Morgue

In quarant’anni di servizio e ormai alla vigilia della pensione, che progettava di festeggiare con un viaggetto in Italia, Sister Dorothy Kitting aveva visto di tutto: travagli di 72 ore, tisici che tossivano brandelli sanguinolenti di polmone, alcolizzati che vomitavano secchi di sangue vinoso, operai con mani ridotte a bistecche da presse, bambini ricoperti di pustole che scoppiavano schizzando pus verdastro, piaghe da decubito che mettevano a nudo l’osso sacro, persino stigmate isteriche e infezioni da bacillo megaloschiphidus. Per non parlare di certe amputazioni genitali autolesionistiche e dei numerosi casi di allucinazioni bipolari e deliri da rabdotossina, che comunque aveva sempre affrontato senza mai perdere il sangue freddo e badando bene a che la sua uniforme non rischiasse l’impeccabilità immacolata di cui andava fiera. Ma verso la fine della sua carriera ebbe un’esperienza che mise a durissima prova la fiducia in se stessa e nella verità scientifica.

Erano gli ultimi giorni del St. Bartholomew Hospital: il vecchio edificio sopraffatto da malanni senili inguaribili era stato dichiarato obsoleto, e i malati cominciavano a essere trasferiti nel nuovissimo ospedale in collina, ancora odoroso di vernice fresca, dove si diceva avessero installato le apparecchiature più avanzate e assunto personale giovane e preparato secondo le metodiche più aggiornate. Ascensori silenziosi, ampie vetrate esenti da qualsivoglia spiffero, pareti verde acqua, cromature scintillanti, asepsi cristallina, piastra operatoria integrata, camere con massimo due letti. Al St. Bartholomew le stanze ne contenevano otto, di letti.
Alla fine di ottobre, il trasferimento delle attività e degli uffici era quasi ultimato e al St. Bartholomew restava aperta un’unica ala, dove erano stati riuniti gli ultimi 17 degenti rimasti, quelli giudicati intrasportabili.
Il numero 17, che occupava da solo la terza stanza, morì quella notte. Si trattava di Morgan Potter, il vecchio barbone storico del quartiere, che si era buscato una polmonite pentalobare cadendo – ubriaco – nel laghetto del parco. E quella era, fatalmente, la notte di Halloween, una notte, fuor di retorica, buia e tempestosa; pioggia e vento facevano oscillare gli alberi del viale e infiltravano penosi spifferi nei vecchi locali mal riscaldati. Il vecchio edificio si stagliava vagamente contro le tenebre del cielo, appena identificato dai lampioni esterni e dalla luce gialla della finestra della guardiola al pianoterra, l’unica accesa in tutto il vecchio maniero.
Dopo aver preparato la salma con l’aiuto della collega Edith Peabody, Sister Dorothy si accinse a trasportarla nell’obitorio al piano interrato.
“Io resto qui – aveva detto Edith – il numero 4 non mi piace per niente, temo stia preparando un’altra crisetta di gormitospasmo”.
“Vado e torno, replicò Dorothy; poi prese il grosso mazzo di chiavi, si munì prudentemente di torcia, si chiuse bene il giacchino di lana e si avviò lungo il corridoio spingendo la barella con il fu numero 17 coperto da un lenzuolo.
Gran parte dell’impianto elettrico era stato disattivato per economia, in quegli ultimi giorni, cosicché di notte restavano accese solo fioche lucette notturne fuori dalle porte delle stanze di degenza, ma lungo i corridoi deserti che si approfondivano nel cuore disabitato dell’edificio si poteva contare solo sull’aiuto di uno stanco neon ogni due. Larghe porzioni di pavimento e muri erano fasciate di pesante penombra, che si addensava angolo dopo angolo verso il vetusto montacarichi. Era fermo al piano, e le sue fauci grazieaddio erano (molto sobriamente) illuminate dal solito neon ingiallito e sfrigolante. Dorothy spinse dentro la barella, entrò a sua volta e fece scorrere la grata suscitandone il familiare gemito di ferraglia.
– Non fare scherzi, eh – mormorò in tono minaccioso mentre premeva il pulsante del sotterraneo.
Gli scherzi del montacarichi erano famosi persino quando l’ospedale era giovane e in buona salute, figurarsi adesso che perdeva pezzi e per di più con la burrasca autunnale di quella notte che rappresentava un buon motivo per aspettarsi qualche interruzione di corrente. Tuttavia il vecchio carrettone partì. Con un sobbalzo, del resto previsto, ma partì. E addirittura prese la direzione giusta, per una volta: verso il basso, verso il buio. Adagio, e con qualche perdonabile beccheggio. Ma non si fermò esattamente al capolinea – sarebbe stato chiedere troppo – bensì qualche centimetro prima, una mezza spanna più su, e con un sussulto di tutto rispetto.
– Uffa, ti avevo chiesto per favore – bofonchiò Dorothy contrariata.
Nel silenzio del sotterraneo cavernoso e semibuio che si apriva davanti, quell’uffa rimbalzò ovattata contro una parete e parve tornare indietro come un’eco. Come due uffa invece di una. Ma Dorothy non era lì per fare conti, perché si stava industriando a far superare il dislivello alla barella con manovre energiche, e finalmente ci riuscì con un altro paio di inevitabili trabalzoni.
