Obbligo di catene

(nell’immagine: La pelliccia di leopardo, di Alberto Manfredi – 1994)

I giorni subito dopo il Natale, quella loro atmosfera di sazia indolenza prima che si accenda l’elettricità del Capodanno. Ieri pomeriggio sono andata in centro per cambiare un regalo; c’era stata una nevicata durante la notte ma poi un sole scialbo e fugace ne aveva sciolto gran parte, lasciandone cumuli di fanghiglia a bordare i marciapiedi. I passanti avevano dismesso l’aria festosa della vigilia e indossato quella pigra e opulenta dei giorni di vacanza, con la quale occhieggiavano le vetrine senza più la febbre dell’acquisto e sceglievano i migliori caffè per celebrarsi con bevande calde e lussuose.
Uscita dal negozio, non avevo voglia di fare altrettanto: l’imbrunire stava arrivando e stava tornando anche il nevischio, attraverso il quale le luci delle auto e delle luminarie si percepivano più brillanti e tremolanti. Ho raggiunto la fermata del mio autobus e mi sono disposta ad aspettare insieme ad altre persone che, come me, dovevano aver collegato la ripresa della nevicata al desiderio di ritrovarsi a casa al sicuro e al caldo.
Dalla parte opposta della strada stava arrivando un altro autobus, e una donna improvvisamente ha attraversato di corsa per non perderlo, agitando un braccio come nei film si chiama un taxi. Indossava una pelliccia maculata e saltellava con un’eleganza molto parigina fra le pozze di guazza, mentre la sua mano guantata faceva cenno al conducente di aspettarla più come dando un ordine che chiedendo una cortesia.
Ė sparita dietro la sagoma del mezzo, e quando questo è ripartito ho constatato che non era rimasta sul marciapiedi.
Quell’immagine, durata pochi istanti, mi ha ricordato Philippa. Forse per la pelliccia di leopardo e le lunghe gambe inguainate in quelli che sembravano pantaloni da sci, neri, del modello elasticizzato che usava anni fa. Nell’insieme, un abbigliamento insolito e molto seducente, ma anche molto anni ’50, molto diva del cinema. E poi, certamente, la neve.

I nostri amici ci avevano invitati a passare una domenica nel loro chalet sopra Cortina. Fabrizio era di gusti costosi. “Voglio mostrarti come lo abbiamo ristrutturato”, mi disse, “è venuto benissimo. Ė proprio fantastico”. Molte cose erano fantastiche, per Fabrizio. Anzitutto il suo successo e i soldi che guadagnava. E Philippa era fantastica. Ad un certo punto della nostra amicizia – un’amicizia più mondana che autentica – aveva smesso di parlare di lei come di “una cara amica che fa l’arredatrice”, e ora la definiva “la mia fidanzata, una donna fantastica”. Svedese, o danese. Il tipo scandinavo comunque, capelli biondi e bellezza fredda.
Quella mattina la vallata era una conca di neve, su cui spiccavano i costumi colorati degli sciatori. Poiché noi due non sciavamo, ci sistemammo sul belvedere di un locale a mezza costa da cui partivano le sciovie e prendemmo il sole guardando il panorama e bevendo qualcosa mentre i nostri ospiti facevano un paio di discese prima di pranzo.
“Ė prevista una nuova nevicata”, si scusò Fabrizio, “e sarebbe un peccato perdere una giornata di sci come questa”. Un vero peccato, poiché era senza dubbio fantastica.
Io ho sempre detestato la montagna. D’inverno forse sono disposta a sopportarla, purché ci sia la neve fuori e un bel caldo dentro; ma in ogni caso non è il mio ambiente, e più tardi, mentre pranzavamo in un ristorante caratteristico stipato di boccali di peltro e cuscini tirolesi, non vedevo l’ora che tutto finisse e che potessimo tornare a casa nostra in città.
Per il caffè andammo finalmente a visitare lo chalet rinnovato. Dall’esterno, una casetta in stile cadorino, ma all’interno un sorprendente design minimale addirittura con pezzi di artigianato africano e asiatico. Nell’insieme, un’algida show-room che avrebbe benissimo potuto affacciarsi su un panorama di grattacieli metropolitani invece che su quello delle Tofane. Ma Fabrizio “Tutta opera di Philippa, un genio. Non è fantastico?” e Philippa, artefice del progetto, sorvolava sui complimenti con un sorriso duro, senz’anima. La disposizione delle stanze e l’arredamento non riflettevano alcuno spirito originale né, men che meno, femminile. Ricordo che provai molto freddo davanti alla cucina cromata e intonsa e ai bagni piastrellati di marmo.
