva più una forma, ma molteplici forme, e sotto le smisurate vestaglie con cui lo copriva assumeva aspetti sempre nuovi e sempre in movimento, come di materiali ammucchiati maldestramente che tendessero a scivolare uno sull’altro alla ricerca di un assetto meno pericolante, come ondate straripanti che si snodavano e smottavano e si riaccomodavano in balia della forza di gravità, affacciandosi flaccidamente ora all’altezza dell’addome (ormai tutt’uno con le mammelle), ora a quella dei fianchi (ormai tutt’uno con le natiche). Era tutto un ballonzolare, uno spenzolare, uno sgusciare molle, un contorcersi greve come di serpente obeso e moribondo.
Ormai pilotare nello spazio angusto del nostro appartamento quel gigantesco ammasso di carne senza controllo che era diventato il suo corpo era per lei un’impresa che la costringeva a passare di fianco attraverso le porte e a ricorrere a me per qualunque incombenza. Negli ultimi tempi usciva di casa solo per andare, soffiando come un tricheco, all’obitorio, e poiché non era più in grado di salire e scendere dall’autobus si era rassegnata a prendere un taxi, la cui spesa si aggiungeva dolorosamente alle altre più essenziali e contribuiva ad assottigliare i pochi risparmi rimasti. Io avevo cominciato a saltare giorni di scuola perché ero troppo impegnata a occuparmi di lei, della sua interminabile toilette che faceva seduta su uno sgabello rinforzato nella doccia sollevando una dopo l’altra le mammellature davanti, dietro, sopra e sotto affinché ci passassi un asciugamano insaponato e la pasta allo zinco per dare sollievo alle piaghe fetide e melmose ospitate nel fondo di ogni piega.

Un giorno, dopo quasi un anno, tornando a casa da scuola la trovai seduta in cucina in compagnia di due tipe dei Servizi Sociali. Una di esse si alzò per venirmi incontro e con un certo garbo compunto molto professionale mi annunciò che quella mattina mia madre aveva riconosciuto papà nel cadavere di un uomo rinvenuto in un vagone merci in disuso abbandonato da anni su un binario morto. Mia madre guardava nel vuoto e non mi parve sconvolta, aveva le labbra strette come stesse riflettendo e ogni tanto annuiva a se stessa. Quando restammo sole, non mi disse molto: solo che ora dovevamo pensare a noi stesse e che quelle due brave signore ci avrebbero aiutate. Io ero così abituata a pensare mio padre come morto che averne avuto la conferma non cambiò molto le cose.
Invece le cose cambiarono. I Servizi Sociali ci riconobbero un assegno di sostentamento e controllarono che non mancassi più alle lezioni. Una volta ogni tanto passava qualcuno a chiedere se avessimo bisogno di qualcosa, ci portavano bende e pomate per la mamma, abitucci usati per me. Ma la più grande novità fu che mia madre si mise a fare progetti. Un giorno mi disse che si era trovata un lavoro, un lavoro da svolgere in casa. Mi disse che la sua lunga frequentazione dell’obitorio l’aveva illuminata, le aveva fatto scoprire di possedere una dote che ci avrebbe fatte ricche: la dote di saper parlare con i morti. Nel quartiere la notizia non stupì, e la clientela, fatta per lo più di vedove superstiziose, non tardò a raccogliersi numerosa.
Mia madre per l’occasione evocò lontane origini pellerossa e si impadronì dello spirito di una bisnonna Cherokee, prendendone a prestito il nome, Esmeralda, e l’acconciatura, una parrucca con lunghe trecce corvine con la quale nascondeva i capelli stopposi e rarefatti vittime di decenni di sciagurate tinture nonché degli squilibri nutrizionali. Riceveva nella saletta da pranzo, sacrificata a studio esoterico e addobbata di drappi neri alle pareti e di un’oggettistica dissennatamente ibrida che comprendeva simboli indiani, zampe di conigli, teschi di gatti, campanellini buddhisti, candele da catacomba, fotografie di ectoplasmi. Aromi di incensi di poco prezzo coprivano la puzza dei cibi e dello zinco rancido. I clienti arrivavano riverenti, in soggezione, e li accoglievo io, conciata con una tunichetta di pizzo tinto di nero che cominciò presto a starmi stretta ma che mi conferiva dignità e mistero. Li introducevo al cospetto della sciamana Esmeralda e poi mi ritiravo, per ricomparire solo al termine della seduta e incassare la tariffa, che non era esosa ma nemmeno modesta. Mia madre non voleva che assistessi, e da dietro la porta sentivo solo qualche mormorio e un tintinnare di sonagli che significavano l’arrivo dell’anima richiesta. Le anime rispondevano sempre alla chiamata. Ogni vedova, ogni orfano ultrasessantenne, ogni decrepito reduce di Corea ansioso di ricollegarsi a un vecchio commilitone caduto, tutti avevano il loro momento magico e misterioso, il loro contatto dall’aldilà, risposte alle loro domande, conforto alle loro nostalgie. Mia madre non so come facesse, ma dispensava del bene a tutti. E di quell’attività campavamo.