– Accidenti a te! – fu la sua reazione, ma stavolta si limitò a pensarla perché non era da lei pronunciare simili imprecazioni ad alta voce. Tuttavia doveva averla pensata molto intensamente, perché ebbe la netta sensazione di udirla con le sue stesse orecchie, seppure in tono più soffocato e sgraziato di come l’avrebbe espressa lei di persona, anzi per la verità anche un pochino diversa, più simile a un dannazione! che a un moderato accidenti!
Come disturbato dall’esclamazione, un pipistrello in semiletargo sbatté le ali nell’angolo oscuro del soffitto e si staccò di lì squittendo terrorizzato alla ricerca di un anfratto più nascosto. Dorothy, nel riconoscere la natura di quel sinistro svolazzare, incassò il collo nelle spalle e si protesse il capo con le braccia. Poteva accettare a cuor leggero di trovarsi da sola in piena notte in un sotterraneo con un cadavere, ma le sue ginocchia vacillavano alla presenza di insetti, ratti e soprattutto pipistrelli. Se non altro perché le comunicavano un’insormontabile sensazione di orrore verso tutto ciò che è antigienico.
– Pipistrelli. In un ospedale. Gesù! – sbuffò sdegnata.
– U-u-u! – le fece eco qualcosa, forse il vento fuori oppure il secco fruscio delle ali inamidate della cuffia contro le orecchie.
Decisa a farla finita, riprese a spingere la barella con passo risoluto fino alla porta grigia, di metallo rinforzato, dell’obitorio. La chiave girò più volte prima che la serratura di sicurezza cedesse. All’interno era freddissimo, e ovviamente buissimo; Dorothy girò l’interruttore accanto allo stipite con scarse speranze che funzionasse, e fu piacevolmente sorpresa nel vedere che, al contrario, il neon sul soffitto ce la fece, seppure dopo qualche sinistro sfrigolio, risvegliando freddi riflessi sulle mattonelle bianche delle pareti. Si diceva che l’ospedale nuovo fosse dotato di celle frigorifere individuali e di un termostato infallibile, ma qui l’impianto che garantiva la refrigerazione del vasto stanzone era discontinuo e agonizzante, e le barelle con i cadaveri vi restavano allineate in attesa il minimo indispensabile. Al momento ve n’era una soltanto, e Dorothy parcheggiò il numero 17 di fianco a essa. Intorno c’era silenzio e ordine, come ci si aspetta in luoghi poco frequentati da esseri viventi; il tavolo autoptico era spoglio e gli strumenti sul carrello d’acciaio, minacciosamente allineati con le loro lame e ganasce dalle fogge sinistre, mandavano la fosca lucentezza di un arsenale di armi bianche ben tenuto e pronto all’uso. Dorothy era consapevole di essere l’unica persona viva in quel tempio della Morte, e prima di andarsene dedicò un pensiero rispettoso allo Spirito Oscuro che vi presiedeva, il che per lei non era una vera e propria preghiera – poiché era tendenzialmente agnostica – ma piuttosto un tributo alle forze della Natura che regolavano gli eventi terminali della specie vivente, che la Scienza, di questo era certa, presto avrebbe compreso e svelato per intero, andando ben oltre le patetiche superstizioni del comune pensare.
Non fu necessario girare nuovamente l’interruttore. In quell’esatto momento, il neon si spense da solo. Più che spegnersi, morì. E con lui morirono, non tutti insieme bensì uno dopo l’altro in lugubre sequenza, gli altri che si erano sforzati di illuminare il corridoio cavernoso dei pipistrelli.
Dorothy si affrettò ad accendere la torcia e la diresse sul pavimento a indicarle la via d’uscita nel buio totale, preparandosi mentalmente a visioni ributtanti di topi o tarantole snidati dai loro anfratti tenebrosi e abbagliati dal cono di luce. Ma il pericolo veniva dall’alto: il pipistrello di prima sbucò da qualche punto delle tenebre del soffitto e le sfrecciò sopra la testa con un gemito derisorio. Dorothy istintivamente agitò le braccia per difendersi, e la torcia le sfuggì di mano schiantandosi a terra qualche metro più in là, spenta, anzi morta anche questa. Ora sì che il buio era totale. E il generatore d’emergenza, perché non era ancora scattato? A volte ci metteva un po’, un minuto, due minuti. Quanto durano due minuti in un obitorio la notte di Halloween?
Troppo per aspettare. Troppo, per i gusti di Sister Dorothy Kitting, che avvertiva nelle gambe e nelle braccia tutti i sintomi di una imminente crisi di panico. Un cerino, sarebbe bastato un cerino. Ce n’era una scatola fra gli strumenti del carrello, Dorothy lo ricordò in quel momento con assoluta certezza. Sarebbe bastato rientrare nella morgue, avanzare a tentoni, tastare qua e là cercando di orientarsi, e soprattutto avere la fortuna di cascarci sopra con le mani trafitte da un incontrollabile formicolio isterico.
La porta era rimasta accostata, con la chiave ancora infilata. Dorothy fece per spingere, e in quel momento il sangue che le pulsava follemente nelle tempie prese la forma di voci che pronunciavano frasi perfettamente intelligibili, reali.