Dopo il caffè e parecchi liquori e chiacchiere, insistettero per una passeggiata sul corso principale. Fu allora che Philippa indossò la pelliccia di leopardo. Fabrizio le camminava a fianco a testa nuda, tenendola per un braccio, ma lei tenne ostinatamente le mani in tasca. La neve cominciava a cadere di nuovo, nell’aria c’erano musiche natalizie e profumi, e il momento del non ritorno passò senza che ce ne accorgessimo. Alle quattro del pomeriggio le strade secondarie erano completamente sepolte e raggiungemmo lo chalet sprofondando nella neve fresca. Una telefonata confermò che la situazione era critica, e come dicevano alla radio era sconsigliato mettersi in viaggio se non per motivi di ineludibile necessità.
“Mi dispiace, mi dispiace”, continuava a dire Fabrizio, “ma non preoccupatevi: potete restare qui, e domani i mezzi avranno liberato le strade e potrete ripartire”. Philippa, lei, taceva sempre: la cosa le era indifferente. Noi le eravamo indifferenti. Si sistemò sul divano allungando le lunghe gambe su un pouf e partecipò pochissimo alla conversazione che imbastimmo per tirare a sera. Andò a finire che parlammo soprattutto Fabrizio e io, che allora eravamo colleghi di lavoro e qualche argomento in comune lo avevamo, ma in questo modo era giocoforza escludere gli altri. E tuttavia il silenzio sarebbe stato peggio. La televisione ovviamente non prendeva quasi nulla: cercammo di vedere qualcosa, il Circo di Montecarlo, un telequiz, un notiziario, ma lo schermo e l’audio erano disturbatissimi. Per cena comparvero del pane e del salame, una ciotolina di olive, del formaggio locale, del foie gras di gran marca e un rosso davvero eccellente. Per fortuna, perché fu l’ultima cosa con cui ci scaldammo, dato che poco dopo mancò la corrente e ci ritrovammo istupiditi al buio nel soggiorno minimale, dove il caminetto presto smise di rosseggiare poiché, come scoprimmo, era elettrico come tutti gli altri della casa. Philippa sparì con una torcia in mano, lasciandoci con Fabrizio a osservare desolati dai vetri l’intero paese al buio, salvo due o tre flebili luminosità in qualche grande albergo dove erano partiti i generatori. Quando tornò, confabulò un attimo con Fabrizio prima di sparire di nuovo su per la scala del piano notte. Fabrizio ci riferì: “Ragazzi, brutte notizie: il nostro generatore è in panne. Philippa non riesce ad attivarlo, e se non ci riesce lei che è l’esperta…”
Lei ci aspettava di sopra, sulla soglia della camera degli ospiti. Con nordica efficienza, aveva deposto sul letto una trapunta aggiuntiva e due coperte. Ci fornì anche di una torcia e ci offrì un paio delle sue pillole per dormire. Più che una premura, mi sembrò un gesto molto strano, e molto freddo. Forse per il modo impersonale con cui faceva, in fondo, ogni cosa, e trattava, suppongo, ogni persona, Fabrizio compreso.
Quella notte li sentimmo litigare. Lei aspra, lui imbarazzato, ma a lungo, con un brusio incostante e stridente che passava attraverso i muri, il corridoio e la coltre pesante sotto cui ci eravamo raggomitolati. Non sentivamo le parole, solo i toni, così secchi e odiosi da sembrare degli ultimatum, delle condanne. Il vino, il freddo, il disgusto: mi venne mal di testa, lì al buio, finché dopo mezzanotte cominciammo a sentire il ronzio dei mezzi spazzaneve nascere da lontano e crescere su piani alterni e concentrici, popolando la notte di segni di speranza. Doveva avere smesso di nevicare. Il rumore ipnotico – le fusa di un grosso gatto meccanico – ci accompagnò nel sonno.
