I salami della Beppina

La saga continua con questo episodio dedicato in particolare a Hombre che c’ha il cuore tenero per le storie ostetriche.

La Beppina quel giorno si era svegliata garibaldina, e di buonora si era messa a ribaltar casa, facendo il bucato, arieggiando i materassi, spazzando da cima a fondo, lustrando i vetri.
Dopo mangiato, poi, aveva attaccato coi salami a testa bassa, e l’Anselmo, chiamato a darle una mano, aveva parecchio brontolato:
“Cos’è tutta ‘sta smania, Beppina?”
Ma lei aveva una missione da compiere:
“Voglio che sia tutto a posto e in ordine per quando nasce la creatura. E poi alle donne incinte il movimento ci fa bene”.
Ora di cena, i salami belli paciocchi sono pronti da appendere in cantina a stagionare, e la Beppina ammette finalmente di avere un po’ di mal di schiena e se ne va a letto presto col suo pancione di otto mesi abbondanti.
Verso le due si sveglia infastidita da qualcosa, un crampo, una sensazione di bagnato. Prima se ne sta ferma ferma nel buio, pensando di tirare mattina senza svegliare il marito; ma i crampi sono forti e parlano chiaro.
“Anselmo, Anselmo… – lo scuote – Anselmo svegliati, c’ho le doglie!”
Anselmo salta su tutto spaventato, che è la prima volta e non se l’aspettava di notte.
“Corri a prendere la Pierina, fai presto, che a occhio si son già rotte le acque – lo spinge la Beppina, che adesso si tiene i fianchi e il dolore è sempre più forte.
L’Anselmo si butta giù dal letto goffo come un cinghiale in trappola, farfuglia frasi di raccomandazione, di conforto, si infila gli stivali e si butta il pastrano sopra il pigiama poi si precipita giù per la scala di legno e via di corsa in strada. È sceso tra l’altro un bel nebbione, che siamo quasi ai Santi.
La Pierina non c’è. Il marito si affaccia alla porta col berretto da notte in testa:
“L’è andata in frazione Borghetto per due gemelli, sarà una roba lunga… – annuncia desolato – Ti conviene provare dal dottore”.
Il campanello del dottore suona a vuoto. Due, tre, quattro volte. Non è in casa neanche lui, Madonna del Carmine. E adesso? La Beppina è lassù da sola, il bambino è un po’ in anticipo, bisogna cercare aiuto, presto!
Le strade sono deserte, le imposte sbarrate, chiusa da un pezzo anche l’osteria, i lampioni radi e scialbi nella nebbia bassa, il selciato brilla di umidità, neanche un cane in giro.
All’Anselmo gli viene in mente una cosa, e fa un tentativo. Non è mai stato lì, ma quand’era ragazzo suo cugino gli aveva raccontato tutto: la corsia rossa, le tende di velluto, i profumi dolciastri, il grammofono. La casetta è in fondo al paese, in una stradina appartata. Picchia alla porta, con la testa in fiamme.
Gli apre la Luisona in persona, imbellettata e stanca, con uno dei suoi abiti da sera un po’ sciupati da tante battaglie. Le fa strano, proprio strano, vedere lì l’Anselmo.
“Toh, chi si vede. Cos’è che vuoi a quest’ora?”
“L’è qua il dottore? – chiede lui tutto affannato.
La Luisona fa una risatina sprezzante:
“L’è qua, l’è qua. L’è di sopra ubriaco patocco che vomita in un catino”.
All’Anselmo ci scappa un’imprecazione, subito redarguita dalla Luisona, che in casa sua non vuol sentire bestemmie.
“E adesso cosa faccio? La Beppina sta per sgravare e non trovo nessuno che ci aiuti!”
“La levatrice?”
“In frazione Borghetto con due gemelli”.
La Luisona non si perde d’animo:
“Stai calmo, vengo io – e si infila il cappottino rosso e anche il cappellino dello stesso colore con una piumetta civettuola. Già sulla porta, dà ordini alle ragazze:
“Virginia, Cesira, una secchiata di acqua fredda e tanto caffè forte, di corsa. Rimettetemi in sesto il dottore e speditemelo dalla Beppina. Ma veloci, eh”.
La Beppina quando si vede entrare in camera la donna del peccato si imbestia subito col marito:
“Mo’ come ti sei permesso? Io quella là non la voglio! – ma subito dopo un crampo fortissimo le toglie il fiato e ricade sui cuscini smaniando.
“Non far la difficile, Beppina, che son qua per aiutarti. Fidati, c’ho una certa pratica – le dice la Luisona, che già prende in mano la situazione.
Tra le gambe della Beppina si affaccia qualcosa.
“Qua ci siamo, la testa sta uscendo – annuncia la Luisona, calmissima e professionale. Poi si rivolge all’Anselmo:
“Portami asciugamani, lenzuola, qualcosa insomma. Puliti, eh. E metti a scaldare un po’ d’acqua – gli ordina.
L’Anselmo va, esegue e torna. La Beppina ormai è in un mondo tutto suo, di dolore e paura, e lui si sente un estraneo impotente e un po’ grullo.
“Metti qua, bravo – dice la Luisona, che intanto sta trafficando tra le gambe della Beppina, le tira su la camicia, le tasta la pancia.
Un altro crampo, un urlo seguito da un lamento lungo che si spegne in un ansito.
La Luisona si alza, va dall’Anselmo, gli mette le mani sulle spalle e lo spinge via:
“Te, fuori. Queste son cose da donne. Resta sul pianerottolo e vieni solo se ti chiamo – gli ordina perentoria.
Da dietro la porta l’Anselmo sente ancora quelle urla, quei guaiti, a intervalli vicinissimi, e la voce roca e rassicurante della Luisona che dirige le fasi misteriose dell’avvenimento.
“Dai che questa è l’ultima, spingi forte, di più, spingi spingi… eccoci! – la sente a un certo punto, e allora non aspetta di essere chiamato, ma entra di botto come il vento, giusto per vedere qualcosa di viscido sgusciare dal corpo di sua moglie nelle braccia della Luisona. Ha il cordone attorcigliato intorno al collo, e per lunghi istanti ansimanti la Luisona lotta furiosamente per sgrovigliarlo. Finalmente ce la fa, ma la creatura è grigiastra e non respira.
“Dammi una forbice, un coltello, qualcosa!”
“Cosa gli vuoi fare? – chiede agghiacciato l’Anselmo.
“Gli taglio il cordone, asino. Ecco fatto”.
La creatura non reagisce. La Luisona massaggia, massaggia, assesta colpetti sulla schiena, si sporca di sangue e siero il vestito rosso, e intanto la Beppina si riprende e mugola chiedendo del suo bambino.
“Ė una femmina – comunica la Luisona senza smettere di rianimare, ma la piccola ancora non respira.
“Acqua calda e acqua fredda. Due catini. Di corsa! – ordina a questo punto.
Poi, ispirata da qualche dio, immerge il corpicino alternativamente nell’uno e nell’altro, freddo, caldo, freddo, caldo, tre, quattro, più volte, sperando di scatenare qualcosa.
“Sentite, io per sicurezza direi di battezzarla subito – dice schietta a un certo punto – Com’è che la chiamate?”
“E chi è che la battezza? Dovrò mica andare a chiamare anche il prete? – sgrana gli occhi l’Anselmo, impietrito.
“In caso di pericolo di vita, può battezzare chiunque, asino – la voce della Beppina, dal letto, è esausta ma ferma e ragionevole.
“Luisona, battezzamela tu. Si chiamerà Flora – aggiunge, e alla Luisona le vengono le lacrime agli occhi.
“Nel nome del Padre, Figlio e Spirito Santo amen”.
“Amen”.
“Amen”.
E ecco, la neonata getta il primo vagito, e poi attacca un pianto urlato a pieni polmoni e stringe i pugnetti e protesta vivamente contro i metodi empirici e poco riguardosi che hanno permesso la sua venuta al mondo.