– Molly Doherty, vecchia battona irlandese, anche tu qui?
– Non dirmi. Quel lurido ubriacone di Morgan Potter!

Dorothy sentiva le voci, non c’erano dubbi; ed era un dialogo.

Il suo corpo si rifiutò di andare oltre, ma anche di tornare indietro. Solo la sua mente, la sua bella mente agnostica, razionale e scientifica, sopravviveva alla paralisi motoria che la stava inchiodando su quella soglia.

– E che ci fai qui, splendore?
– Quello che ci fai tu, topo di fogna, ah ah ah.
– Io polmonite. E tu?
– Mi vergogno a dirlo, ma cirrosi.
– Ah ah ah, l’ho sempre saputo che io lo reggo meglio di te!
– Il solito gentiluomo…
– Ma… i tuoi capelli, la tua fulgida criniera di capelli rossi? Cosa le è successo?
– Non mi ci far pensare. Sgrovigliati e lavati. Però hanno dovuto aspettare che entrassi in coma per farlo. Mai glielo avrei permesso, da viva.
– Assolutamente, mai e poi mai. A me hanno tagliato le unghie dei piedi, ti rendi conto?
– Non hanno rispetto, lascia che te lo dica.
– Comunque non trovi che sia fantastico ritrovarsi io e te proprio qui e proprio stanotte? Non avrei potuto immaginare una morte migliore.
– Oh già, anche io. L’ambientino, la compagnia… una vera pacchia.
– Però quel montacarichi, di una scomodità…
– Alludi allo scossone? Non hanno rispetto, te l’ho detto.

Dorothy ascoltava come in trance, i piedi congelati e la testa in fiamme. Era certa, certissima, che fossero state espletate con scrupolo tutte le procedure mediche prima della dichiarazione ufficiale di avvenuto decesso, ma quella notte troppe delle sue certezze stavano subendo un attacco frontale da parte di energie malefiche che sfuggivano al metodo scientifico. Poteva spiegarsi la latenza del generatore, ma doveva assolutamente provare a se stessa di essere ancora all’altezza delle proprie responsabilità.
Fu da questo antico orgoglio professionale che trasse il coraggio di emettere un filo di voce, e lo fece improntandolo al massimo rispetto:

– Signor Potter? Mi scusi, signor Potter… ma lei è morto oppure…?
– Ah ah ah, miss Kitting, spero proprio di sì!
– E lei, signora Doherty…
– Signorina, prego. Stia tranquilla, sorella, sono morta anche io. Siamo morti tutti e due.
– Sister, ci creda: mortissimi. E non abbiamo bisogno di niente, davvero. Lei ha fatto tutto il possibile, ma noi ora stiamo bene così, vero Molly?
– Già, dici bene, Morgan. Mai stati meglio nelle nostre grame vite.
– Sentito, Sister? Perciò vada pure, vada in pace. Ci lasci da soli, che abbiamo tanto da raccontarci prima che venga mattina.