Ci svegliammo alle prime luci. Il paesaggio che spiammo socchiudendo un’imposta era di un biancore maestoso, bellissimo e terribile. Stracci di azzurro salivano tre le vette della conca. Qualcosa di lamiera brillava intensamente su un tetto. Ora gli spazzaneve erano più lontani, e il loro ronzio era sostituito dal ritmico raspare delle vanghe degli spalatori che ripulivano le strade secondarie e gli accessi alle ville private. L’elettricità non era ancora tornata. Ci sciacquammo il viso con l’acqua fredda e provammo a scendere in cucina, facendo pianissimo perché la porta dell’altra camera da letto era ancora chiusa. Dormivano.
La tentazione di partire subito, lasciando un biglietto, era forte, ma poi decidemmo di aspettare un altro po’ per salutarli.
“Perché non proviamo a scendere in paese? Magari da qualche parte ci sarà un bar funzionante e potremo prendere un caffè. Magari informarci anche sullo stato delle strade…”
Lungo la discesa parlammo con alcune persone: il vicino della villetta più in basso, che stava spalando il vialetto, ci confermò che l’elettricità stava tornando a zone e che entro poco avrebbero raggiunto anche la nostra. Operai che scendevano a bordo di un mezzo di servizio ci dissero che le strade principali erano percorribili, ovviamente con prudenza e a velocità ridottissima. Sul corso trovammo molta gente al lavoro per liberare gli accessi ai negozi e alle case, e dai locali entravano e uscivano avventori avvolti in nuvole di alito di caffè. Bevemmo il nostro in una caffetteria deliziosa, dove la padrona, avendo capito che eravamo di città, ci riservò un trattamento cordiale rassicurandoci alquanto. Ci facemmo impacchettare una confezione di marrons glacés per i nostri ospiti e un trancio di strudel da portare a casa.
Allo chalet ci venne incontro Fabrizio, scusandosi per averci trascurati restando a poltrire. Capiva perfettamente la nostra decisione di metterci in viaggio prima possibile, approfittando della pausa di sereno. La nostra auto, al sicuro nella rimessa, partì al primo giro di chiave; lasciammo girare il motore qualche minuto perché si scaldasse, e intanto ci facemmo i saluti. Con Fabrizio riuscii a essere molto affettuosa: lo abbracciai ripensando all’increscioso litigio con Philippa di quella notte. Forse non tutto era così fantastico, nella loro vita. Lei apparve solo all’ultimo momento, e non abbracciò nessuno. Era lì, sulla soglia, avvolta nella pelliccia di leopardo da attrice di Hollywood degli anni ’50, a gambe nude e scalza. Fui subito certa che sotto la pelliccia non indossasse niente. Nell’ultima immagine, Fabrizio che si sbraccia mentre facciamo retromarcia verso il cancello, e lei sempre sulla soglia, che agita la mano destra in un blando segno di saluto. Poi raddrizzammo il muso della macchina e prendemmo la discesa, lasciando lo chalet e i suoi abitanti dietro la prima curva.

Ora non lo so, se quella di ieri in centro fosse davvero lei. In teoria è assai poco probabile, perché negli anni seguenti so che si erano divisi e lei immagino fosse tornata in patria, o almeno si fosse trasferita in una città più grande, più adatta alle sue ambizioni. Anche Fabrizio e io ci eravamo in qualche modo divisi: dapprima per motivi di lavoro, poi per il fisiologico allentamento dei rapporti che si crea quando non si è più colleghi e si frequentano altri ambienti.  Di certo, lei non l’ho più rivista. Ho visto anche sempre meno pellicce, in giro, e neanche più una sola di leopardo. Poche donne saprebbero portarla, credo: attrici, indossatrici, first ladies, forse, ma avrebbero subito tutti gli animalisti contro. Al contrario, lei a questo sarebbe rimasta del tutto indifferente.
Forse, se la donna in pelliccia che ieri ha fermato l’autobus con tanta imperiosità l’avessi guardata più da vicino avrei colto qualcosa che, malgrado gli anni trascorsi e lo sbiadimento del ricordo, me l’avrebbe fatta riconoscere con sicurezza.