Flora, nata, rinata, battezzata, lavata e avvolta in panni caldi, è adesso in braccio alla mamma, a sua volta cambiata, ripettinata e raddolcita.
L’Anselmo, ancora stravolto ma adesso per la felicità, accompagna giù la Luisona.
“Come posso… – inizia a chiedere, ma lei lo ferma subito.
“A posto così, non ti preoccupare – e se ne va nelle sue scarpe rosse da maitresse, scontrandosi nel viottolo col dottore che arriva solo ora, i capelli bagnati e il passo un po’ rigido.
“Le manderò dei bei salami – pensa l’Anselmo – I salami della Beppina”.
Poi gli viene in mente che mandare salami alla tenutaria di un bordello non è mica tanto di buon gusto, e ripiega su una dozzina di bottiglie di vino novello.

* * *

Stavolta l’eds è dedicato al rosso e al peccato. Ecco gli altri peccatori:
Dario con Lisa Borletti
Dario con Turi Pappalardo
Dario con Lucevan li occhi suoi più che la stella
Gordon Comstock con Il peccato più grande
Fulvia con Biancaneve
Hombre con Present continuous
Gabriele con Cave cave Deus videt
Angela con Pensiero stupendo
Angela con Pensiero stupendo 2 – Rosso Jungla
Angela con Pensiero stupendo 3 – Come i Simpson
Pendolante con La confessione
Gabriele con Pesci bianchi, pesci rossi
Pendolante con Generazioni
Michela con Apple
Cielo con Il pantone. Altro che rosso
Lillina con Iago
Hombre con I primi nove venerdì del mese
Calikanto con Tabarin
La Donna Camèl con La casa rossa
Leuconoe con Sogno di un pomeriggio di mezz’autunno
Marco con Il treno rivelatore
Kermit con Aspettando Geova
Singlemama con La Messa della domenica

Mille papaveri rossi

Se avete letto il post precedente e vi siete chiesti mo’ chi è sta Gisa, qui sotto ve lo racconto.

La Gisa era una brava ragazza, in paese lo sapevano tutti. Una seria, onesta, che andava dritta per la sua strada senza grilli per la testa né debolezze. E queste doti nel suo caso erano ancora più luminose perché, oltre al resto, la Gisa era anche bella, bella proprio come un’attrice del cinema. Con quei capelli mossi naturali, gli occhi profondi, la bocca rossa, il corpo morbido sopra e sotto una vita stretta da ragazza, le gambe belle da guardare anche se portava zoccolacci o scarponi. Due vestiti solo, aveva: quello a fiori per l’estate e quello nero per l’inverno, e li teneva per la domenica. Per i lavori nei campi si metteva un paio di pantaloni frusti e una camicia vecchia di suo papà, e vangava e trasportava fascine come un uomo. La domenica lavava tutto nel mastello e stendeva nell’orto. Gli uomini le riservavano sguardi eloquenti e bisbigliavano tra loro, ma nessuno aveva il coraggio di mancarle di rispetto, anzi tutto il paese provava nei suoi confronti un sentimento di ammirazione e protezione.
La Gisa era una brava ragazza e portava addosso un’espressione ardita e severa, soprattutto per nascondere la disperazione. Suo marito glielo avevano ammazzato i tedeschi che era sposata da tre mesi, neanche il tempo di restare incinta. E lei, dal gran dolore, aveva deciso di mettersi con i partigiani. Gli portava notizie e rifornimenti su per la montagna, arrampicandosi per la mulattiera con gli scarponi e lo zaino. Quel che le chiedevano di fare, lo faceva senza batter ciglio, come se non le importasse rischiare, o magari come se non avesse il minimo dubbio sulla necessità di farlo. C’aveva paura di niente, la Gisa.