Sei mesi dopo, mentre firmava cartoline per le vecchie amiche seduta sulla terrazza di una pensioncina sulla costa amalfitana, Dorothy non avrebbe saputo ricostruire con esattezza cosa fosse successo dopo. Di fatto, il generatore era partito con vari schianti e sibili, i corridoi si erano illuminati e lei in qualche modo era risalita fino al reparto, trovando tutto tranquillo. Non ricordava se il numero 4 l’avesse poi avuta, la crisetta di gormitospasmo paventata da Sister Edith, né se nei giorni successivi al St Bartholomew si fossero verificati altri decessi. Di certo nella morgue non era più tornata, e nessuno che vi fosse sceso al suo posto ne era mai risalito raccontando storie d’orrore.
In effetti, nell’austero ambiente del vecchio ospedale quel genere di facezie era considerato di pessimo gusto.

* * *

Con questa facezia di pessimo gusto chiedo umilmente di partecipare all’Eds 27 spousev paura! bandito dalla Donna Camèl, insieme a:
– lillina con Vite malate
– MaiMaturo con 0.10.35
– Hombre con Wonderwall
– Dario con I guerrieri del caos
– Pendolante con Il collega
– Hombre con Cimici
– MaiMaturo con Il prescelto
– La Donna Camèl con Gatto nero
– Pendolante con Racconto banale

Uomo Nero, pfui

Immagino che dovrei aver paura perché è buio e sono da sola in una casa molto grande e vecchiotta che di notte emette rumori tutti suoi, cigolii, schiocchi, tonfi ovattati di natura ignota.
Perché al minimo alito di vento le frasche della pergola si strusciano sulle imposte come mani di zombi che tastano per entrare.
Perché ci sono troppe porte e finestre dalle quali potrebbero introdursi Assassini e Uomini Neri, approfittando delle tenebre del giardino e del chiarore meno che cimiteriale dei pochi lampioni della strada.
Perché il posto è fuori mano e non passa una pattuglia a pagarla oro malgrado lo stillicidio di furti in appartamento degli ultimi mesi.
Perché non ho manco più il cane, che in ogni caso non faceva la guardia perché aveva paura del buio e dormiva dentro.
Perché ci sono tante scale, corridoi, angoli, stanze oltre le cui soglie potrebbero annidarsi, nell’oscurità, i Nemici, gli Stupratori e i Troll.
E poi perché sto scrivendo una storia de paura per l’eds della Donna Camèl, con dentro ingredienti che terrorizzerebbero Jack lo Squartatore.
Invece macché: sono qua che mi godo queste notti solitarie, con la lampada da tavolo che staglia le ombre delle mie mani come lunghi ragni nervosi e il lugubre gocciolio di un rubinetto incrostato nel seminterrato. E la storia de paura dell’eds, invece di farmi paura, mi fa da ridere, anzi mi diverto così tanto che non ho nessuna fretta di finirla. Ma sono a buon punto: mi mancano giusto un paio di fantasmi.
Poi magari voi siete più impressionabili e la troverete terrificante, chi lo sa.
Io intanto mi è venuta sete e scendo in cucina a bere qualcosa. Rigorosamente senza accendere alcuna luce, come farebbero i gatti.
E io ho sempre saputo che dentro di me, e nemmeno tanto nascosto, c’è un gatto.