Me ne stavo, insomma, sul penultimo gradino e mi grattavo sconsolatamente le ginocchia, quando dall’angolo della strada vidi avanzare, col suo inconfondibile passo danzante, mio padre morto da cinque anni.
La sua andatura era quella delle persone molto alte e smilze, di un giocoliere, o forse di un giocatore di basket sul parquet: dondolante, rilassata e piacevolmente controllata. Il gesto gli partiva dalle spalle, come si apprestasse a cingere una donna per un giro di valzer, e si trasmetteva alle lunghe gambe leggermente arcuate, poi ai piedi che sembravano accarezzare il suolo con la leggerezza di un Fred Astaire.
Avanzava lungo il marciapiede sorridendo fra sé come un fanciullo in vacanza, le mani nelle tasche dei pantaloni color verde stagno, una giacca di velluto assai frusto color melanzana, scalciando affettuosamente le cartacce che i suoi piedi incontravano e puntando verso casa nostra. Quando mi fu vicino, si inclinò un po’ per scrutarmi attentamente e mormorò cantilenando:
“Guarda guarda Betty Lou come si è fatta grande…”
Io, dico la verità, non feci quello che sarebbe stato ovvio per chiunque: non mi alzai di colpo, non mi impressionai, non tentai di ritrarmi per lo spavento né feci domande con voce strozzata. E lui non fece niente di quello che ci si sarebbe potuto aspettare: non mi sfiorò, non mi accarezzò i capelli, non fece il gesto di abbracciarmi. Ci guardammo per qualche istante, forse rimandando tutto a un altro momento.
Poi lui disse, educatamente:
“Beh, io salgo un attimo”.
E io rimasi lì su quel gradino, senza pensare a niente, perché qualunque cosa avessi pensato certamente era troppo grande per me. I gatti selezionavano gli avanzi, raspando fino all’ultima molecola le carte oleate della rosticceria e lasciando ai cani, che sarebbero sopraggiunti più tardi e che notoriamente mangiano di tutto, la stagnola del cioccolato del resto già meticolosamente leccata da mia madre.
Non rimase di sopra a lungo, diciamo un quarto d’ora secondo la mia incerta percezione di dodicenne. Io non mi ero mossa, e lo sentii alle mie spalle lasciar ricadere il portoncino e saltellare giù dai gradini con lo stesso lieve atteggiamento fanciullesco e malandrino di quando era salito.
Ora mi aspettavo, che ne so, una frase, qualcosa, qualcuna di quelle cose che prima ritenevo avessimo solo lasciato in sospeso, e dentro di me pensavo che non ne avevo poi un gran desiderio, perché poteva saltar fuori una situazione ben più che bizzarra o imbarazzante. E io di situazioni bizzarre e imbarazzanti ero, a dir la verità, anche abbastanza stufa.
“Dice tua madre di salire per aiutarla a mettersi a letto – mi informò con gentilezza, e in quel momento sentii il suo odore, che era di elefante, e vidi che aveva i capelli raccolti in un codino e ai polsi portava due braccialetti di misere perline.
Poi se ne andò, verso l’angolo di strada da dove era svoltato, ma a metà si fermò un attimo, mi chiamò:
“Ehi!”
E mi lanciò qualcosa, che io fui svelta ad afferrare tra le mani.
Poi un ultimo gesto di saluto, e fu tutto.
Mi aveva donato un pacchetto di sigarette, ciancicato e mezzo vuoto. Lo guardavo chiedendomi se un padre che regala sigarette a sua figlia di dodici anni è un padre molto moderno, oppure nessun padre.
Mia madre mi aspettava sulla sua poltrona sfiancata. Senza una parola le sfilai le calze dalle gambe pachidermiche e l’immensa tuta di ciniglia di un fragoroso color fragola, le rinnovai gli strati di garze intrise di pomate puzzolenti, raccolsi da terra i resti di un paio di scatole di cioccolatini e la scortai nella penosa navigazione verso il letto.
Fu solo quando si fu sistemata con molti ansiti e gemiti e il suo immane corpo ebbe finito di spargersi, dilagare e invadere il materasso, che mi parlò. Era provata ma durissima, determinata.
“Nessuno deve saperlo. Giura che non lo dirai a nessuno. A nessuno, capito?”
“Ma allora non era morto davvero?”
“A nessuno, ti dico, a nessuno – ribadì con forza.
Poi aggiunse:
“Non piangere. Pensa solo a questo: se qualcuno lo viene a sapere, noi perderemo il sussidio, e io perderò la mia reputazione. Ho un lavoro onorato, la gente crede in me. Non vuoi rovinare tutto, vero? Dimmi che non vuoi”.
Io non è che stessi piangendo, né ne avevo l’intenzione. Trovavo solo ingiusto che certe cose succedessero un metro sopra la mia testa.
“No che non voglio, ma se lui tornasse? – tentai, per farla ragionare.
“Ah no che non torna, puoi star sicura. Gli ho detto che se torna lo ammazzo con le mie mani – mi assicurò, e la sua voce era colma di desiderio di vendetta. Capii che parlava seriamente, e del resto disponeva di un’arma letale: il suo stesso peso, con il quale avrebbe potuto mantenere la minaccia col solo accasciarglisi addosso e schiantarlo come un qualunque sgabellino di bambù.
“Ma tu lo sapevi, però – protestai debolmente.
Lei non rispose. Un giorno, cinque anni prima, aveva fatto la sua scelta, e oggi non le restava che ribadirla.