O forse avrei notato che non era poi così alta come sono alte le donne svedesi o danesi, e che neanche gli occhi avevano la luce delle albe nordiche, né il volto era levigato come la porcellana delle bambole di lusso; che la pelliccia di leopardo era solo un facsimile sintetico di poco prezzo e gusto volgare; che la borsa era una Louis Vitton da marciapiede e il gesto regale con cui aveva intimato l’alt al conducente era accompagnato da una smorfia irosa. Forse l’autobus l’avrebbe condotta in un quartiere periferico di fabbricati popolari tutti simili, con giardinetti vizzi contesi da condòmini litigiosi e terrazzini squallidi dove i panni stesi penzolano grigi. Forse abita uno di quegli appartamenti pieni di magagne che nessuno vuole aggiustare, e porta a riparare le scarpe dal calzolaio avvolgendole in fogli di vecchie riviste di arredamento e architettura.
Forse era lei. Forse era proprio Philippa. Forse.

Per esempio la neve

I primi a cantare erano i galli dei monaci della Certosa, nella lontananza della campagna, quando dietro il bosco il nero della notte virava al blu scuro.
Clotilde si alzò, accese il lume e si affacciò alla stanza del fratello. Magnus era già sveglio, come ogni mattina, e con la sola testa e le mani fuori dalle coperte aspettava solo quel segnale per scostarle e balzare giù dal letto, pronto e felice come se ogni giorno fosse di festa.
Magnus era così: il corpo di un uomo di trent’anni, il cervello di un bimbo di tre, l’anima di un angelo. Le febbri che lo avevano colto quando era piccolissimo lo avevano lasciato un po’ tocco, di una stoltezza buona, fatta di candore e mansuetudine. Obbediente come un cane, laborioso come un mulo e portato alla felicità come un rondone a primavera. Sì, magari parlava poco, ma aveva il dono della sintesi e ciò che gli sarebbe riuscito complicato da dire lo esprimeva in sorrisi espliciti. E quelle mani, poi: mani d’oro, che sapevano fare di tutto.
Clotilde scese in cucina, ravvivò il fuoco e scostò le imposte: fuori era ancora troppo buio, restava una debole coda di luna al tramonto, già incalzata dall’indaco che sorgeva. Nella notte il gelo pareva essersi allentato: la campagna era molle di umidità ma non brillava più di brina. Magnus apparve sulla porta, alto e robusto e con la bocca già pronta al sorriso, e fece l’annuncio:
“Ho visto la neve”.
Se l’aveva vista, significava che l’aveva sognata; per lui non c’era differenza, non esisteva confine fra la realtà e il sogno, il suo contatto viscerale con la natura era vivo anche durante il sonno e gli parlava con la stessa certezza che percepiscono gli animali.
Clotilde gli credette subito. Gli credeva sempre. I due si scambiarono uno sguardo interrogativo, come stessero esaminando tutta una serie di fatti e programmi che non necessitavano di parole, e Magnus alla fine ripeté, con la medesima lieta sicurezza di prima:
“Ho visto la neve”.
Poi prese il secchio e uscì a mungere le vacche, mentre la sorella iniziava a impastare il pane sul piano infarinato della madia. Altri lumi si andavano accendendo nelle stalle dei casolari sparsi, altri coloni cominciavano la giornata dopo aver annusato l’aria per trarne presagi, altre donne impastavano acqua e farina e riponevano le pagnotte a lievitare accanto al focolare. Il latte fresco si scaldò sulla stufa e andò a riempire due grosse ciotole piene a metà di caffè d’orzo. I due fratelli fecero colazione continuando a lanciare occhiate alla finestra, come presi da un’urgenza che aveva tuttavia qualcosa di festoso.
C’era molto da fare, se davvero avrebbe nevicato. Clotilde rassettò velocemente le stanze, estrasse le trapunte più pesanti dalla cassapanca, spazzò i pavimenti poi raggiunse Magnus che stava rigovernando le bestie. Era nato un sole piccolo e fumoso, buono solo a spandere un chiarore lattiginoso e senza riflessi. Rabboccarono il mangime e l’acqua per le galline, i maiali, i conigli, e fissarono pezzi di tela cerata a coprire le lamiere del pollaio. Nell’orto sguarnito le verze si aprivano sfarzose, barocche, e Clotilde ne colse le due migliori per conservarle in salamoia. Con le ultime piccole mele e una decina di cachi riempì una cassetta e la mise in salvo dal gelo. Poi protesse con fascine di paglia il piede degli alberi da frutto, mentre Magnus rivoltava la terra dell’orto per l’ultima volta in quella stagione, affidandola poi alle drastiche cure dell’inverno. Avere dei compiti lo elettrizzava, e poterne contemplare alla fine i risultati gli dava alla testa dalla felicità.