Nella baracca c’erano tutti: il Gufo, il Ciuca, il Manassa, l’Anselmo… tutti. Era buio, notte di luna nuova e nuvole strappate che lasciavano intravedere solo due o tre stelle nebbiose.
Di fuori grida una civetta, due volte, poi altre due.
“La Gisa! – avverte l’Anselmo, e gli uomini si alzano e prudentemente impugnano le armi, casomai sia una trappola.
Invece eccola, è la Gisa che si fa riconoscere e sguscia dentro, col respiro ancora accelerato dall’ultimo pendio. Tutti  la guardano, e sono tesi perché se lo aspettano quello che deve dire, se lo aspettano da giorni.
“Un camion e due jeep, dieci uomini in tutto, partono dalla Certosa a mezzanotte”.
È questo il messaggio stringato e drammatico della Gisa.
Poi si avvicina al tavolo e svuota lo zaino, mentre gli uomini cominciano a parlare tra loro, a fare conti.
“A mezzanotte dalla Certosa, vuol dire che scollineranno alla Forcola verso le due – ragiona l’Anselmo.
“Tagliando per la Pratona, di buon passo siamo là in un’ora – assicura il Gufo.
Gli uomini si guardano cercando ognuno nello sguardo dell’altro una conferma alla propria determinazione.
E intanto la Gisa rovescia sul tavolo sigarette e salami, e dallo zaino estrae con cura due fiaschi.
“Il vino da parte dell’arciprete – annuncia seria – Le sigarette invece ve le mandano le ragazze della Luisona”.
“Ragazzi – dice l’Anselmo con voce grave – se volete scrivere due righe alle famiglie e darcele alla Gisa vi do un quarto d’ora, che poi si parte”.
In silenzio, con gli occhi stretti, tutti si appartano negli angoli con un pezzo di carta, passandosi un mozzicone di matita dopo aver scritto gli ultimi saluti. Cara mamma, cara moglie, mia bella Ninetta.
Solo uno, il più giovane, prende la porta e esce nel buio. L’Anselmo e la Gisa si guardano.
“Cosa l’ha il Muccino?”
“È la prima volta. Avrà paura”.
Il Muccino è la recluta, sedici anni, lo chiamano così perché i bambocci hanno sempre il moccio al naso. Ma anche gli uomini fatti hanno paura prima di andare in azione.
La Gisa le si stringe il cuore, ma vuol far vedere che è una di loro, una combattente, e mantiene in faccia un’espressione dura:
“Vado a parlarci io – dice.
Fuori è buio e fresco. Il Muccino è solo un’ombra più nera accoccolata su un masso sotto un cielo immenso e invisibile.
Parlano un po’, poche parole strette, la laconicità dei soldati.
“Non ho paura. Solo che non ho voglia di morire troppo presto – chiarisce il Muccino, e in effetti sembra più arrabbiato che spaventato.
La Gisa si stringe sulle spalle la giacchetta di suo marito, pensando che nessuno può capire meglio di lei quello che sta succedendo al ragazzo. Dovrebbe essere a casa, nel suo letto, con i genitori che parlottano serenamente in cucina, con i libri di scuola ancora aperti sul tavolo, con il pallone da calcio dentro l’armadio, la canna da pesca appoggiata al muro nell’angolo.
“Vieni un po’ qua – gli dice, e lo prende per mano, lo conduce fra i cespugli, lo attira a terra, se lo fa stendere accanto. È col suo corpo che gli impartisce il battesimo del fuoco.

È mattina presto quando il Tobia sfreccia in bicicletta davanti alla casa della Gisa che sta dando il mangime alle galline e le fa un gesto vittorioso, che significa “Missione compiuta, tutti salvi!”
La Gisa stringe le labbra e si sente il cuore ballare in petto. Stanotte poi non ha mica dormito, è stata sveglia a girarsi nel letto aspettando mattina per sapere qualcosa. Ora che la notizia è arrivata, può fare il resto.
Si mette il vestito della domenica e prende la strada del camposanto.
“Faustino non so neanch’io cosa dirti. Lì sul momento ho sentito che era la cosa giusta e l’ho fatto. E ancora adesso non sono mica pentita. Poi se per qualcuno è peccato, pazienza”.
Il viottolo sassoso è in lieve pendio, la Gisa si sente leggera e salta da un ciottolo all’altro come se guadasse un torrente. A quell’ora la campagna ha un odore buonissimo, la vita un sapore di pane appena sfornato.
Il tedesco intrappolato dietro le linee sbuca fuori da un fosso come un topo incarognito. Ha un’arma in mano e una faccia feroce da affamato.
La Gisa si blocca, intercetta lo sguardo allucinato che le fruga il corpo e capisce tutto. Ma come il Muccino non ha paura, è solo molto, molto arrabbiata.
L’uomo si avvicina col respiro grosso e gli occhi arrossati.
“Ah no, eh, a te non te la do! – esclama la Gisa con forza, esasperata, sprezzante. Non ne può più, è sempre la stessa storia. E mo’ basta, eh.
Improvviso, un mazzo di fiori rossi le fiorisce sul petto: uno, due, dieci, un’unica chiazza, un macabro bouquet da sposa.
Cade sul ciglio, gli occhi rivolti alla chioma dei pioppi, al cielo intrecciato fra i rami più alti. Sempre più bianco, sempre più bianco.