Quella notte mi svegliai di soprassalto perché mi ero dimenticata di controllare una cosa. Tirai fuori dal comodino il pacchetto di sigarette e lo esaminai per bene: ne conteneva cinque, storte, mezze morte, mezze sbriciolate. Cercai dentro e fuori se vi fosse un biglietto, un messaggio, un indirizzo.
Ma era solo un pacchetto cincischiato e mezzo vuoto, giusto con un fondo di odore di elefante.

*    *    *

E anche con questo partecipo all’eds Nero di Natale della solita stregonessa Donna Camèl, in ottima e abbondante compagnia con:
Hombre con Ti prego, non chiamarmi Barbie
Dario con Zebre e savane
Leuconoe con Placida come il fiume
Pendolante
con Natale con soffritto
Kermitilrospo
con Pedalata nera
Fulvia
con Il quadro capovolto – 2a parte
Lillina
con Una vita segnata
Calikanto
con Nero livido
La Donna Camèl
con Se tu mi amassi
Singlemama
con Dissolvenza in nero
Angela con Chi è di scena
Angela
(ancora) con Taccido 

Madeleine

Nell’ottobre del 1895, agli esordi della mia fortunata carriera di neuropsichiatra, mi imbattei in un caso a dir poco arduo e insieme commovente, che avrebbe cambiato la mia vita in un modo inatteso.
Me ne incaricò il professor Waldenstein, decano all’Hôtel Dieu, del quale ero stato l’allievo prediletto. Si trattava di una giovane donna dell’alta società che aveva perduto la memoria in seguito a un trauma emotivo dei più brutali: il marito era morto annegato sotto i suoi occhi nel mare di Capri durante il viaggio di nozze in Italia, e non riesco davvero ad immaginare un epilogo più straziante per quello che appariva a tutti un perfetto matrimonio d’amore. L’amnesia che l’aveva colpita aveva cancellato dalla sua mente tutti i ricordi antecedenti l’incontro con il futuro marito, risucchiando perciò nell’oblio la sua infanzia e le immagini dei suoi stessi familiari. Essa li riconosceva per tali solo perché le era stato provato che lo erano, ma tuttavia non rammentava di aver mai visto prima i loro volti né pronunciato i loro nomi. Incapace di ambientarsi nella sua famiglia d’origine, si era ritirata nella casa maritale, dove viveva infelice coltivando gli unici ricordi sopravvissuti, che le parlavano di un amore e di una felicità durati così poco e ormai perduti per sempre.
Acconsentii a occuparmi del suo caso dopo averlo frettolosamente classificato come una amnesia isterica, statisticamente abbastanza frequente fra i soggetti di sesso femminile soprattutto se giovani, benestanti e sensibili, e, confidando in un pronto successo, la ricevetti nel mio studio privato al pianterreno della villa di Neuilly dove dimoravo da solo.
Essa quel giorno, come poi tutti i seguenti, indossava un abito nero di ottima fattura e calzava un cappellino dello stesso colore, la cui veletta le copriva il volto lasciando trasparire solo il tenue rosa delle labbra.