La guardiana di oche

Il nostro era un villaggio felice. Poche anime, una dozzina di famiglie in tutto, e ognuna aveva la sua casupola col tetto di paglia e fango, la sua mucca, le sue galline, l’orticello e il gatto. Gli uomini andavano nel bosco a far legna e a cacciare, le donne lavavano i panni nel torrente e cuocevano delle gran zuppe sui focolari; non ci mancava niente, nemmeno la benevolenza del nostro barone, Bonocòre di Monteplacido, che non ci strangolava di tasse, al contrario si accontentava di un cestino di ciliegie o una dozzina di uova ogni tanto. La valletta era inondata dal sole e punteggiata di fiori; la terra era fertile e vi cresceva ogni cosa. Ma la cosa più bella era che si andava tutti d’accordo, in armonia e senza brutti pensieri, cosicché era un piacere viverci.
Poi un giorno arrivò da noi un forestiero. Non veniva mai nessuno, perché il villaggio era così piccolo e isolato da non avere nemmeno un nome, perciò forse la nostra ospitalità fu eccessivamente entusiastica e, come capimmo troppo tardi, anche abbastanza ingenua.
Era un vecchio alto, magro e coperto di stracci, dai quali sbucavano braccia e caviglie nere di sudiciume e così stecchite che nell’insieme pareva un albero seccato da un fulmine. Portava una lunga barba incrostata e un bastone, più adatto a minacciare che a essere di appoggio. Si annunciò come un monaco predicatore, in cammino da molti anni col solo conforto della fede e delle elemosine. Subito gli offrimmo da mangiare, da bere, da riposare. Mentre si ingozzava di oche arrosto e gran boccali di sidro, noi donne gli lavammo gli stracci al torrente e gli scaldammo dell’acqua perché potesse lavarsi anche lui, ma non parve interessato a questo programma igienico – che pure non gli avrebbe fatto male – e preferì approfittare subito di un giaciglio accanto al fuoco, dove dormì tre giorni di fila. Noi, zitti per non disturbarlo. Perfino le mucche trattennero i muggiti, i neonati se ne stettero buoni buoni e nessuno si azzardò a fischiettare tornando a casa dai campi la sera.
Quando il buon uomo si svegliò, gli fu servita una nuova abbondante colazione con focacce al miele e torte di sanguinaccio, e poi ci sistemammo tutti seduti intorno a lui per sentire cosa aveva da dirci.
L’albero secco si erse in mezzo a noi, girò lo sguardo severo tutt’intorno e finalmente parlò:
– Allora – disse – vediamo: chi di voi è il pastore?
Alzammo la mano tutti quanti.
– Io ho tre capre e una vacca!
– Io di capre ne ho solo una, ma ho anche un maialino!
– Io, sette capre!
Alzai la mano anche io, orgogliosa del mio lavoro:
– Io pascolo oche! Dodici oche una più bella dell’altra, bianche come cigni e grasse… grasse come oche!
Ma non era quello che il monaco voleva sentirsi rispondere, e ci fulminò con lo sguardo:
– Pastore nel senso di pastore di anime, intendo! Chi è il vostro pastore? Qui non ho visto né una pieve né una cappella né uno straccio di chiesucola: chi è che provvede alle vostre anime? – tuonò l’albero secco agitandosi in una collera apocalittica – Volete dirmi che siete una setta di eretici, che avete rinnegato Dio e la sua Chiesa? Che siete figli del demonio?
Ecco una cosa che ci mancava. Uno crede di avere tutto, e poi scopre che gli manca un pastore di anime. No, non lo avevamo, un pastore di anime. Noi, come dire, ci pascolavamo da soli. Andavamo a messa due sole volte l’anno, a Natale e a Pasqua, al castello del barone Bonocòre, ma ci volevano due giorni di cammino, e mica potevamo permettercelo tutte le domeniche.
Era furibondo. Pareva lui il demonio, con gli occhi iniettati di sangue e il fumo che gli usciva dalle narici come un drago.