L’han sepolta nel suo abito da sposa, han gettato sulla tomba mille papaveri rossi.

*   *   *

Stavolta l’eds è dedicato al rosso e al peccato. Ecco gli altri peccatori:
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Dario con Turi Pappalardo
Dario con Lucevan li occhi suoi più che la stella
Gordon Comstock con Il peccato più grande
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Angela con Pensiero stupendo
Angela con Pensiero stupendo 2 – Rosso Jungla
Angela con Pensiero stupendo 3 – Come i Simpson
Pendolante con La confessione
Gabriele con Pesci bianchi, pesci rossi
Pendolante con Generazioni
Michela con Apple
Cielo con Il pantone. Altro che rosso
Lillina con Iago
Hombre con I primi nove venerdì del mese
Calikanto con Tabarin 
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Marco con Il treno rivelatore
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Singlemama con La Messa della domenica

L’amore ai tempi dei nonni

Mio nonno Anselmo era una bella sagoma. Rosso di capelli, rosso in faccia, rosso il fazzoletto che portava sempre al collo. Rossa e ardente la sua fede comunista, che lo spingeva spesso a manifestazioni esuberanti non solo verbali.
La nonna Beppina, cattolica strettamente praticante, non era però da meno quanto a carattere, e quando diceva NO era NO. E quella sera il NO era assoluto e scandalizzato davanti alla richiesta, peraltro legittima, del suo sposo.
“Mo’ cosa ti salta in mente, proprio oggi che siamo stati a un funerale? – trasecola, interrompendo un attimo il suo rituale riordino dei vestiti prima di coricarsi. In camicia, lunga fino alle caviglie, le maniche con lo sbuffo tirate sui polsi, i bottoni ben chiusi fino al mento, le calze di cotone grosso ancora addosso; le avrebbe tolte solo una volta spenta la luce e recitato le preghiere, mezz’oretta di preghiere che Anselmo sopporta con paziente abitudine.
Il funerale – di quelli in grande, con la fanfara, i cavalli neri coi pennacchi, il gonfalone e la messa solenne – era quello del Venanzi, decrepito maestro elementare di più generazioni. Un sant’uomo, per quanto scorbutico, e a volte – si diceva – intemperante quanto a punizioni fisiche sui suoi scolari.
“Adesso mo’ cosa c’entra il Venanzi, aveva duecento anni e non era mica uno di famiglia! – protesta il nonno, che, ricordiamocelo, all’epoca avrà avuto sì e no un quarantacinque anni ed era uomo di grande vigore e sanissimi appetiti.
“E allora? Merita rispetto. Te non lo sai che è peccato fare certe cose il giorno di un funerale?”
“Certe cose, certe cose… fare all’amore col proprio marito non è mica certe cose, non è mica peccato, non è mica scritto sul catechismo!”
Alt, il catechismo. Su questo terreno minato, la nonna non accetta provocazioni. In piedi, con le mani bellicosamente sui fianchi, accanto al comò con le foto di famiglia e il Sacro Cuore di Gesù, sbotta con veemenza:
“Cosa parli di catechismo te che sei comunista? Dovresti vergognarti, dovresti!”
Il nonno su questo si scalda:
“Sarò anche comunista ma sono un buon cristiano. Ti ho sposata in chiesa, ho fatto battezzare i nostri figli, non bestemmio, non mi ubriaco,  a Natale e Pasqua vengo a messa, all’arciprete ci ho pure riparato il tetto della canonica a gratis, cos’altro devo fare, eh? Mo’ dimmelo te che sai tutto, sai! – e giù a dare pugni sulle lenzuola, a agitare le braccia verso il soffitto.
La Beppina mica molla, eh no.