Quel primo incontro fu dedicato a raccogliere quanti più dati possibile, ma a fine giornata mi resi conto di avere ben poco in mano: nulla che comunque non mi avesse già anticipato nel dettaglio il mio Maestro, perché dalla bocca e dalla memoria della mia giovane paziente non uscì null’altro di illuminante. E così anche negli appuntamenti seguenti: essa non faceva che ripetere le stesse frasi, rievocare le stesse scene, ribadire la propria impotenza davanti a quel muro nero che le si parava dinnanzi ogni volta che cercava di spingersi indietro nel passato.
“Un muro, voi dite”.
“Un muro. Un muro nero”.
“Nero come? Anche il nero è un colore, e dunque può avere varie tonalità, vari registri, a seconda di quale prevalga fra i suoi tanti componenti… ”
“Nero, signore. Nero. Non ci sono sfumature, è tutto nero”.
“Nero come la notte? La notte ha qualcosa di blu profondo. O come la seta del vostro abito? Però contiene dei riflessi argentei, smorzati ma comunque riconoscibili”.
“Se intendete dire che anche in un pozzo, anche in una grotta, il buio può essere sempre interrotto da qualche lieve bagliore, ebbene non è il mio caso. Il nero del muro che abita in me è definitivo e ineluttabile come l’interno di una tomba molti metri sotto terra, signore”.
La sua patologia persisteva ormai da qualche mese, e si era mostrata refrattaria ai principali rimedi posti in essere: non le avevano giovato né calmanti né eccitanti, né viaggi all’estero né riposi in un chiostro, né soggiorni al mare né in montagna, né applicazioni calde o fredde o elettriche o magnetiche, e nemmeno l’ipnosi. Il muro resisteva nel fondo della sua mente, nero e crudele, solido e beffardo.
“Vi scongiuro – mi supplicava – fate qualcosa. Finora tutto è stato inutile, e il tempo passa privandomi della gioia di vivere. Presto invecchierò senza mai essere stata giovane!”
Ah, essa che paventava la propria vecchiaia non aveva che ventuno anni! Si può immaginare nulla di più straziante? Quanto atroce era il suo destino di ricordare solo un marito oramai perduto e irraggiungibile e di non potersi rifugiare con confidenza nel grembo della famiglia che tanto l’amava e a cui si sentiva estranea? Sarebbe stato preferibile il contrario, e forse sarebbe stato anche più facile da curare.
Avevo adottato fin dall’inizio un mio metodo personale: durante la seduta, le facevo indossare sopra gli occhi una benda nera ben accomodata in modo da precludere il passaggio di qualunque spiraglio di luce. Lo scopo era quello di ricostruire in concreto la sensazione di muro nero e di stimolarla affinché si sforzasse di vedere oltre, di scavare quella superficie e scoprire al di sotto i tenui disegni dell’affresco del suo passato. Pronunciavo parole e nomi di luoghi che avrebbero dovuto rievocarle qualche ricordo fondamentale, oppure le facevo toccare oggetti che avrebbero dovuto esserle familiari, come la bambola preferita di quand’era bambina o il collare dell’adorato cagnolino dei genitori, ma pareva ormai che anche quei tentativi dovessero restare infruttuosi.

