Suis pas Charlie

No, non sono Charlie.
Non sono islamofoba, non sono razzista, non sono con chi usa mezzi di comunicazione per esprimere concetti ingiuriosi invocando la libertà di stampa. Libertà di stampa significa libertà di informare sulla verità assodata. Significa libertà da censure di regime ma in nome del diritto all’informazione veritiera. Non significa licenza di accusare, denigrare, offendere. Questo è abuso della propria posizione e esortazione all’odio razziale e di religione. Non è giornalismo, né satira.
Non è libertà di stampa pubblicare notizie infondate o non controllate o gonfiate. Poco conta che a volte, in un secondo momento, seguano delle rettifiche: intanto il male è fatto, i mostri che non erano mostri sono passati in prima pagina sotto gli occhi di tutti, le esternazioni personali e velleitarie hanno preso piede nella testa della gente, ne pilotano l’opinione, si sostituiscono alla capacità critica individuale.
E non è satira infangare sghignazzando dei valori che altri tengono per sacri: la propria famiglia, la propria religione, la propria onorabilità. Per me la satira di Charlie Hebdo ha sbagliato. Qualunque satira per me sbaglia quando sconfina oltre il limite di quel minimo di rispetto e correttezza che il più comune codice etico umano riconosce. Non è il fatto di nascondersi dietro la “satira” che può legittimare l’insulto pesante e volgare, se non addirittura gratuito: anzi, è viltà usare questo strumento critico e i canali di comunicazione di massa per attaccare con disprezzo chi non la pensa come noi.
Io non credo a questo giornalismo e a questa satira. Ne rifiuto l’arbitrio, il protagonismo, il sensazionalismo, l’arroganza e il delirio di onnipotenza. E soprattutto la presunzione di impunibilità.

Non sono ovviamente neanche per il terrorismo: non è questo – non lo è mai – lo strumento per reagire alle offese e alle provocazioni. Quindi non sono né sarò mai di quelli che dicono “Se la sono cercata”. La redazione di Charlie Hebdo? Martiri, sì, ma non della libertà di stampa. Martiri del terrorismo, la cui follia, violenza e irragionevolezza non meritano nemmeno un mio post.

No, non sono Charlie.
Ma penso a Parigi, città violata, e mi dico: ecco chi sono, je suis Paris.

De senectute

Oggi se ne va anche la seconda figlia. Fra poche ore si imbarcherà al Marco Polo di Venezia con il suo cervello e la sua laurea magistrale da 110 e lode che qui in Italia finora le hanno fruttato solo qualche mese in un call center, sei-ore-sei di supplenze e decine di lefaremosapere. Sembra che a Parigi invece sappiano cosa farsene, del suo patrimonio culturale e caratteriale.
Tornerà spesso, è vero, e andremo a trovarla, vero anche questo; purtuttavia lascia la casa per volare, d’ora in poi, in proprio. E la casa resterà ancora più vuota.
Vedere da qualche giorno tutte queste valigie in giro mi suggerisce alcune considerazioni sulla vecchiaia. La mia, che magari non somiglia a quella di nessuno. E che comunque è ancora indietro; diciamo che sta imparando.
Razionalmente (ma neanche tanto), ho cercato di analizzare vantaggi e svantaggi.

 Vantaggi:

– Prima di agire, penso. Non fosse che per ricordare cosa avevo in mente di fare.
– Sparite le emicranie, ricordi giovanili.
– Aumentata la voglia di leggere e la capacità di selezionare la letteratura dalla fuffa.
– Allentati, in quota significativa, certi freni inibitori che mi ingessavano la scrittura.
– Aboliti i miei compleanni, che cominciavano a sapere di commemorazioni.
– Libertà di non essere omologata né omologabile.
– Comodità di permettermi piccoli lussi politicamente scorretti (tipo cenare con cioccolata e pan biscotto).
– Il fascino della prima, piccola macchia su una mano.
– Liberazione dalla trappola psicologica del fasciarsi la testa prima del tempo.
– Orgoglio di poter dire: i Beatles? Io c’ero! 

Svantaggi:

– Dover ricorrere a internet perché l’elenco telefonico è scritto troppo in piccolo anche per i miei occhiali.
– Le pastigliette da prendere la sera.
– La spalla che duole quando cambia il tempo, e non è una vecchia gloriosa ferita di guerra ma una vigliacca periartrite scapolo-omerale.
– Non mi ricordo più il colore naturale dei miei capelli.
– Ho perso il gusto di seguire il tennis dopo che si è ritirato anche Agassi.
– Il frigo è coperto di post-it con promemoria.
– Nei parcheggi perdo la macchina.
– Per risparmiare memoria, ho rinunciato a imparare il mio numero di cellulare. Non avevo scelta: o quello o il pin del bancomat.
– Ragiono ancora in lire: basta moltiplicare per due i prezzi in euro.
– Calcolando, per eccesso, di vivere altri 30 anni, e confidando, per eccesso ancora più spudorato, di mantenere fino all’ultimo la luce della vista e quella dell’intelletto, quanti libri mi restano da leggere? Ecco, su questo non ci dormo. E dato che non dormo, leggo.

 Buon volo, coniglietta.