– Iddio vi punirà! Ascoltatemi bene: Iddio ascolterà le mie preghiere e vi manderà una piaga terribile, mai vista prima!
– … cavallette?
– Troppo poco!
– … mosche?
– Di più, di più!
– … rane?
– Peggio. Una piaga che non riuscite nemmeno a immaginare. La Paura!
Infatti non riuscivamo a immaginarla; perciò chiedemmo spiegazioni:
– Ma paura di cosa?
– Paura! Paura di tutto! Non una paura qualunque, ma La Paura! Vi entrerà nelle vene, vi invaderà l’anima, diventerete degli spettri! Ah, voi non sapete cosa vi aspetta! Avrete paura di voi stessi, delle vostre stesse facce, e delle cose più innocenti, come la brocca del latte, le pietre del fiume, gli uccelli sugli alberi, il sole che vi guarda, i vostri pagliericci! Vi pentirete di essere nati! Paura di giorno e di notte! Una Paura che vi paralizzerà, e non riuscirete a fare più niente, camminare, sedervi, vangare la terra, mungere le vacche, accarezzare i vostri bambini! Ah, i vostri bambini! Loro saranno colpiti quanto voi, il veleno della Paura contagerà anche loro, e sarà tutta colpa vostra! Desidererete solo morire, e non ci riuscirete, perché la Paura è più forte della stessa Morte.
Doveva essere davvero una piaga tremenda, questo lo capimmo. Ci guardavamo pallidi e tremanti e ci sembrava che la paura che già provavamo fosse più che sufficiente, come piaga, invece c’era da aspettarsene una molto più grande, che poteva arrivare in qualunque momento e distruggerci. In un attimo ogni cosa perse la luce, la gioia, i colori, e il nostro piccolo villaggio ridente ci sembrò sbiadire come un fantasma nelle nebbie spesse di una palude di totale infelicità.
Il profeta se ne andò recitando infuocate maledizioni verso il Cielo e sottolineandole con veementi gesti delle braccia; ci lasciò così, in preda alla paura di una cosa chiamata Paura.
La notte non dormì nessuno, e la mattina dopo si cominciarono a vedere gli effetti dell’anatema: una dopo l’altra, le famiglie raccolsero le loro masserizie su carretti e carriole e lasciarono il villaggio con le facce smunte e invecchiate, in mesto esodo verso il castello del barone per mettersi sotto la sua protezione. I camini smisero di fumare, le braci si raffreddarono, i cortili rimasero deserti.
Rimanemmo solo in tre. Noi tre.
La vecchissima Brigida perché da piccola si era persa nel bosco ed era stata allevata dai lupi, e da allora non aveva paura di nulla nella vita.
Malvino perché era lo scemo del villaggio e ciò lo rendeva immune da qualunque paura, vera o inventata.
E io, sola a mondo, perché ero innamorata di Malvino e l’unica cosa che mi faceva paura era vivere lontana da lui.
Continuavo a pascolare le mie dodici oche, che continuavano a essere bianche e grasse, e lui mi faceva compagnia. Ci stendevamo sull’erba, che continuava a essere verde e cosparsa di fiori, e guardavamo il cielo, che continuava a essere azzurro e pieno di sole. Io gli facevo delle domande, come:
– Ma tu davvero non hai paura, Malvino?
E lui mi dava sempre risposte bislacche, come:
– Guarda Fiammetta, guarda quella nuvola! Non ti sembra la valvola di decompressione di un acceleratore positronico di isoscuotoni delta?
– Cosa sono gli isoscuotoni, Malvino?
– Ma che bella che sei, Fiammetta! Sei bella come Michelle Pfeiffer in Tequila connection!
Chissà di cosa stava parlando, ma io capivo che era una dichiarazione d’amore.
E i giorni passavano sereni come era sempre stato, le oche ingrassavano, i meli davano frutti copiosi, Brigida ci cucinava delle focacce squisite, la valletta era il nostro paradiso e di Paura neanche l’ombra.