Un pomeriggio di tardo autunno (la luce era scesa presto, pioveva a raffiche e il vento dall’Atlantico frustava le imposte), nel corso di un colloquio particolarmente impegnativo accadde qualcosa di sorprendente. Ad un certo punto, mi accorsi che era molto provata e aveva il mento e le mani tremanti.
“Perdonate, ma sono troppo stanca per continuare. E a dire il vero ho molto freddo… – mormorò.
Subito mi adoperai perché si riprendesse, e la sorressi fino alla poltrona più vicina al caminetto, dove ardeva per la verità un fuoco più che sufficiente a riscaldare la stanza, ma evidentemente non il suo piccolo cuore afflitto. Le sistemai sulle ginocchia una coperta da viaggio e le misi in grembo il suo manicotto di pelliccia affinché si scaldasse le gelide manine, poi uscii per ordinare alla mia governante qualcosa di caldo e corroborante. In tutto questo, la mia pallida paziente non aveva mai tolto la benda dagli occhi, e tuttora la teneva, forse per trovare rifugio alla stanchezza in quel vuoto foderato di raso nero senza riflessi.
La governante entrò poco dopo con una tazza di cioccolata fumante, me la consegnò e lasciò che fossi io a offrirla alla giovane sofferente, ma rimase al suo fianco con un tovagliolino candido pronta a nuovi ordini.
Dopo il primo sorso, la spossatezza sembrò prendere il sopravvento, e la testa si reclinò all’indietro sullo schienale imbottito, mentre le sfuggiva un lungo e doloroso sospiro.
Ma subito dopo, tornò a bere il liquido dolce e bollente e stavolta gli dedicò un’attenzione insolita: pareva che le sue papille gustative analizzassero freneticamente densità e sapore e stessero trasmettendo al cervello una corrente di segnali vorticosi. Al terzo sorso, più lungo e concentrato, esalò una parola:
“Cannella”.
“Come avete detto? – chiesi, perplesso.
“Cannella. Cioccolata con la cannella. Una spruzzata di cannella. Un nonnulla di cannella. Il vapore la scioglie e vi entra nel cuore”.
Bevve ancora, sempre cieca eppure visibilmente rianimata. E disse un’altra cosa stupefacente:
“Il capriccio del diavolo. La cannella: il capriccio del diavolo”.
Mentre cercavo di capire se fosse per caso uscita di senno, non mi accorsi del cambiamento avvenuto nell’espressione, solitamente riservata, della governante, che all’udire quelle parole si era impercettibilmente chinata verso la paziente e scrutava incredula il poco che restava visibile del suo volto velato.
“Avete veramente detto il capriccio del diavolo? – chiese con voce rotta dal turbamento.
Ed essa, la paziente smemorata, dal fondo del suo buio confermò con inattesa decisione:
“L’ho detto. La cannella sulla cioccolata è il capriccio del diavolo. Lo diceva sempre la mia bambinaia”.
La sua voce si era fatta sicura e io trasecolai, ma non ero pronto a quanto stava per accadere. Stavo per inserirmi con alcune domande prudenti e studiate per valutare il grado di completezza di quel primo ricordo che pareva affiorare, quando la governante mi rubò la scena e continuò il dialogo relegandomi a semplice ascoltatore.
“E ricordate come si chiamava, la vostra bambinaia? – indagò con trattenuto fervore.
La risposta arrivò dopo un istante:
“Berthe”.
La governante si coprì la bocca con le mani, colta da intensa emozione, ed esclamò:
“Madeleine, siete dunque voi?”
Madeleine si strappò la benda dagli occhi, i loro sguardi si ritrovarono e si riconobbero e davanti a me le due donne si abbracciarono singhiozzando di gioia e coprendosi di epiteti affettuosi ripescati nel passato.
“Madeleine, confettino mio, mia nuvoletta, mia colombella!”
“Berthe, mia fata buona, mio angelo, mia aurora boreale!”
“Avete riconosciuto la mia cioccolata!”
“Nessuno la fa come voi, nessuno ci mette la cannella!”
“E vi siete ricordata di me!”
“Chi mi è stata più vicina di voi quando ero piccina?”
Stravolto dall’epilogo inaspettato, non mi rimase che restare in disparte e assistere a quel fiume di ricordi che si snodava fra le due, a tratti gaio, a tratti commosso. Il muro nero si era dunque infranto? E quale pietosa divinità aveva posto Berthe, la mia decennale governante bretone, al centro di quella straordinaria guarigione? Forse il Caso, il più bizzarro di tutti gli dèi.