Per tutta la mattina portarono avanti i preparativi per il lungo isolamento che li aspettava, e intanto il disco pallido del sole si era lasciato ingoiare da un grigiore denso come vello di pecore. La luce si era fatta spettrale, e anche la gatta si guardava intorno in attesa, senza allontanarsi troppo dalla soglia. Anche lei aveva visto la neve. Anche le cornacchie che volavano basse rasentando i pendii l’avevano vista.
Magnus salì sul tetto per verificarne la tenuta. Clotilde raccolse un cestino di uova. La gatta tornò dentro e si rannicchiò di nuovo a dormire accanto al fuoco.
Ingrassarono i serramenti esterni, i mozzi del carro, la carrucola del pozzo, gli scarponi. Magnus stipò la legnaia con nuovi ciocchi tagliati a misura e accatastati con ordine, occupando meticolosamente ogni spazio. Il fienile traboccava: con un forcone ciascuno rivoltarono il foraggio perché non prendesse di muffa, e non sentirono più il freddo.
Il nevischio cominciò intorno a mezzogiorno. Il primo a vederlo fu probabilmente il pettirosso sulla staccionata, poi lo videro anche loro dalla finestra della cucina, e terminarono la loro zuppa di castagne in piedi, con la ciotola in mano, guardando fuori dai vetri. Il cielo aveva assunto lo stesso colore e l’apparente consistenza del latte cagliato.
Magnus uscì di nuovo, stavolta per mettere al riparo gli attrezzi; prima li ripulì, li affilò, li fece brillare. Anche i suoi occhi brillavano di soddisfazione, e cominciava a brillare anche il terreno, dove la neve ancora sottile stava attaccando.
Clotilde ispezionò la dispensa: i sacchi di farina, di noci, di castagne, di patate; la damigiana dell’olio, il mastelletto di strutto; gli orcioli di miele, i vasi di composte, marmellate e confetture; le salamoie di ortaggi, le scatole di latta con le spezie seccate; i salami appesi alle travi; il sale, lo zucchero, gli scuri  bottiglioni di vino, le forme di cacio. Tutto in ordine, tutto confortevolmente in ordine.
L’imbrunire scese presto: la neve aveva preso forza e scendeva a falde più grandi, calma e sicura, senza vento né rumori, solo quella maestosa regolarità che indicava una nevicata lunga e abbondante, forse per giorni. Ormai era tutto bianco, e Magnus vi impresse le sue orme quando uscì per rigovernare gli animali per la notte, ma le tracce furono ricolmate presto e la neve ristabilì il suo ordine armonioso tutto intorno. Nel silenzio del vespero giunse ovattato il rintocco della campanella dei monaci, e parve lontanissimo. In fondo lo era, lontano, al di là di un mare di neve che ricopriva tutti i sentieri e donava nuove forme e dimensioni ai dossi e agli avvallamenti della campagna.
Cenarono alle cinque, o poco dopo, benché la notte si preannunciasse lunga, e tutte le notti seguenti. E dopo cena lasciarono aperte solo l’imposta della finestrella in cucina, per gettare ogni tanto uno sguardo alla neve che si ammucchiava agli angoli del vetro e continuava senza posa.
Clotilde avvicinò al focolare la sedia con il cuscino imbottito, inforcò gli occhialini che erano stati di suo padre e si mise in grembo i calzettoni di lana da rinforzare con nuove punte e nuovi talloni sulle vecchie smagliature.
La gatta si leccò a lungo il pelo già lucente prima di acciambellarsi con estrema cura per la notte.
E Magnus aprì sull’angolo del tavolo il suo quaderno, appuntì alla perfezione la matita con un coltellino, si diede uno sguardo contento tutt’intorno, incrociando quello rassicurante della sorella, poi cominciò, col sorriso nel cuore, a disegnare le sue macchine per volare.

nell’immagine: Claude Monet, La pie (1869)