Alla fine dell’inverno partorii un figlio a Malvino; Brigida mi aiutò e feci tutto in poco tempo e senza troppa paura. La vita andava avanti così bene che la felicità riuscì perfettamente a farci dimenticare la maledizione che incombeva su di noi. I primi tempi ci chiedevamo se e quando sarebbe arrivata, quella maledetta Paura, ma poi ci convincemmo che forse il vecchio monaco era caduto in un burrone prima di aver pregato abbastanza. Ora invece ci chiediamo che fine avranno fatto gli altri, quelli che hanno lasciato il paese e si sono rifugiati al castello. Magari da quel giorno se ne stanno chiusi dentro quelle mura spesse, oppressi dalla paura di qualcosa che forse non arriverà mai, rinunciando a vivere sotto l’arco azzurro del cielo e tra i profumi dei prati.

Sono passati anni. Malvino e io siamo sempre insieme, e con noi ci sono ormai cinque figli, belli come me, biondi come Malvino e sani come la felicità. Brigida ha passato il secolo ma non se ne preoccupa; ogni tanto prende su e va nel bosco a trovare i suoi amici lupi. A volte si porta dietro i due bambini più grandi, che tornano a casa felici raccontandomi storie meravigliose del bosco e dei suoi abitanti. E così crescono in età e in sapienza, e noi tutti qua coltiviamo il nostro amore e non ci manca nulla.
La Paura annunciata da quel lugubre profeta, ho paura che non verrà mai.

* * *

Con questa panzanella in costume chiedo umilmente di partecipare all’Eds 27 spousev paura! bandito dalla Donna Camèl, insieme a:
– lillina con Vite malate
– MaiMaturo con 0.10.35
– Hombre con Wonderwall
– Dario con I guerrieri del caos
– Pendolante con Il collega
– Hombre con Cimici
– MaiMaturo con Il prescelto
– La Donna Camèl con Gatto nero
– Pendolante con Racconto banale

Virus

Spoiler: se ne sconsiglia la lettura a un pubblico emotivamente suggestionabile
(poi non dite che non ve lo avevo detto, eh)

La sento arrivare, sì.
Per ora è solo un sospetto, ma l’esperienza sembra riconoscerla ugualmente. Un sospetto, un alito sotterraneo che sa di freddo e umido, di tanfo di topo, di muffa. A tratti sembra soffiare più forte, più insinuante, e sempre alle spalle, nel bel mezzo del prato sotto il sole; ma se mi giro per sorprenderla gira anche lei, e mi sta sempre dietro, come un sicario. Ne parlo al femminile perché è subdola e traditrice, e il suo bersaglio è l’inerme, quello già perdente in partenza.
Come avversaria è sleale e camaleontica, una femmina  senza scrupoli, un’avvelenatrice. Non fa rumore. Non ronza, non sibila, non ruggisce; è silenziosa come una cantina, di un silenzio assordante come le pulsazioni nelle orecchie in una stanza anecoica. Il suo piano è identificare un pertugio poco presidiato, una vecchia cicatrice mal rimarginata – e ne trova, ah se ne trova – in cui iniettare il suo contagio, e poi, una volta dentro, dilagare ovunque, svegliare le spore dormienti lasciate qui l’ultima volta, colonizzarmi tutta. Vuole la mia vita, la mia giornata proficua, il fiato con cui parlo e spesso rido, le mani che non starebbero mai ferme, se lei non le incatenasse con i suoi lucchetti. Vuole staccare la luce, vuole il tutto grigio, il tutto piatto, il tutto senza forma né alcun calore, un tutto così uguale che è come essere già morti. Ma prima vuole succhiarmi fuori la mente e la volontà e tutti i sensi, la vista e l’udito e il tatto, e naturalmente al loro posto mi lascerà un vuoto smarrito, rassegnato, assolutamente inutilizzabile, come quello dei pazzi.
Mi odia, e io ricambio il suo odio con le uniche energie che riesco a difendere mentre mi prosciuga tutte le altre. A volte vorrei parlarle, spiegarmi, avviare un confronto e una trattativa. A volte invece vorrei ignorarla, lasciarla a bocca asciutta, che si fotta da sola. Meglio di tutto sarebbe non nominarla nemmeno, mai e a nessuno: distruggerla con il silenzio e con il disprezzo. Ma quando ci provo vince lei lo stesso. Perché quando azzanna non posso fare a meno di urlare, di dibattermi, di chiedere aiuto (portatemi via, non lasciatemi qui sola con lei!), e a chi intorno a me si allarma o si addolora non so come spiegare che sono di nuovo in trincea, in un cunicolo fangoso e senza appigli, a vedermela con la mia Nemica che non ho mai visto in faccia, che mi vuole a tutti i costi, che ha il solo implacabile obiettivo di svuotarmi il pensiero e venirlo a occupare lei, che si ritira ogni tanto solo per sorprendermi dopo ancora più indifesa di prima, e che conosce tutti i miei trucchi infantili – nascondermi, abbracciarmi le ginocchia, chiudere gli occhi forte forte gridando dentro – per tenerla non dico a bada ma almeno un minimo più distante, lo spazio per tentare un’ultima rincorsa e scappare più lontano possibile dalla Paura di lei.