Nei giorni seguenti, la mia paziente compì rapidi e risolutivi progressi. Berthe la seguì amorevolmente nel percorso di riavvicinamento alla famiglia e i risultati non si fecero attendere.
Allo scadere del tempo di lutto, presentai a Madeleine la mia proposta di matrimonio ed essa accettò con cuore gonfio d’amore. Lo stesso amore che mi dedica da ormai quarant’anni e che si è manifestato nella nascita dei nostri tre figli e recentemente in quella dei nostri primi nipoti.
Berthe è rimasta sempre con noi, e quando la sua tenace salute bretone ha cominciato a venir meno l’abbiamo tenuta come una di famiglia, accudendola con affetto e gratitudine quanto lei aveva accudito tutti noi. Ci ha lasciato l’anno scorso, molto compianta. Negli ultimi tempi, una grave forma di artrite diffusa l’aveva immobilizzata a letto, ed essa, mostrandoci le sue povere mani deformi e ormai inutilizzabili, ci ammoniva con affetto:
“I ricordi non spariscono, tutt’al più si nascondono. I miei, li vedete, sono tutti qui: nelle mie ossa”.

(nell’immagine: Sul balcone, di Berthe Morisot)

E via, partecipiamo a questo eds Nero di Natale della solita stregonessa Donna Camèl, non lasciamoli soli, gli altri. Che sono:
Hombre con Ti prego, non chiamarmi Barbie
Dario con Zebre e savane
Leuconoe con Placida come il fiume
Pendolante
con Natale con soffritto
Kermitilrospo
con Pedalata nera
Fulvia
con Il quadro capovolto – 2a parte
Lillina
con Una vita segnata
Calikanto
con Nero livido
La Donna Camèl
con Se tu mi amassi
Singlemama
con Dissolvenza in nero
Angela
con Chi è di scena
Angela
(ancora) con Taccido