Francine, o la disfatta

Da un quadro una storia:
Edgar Degas – L’assenzio, 1876

Quando avrò pagato quest’ultimo bicchierino di assenzio, in tasca non mi resterà più un solo centesimo. Cuciti nella fodera della borsetta ci sono giusto i soldi per il biglietto di ritorno.
Non era così che doveva andare.
Nella sua lettera, mia cugina Josette mi diceva: “Vieni in città anche tu, ci si fa la bella vita”. Il suo indirizzo corrispondeva a una affittacamere alsaziana di pessimo carattere, e la stanzetta dove cominciai la mia nuova vita a Parigi era quella dove Josette riceveva tre volte la settimana quello che definiva “la sua fortuna”. La fortuna di Josette aveva un nome e un cognome che qui non è il caso di fare, perché appartenevano a un piccolo deputato della Vandea libertino e sposatissimo. Quando arrivava lui, io dovevo lasciare il campo libero, e me ne andavo in giro alla ricerca di un impiego onesto.
Il primo lo trovai come bambinaia presso una famiglia borghese. Avevano una bimbetta da vestire, pettinare e portare a spasso tutti i pomeriggi: non era difficile, e neanche pesante. Tutto andò liscio fino al giorno in cui, a causa di un acquazzone, rincasammo in anticipo sorprendendo la madre in affettuosa compagnia di un uomo che non era suo marito. Ci andai di mezzo io, che venni licenziata sui due piedi. Il lavoro era distinto, la padrona per niente.
Dalla modista a Saint-Sulpice rimasi qualche mese. Mi ero illusa che il mio lavoro sarebbe consistito nell’assistere e consigliare le signore che si provavano cappellini, invece fui relegata nel retro con altre ragazze, a cucire nastri e fiori di stoffa. Solo che io non sapevo cucire, e dalle mie mani uscivano nastri ciancicati e fiori accartocciati. Le velette, poi, tutte storte, e con punti visibili. In compenso, ero circondata dai pettegolezzi delle lavoranti, che rafforzavano la mia idea sulla serietà delle parigine.
Fiori per fiori, provai da un fiorista, ma fu anche peggio. I miei mazzi erano sbilenchi, e nel tempo che ci mettevo a comporne uno, i fiori freschi erano già appassiti.
Al Bistrot Gaulois durai un mese: l’ultima settimana lavorai gratis per risarcire tutti i piatti e i bicchieri che avevo rotto.
Josette si era trovata un nuovo amico, più generoso del deputato, che l’aveva sistemata in una pensione più confortevole. Così ora dovevo pagare da sola l’affitto per quella topaia dell’alsaziana, e cominciai a scendere sempre più in basso, accettando lavori pesanti e umilianti per i quali non ero adatta. Ho spazzato scale e cortili, ho pulito vetrate di negozi, ho grattato con le unghie i fondi incrostati dei pentoloni della mensa per i poveri. L’ultima padrona che mi ha licenziato è stata una lavandaia zoppa che aiutavo a trasportare mastelli pesantissimi pieni di lenzuola fradice. Mi mandò via quando un manico mi sfuggì di mano e rischiai di azzopparle anche il piede sano. Però le facevo un po’ pena, tanto che mi regalò un paio di straccetti per rattoppare gli orli consumati dei miei due unici vestitucci.

L’assenzio l’ho conosciuto al Quartiere Latino. I pittori squattrinati per i quali posavo ne bevevano spesso, sperperando così i soldi che promettevano alle loro modelle. Fare la modella a Parigi non è così romantico come si potrebbe credere. È un lavoro aleatorio, noiosissimo e stancante, e non paga; a meno di diventare la musa di un vero artista, cosa che però non capitò a me. Prendevo freddo in soffitte luride e venivo pagata in modo più che saltuario. L’assenzio mi aiutava a cancellare un po’ dell’umiliazione e a sentire meno la fame. Mi faceva sentire più leggera, più distaccata, meno sensibile. Ultimamente però i suoi effetti sono diventati visibili anche agli altri: l’ultimo pittore che mi ha esaminata ha trovato che il mio corpo valeva la pena di essere dipinto, ma il mio viso aveva un’aria troppo imbambolata, e lui faceva solo ritratti. Ritratti di donne belle e provocanti, non inespressive come me. Aveva ragione. L’assenzio mi faceva male, ma lo cercavo perché sapeva liberarmi, per un po’, dall’obbligo di pensare.

No, non era così che doveva andare.
Stasera mi restano solo i pochi centesimi per quest’ultimo bicchiere, poi scucirò la fodera della borsetta dove tengo i soldi per il viaggio di ritorno. Me li ha voluti dare mia madre quando sono partita, un anno fa. Io la derisi; lei restò serissima. Con quelli tornerò al paese, alla drogheria di mio padre, al caffelatte di mia madre, alle galline del pollaio, alla messa delle sette; cose povere e sempre uguali, ma sicure.
Ho la testa così stanca e il cuore così intorpidito che non faccio più caso se intorno a me è tutto così grigio, come una nebbia sporca, come un bicchiere sudicio e ormai vuoto.
Ancora un sorso, le ultime gocce, l’ultimo brindisi a un fallimento.
Non vedo l’ora di addormentarmi su quel treno.