“Sì, un buon cristiano… senti un po’, da quanto è che non ti confessi? – attacca.
“Mi sono confessato per il matrimonio. Mi sono messo in regola quella volta là, e da allora ho sempre rigato dritto. Peccati nuovi non ne ho da confessare, io. C’ho mica tempo per fare peccato, io, tutto il giorno a lavorare nei campi per mantenere la famiglia!”
Su questo ha ragione, la Beppina lo sa. Diciotto anni di matrimonio, la miseria in tempo di guerra, quattro figli da crescere, e lui, l’Anselmo, sempre a spaccarsi la schiena per loro, per lei, che la portava in palmo di mano.
Ma stasera ha un genio maligno che la pizzica sotto pelle, una voglia di litigare che non se la ricordava da anni, da quando erano giovani e lui la faceva arrabbiare perché le entrava in cucina con gli stivali della stalla.
“E i pensieracci, li hai confessati anche quelli?”
È un colpo basso, tirare in ballo le tentazioni della carne. Ma la Beppina ben conosce il temperamento sanguigno degli uomini del paese, e non resiste a giocarsi quest’ultima carta.
L’Anselmo reagisce strano, quasi perdendo il fiato. La sua voce è più sommessa, ora, e piena di dolore:
“Beppina, cosa dici. Io a te ti voglio bene, non ti ho mai mancato di rispetto, non ti ho mai tradito. Questa cosa qua te la potevi proprio risparmiare… – è improvvisamente smontato, la collera è passata in delusione, la frecciata lo coglie innocente, indifeso, incompreso. È lui a sentirsi tradito, in questa strana scaramuccia che sta prendendo una piega squallida.
“Beh, non dico tradito, ma non venirmi neanche a dire che le belle tose non le guardi quando passano, eh – cerca di rimediare la Beppina, con una voce scontrosa. E, malauguratamente, aggiunge:
“La Gisa, tanto per dire…”
All’Anselmo gli si riaccende in un attimo tutto il fuoco:
“Ah no, la Gisa no, non la devi neanche nominare la Gisa! La Gisa era una brava ragazza”.
E la Beppina, che si è già pentita, si morde le labbra e si scusa:
“Hai ragione, non dovevo, m’è scappata…”
Ma ormai la frittata è fatta. L’Anselmo la chiude lì:
“Basta, mi hai fatto passare la voglia – e si gira sul fianco tirandosi le lenzuola fin sulle spalle e lasciando la moglie contrita e imbarazzata a cercare con lo sguardo un po’ di indulgenza nell’immagine dell’Assunta sopra il letto. Ma l’Assunta la rimanda al Sacro Cuore di Gesù sopra il comò, e quello la rimbalza alla foto in cornice del loro matrimonio, con quel vestito goffo e accollato che somiglia tanto alla camiciona da notte di oggi. Forse è quella la risposta.
“Oltretutto – riprende l’Anselmo guardando il muro – secondo me sul catechismo c’è scritta un’altra cosa. C’è scritto “saranno una carne sola”. E allora sai cosa ti dico: che sei te a fare peccato. Bon, buonanotte”.
La Beppina non sa cosa fare. Quello che vede del marito è la nuca sopra il colletto liso del pigiama, quella striscia di pelle scottata dal sole e quei primi capelli grigi fra i ricci rossi che le fanno tanta tenerezza.
Le vien da pensare alle creature, i miei zii e zie fra i quattro e i quindici anni che dormono nello stanzone di fianco, due per letto, uno da testa e uno da piedi. All’Anselmo quando era sui monti con i partigiani e ogni tanto scendeva giù a notte fonda rischiando la vita solo per salutarla e spiare i bambini addormentati.
Smorza la luce e si infila a letto attenta a non smuovere troppo le lenzuola. A occhi chiusi, nel buio pieno di lucine che pulsano al ritmo del suo sangue, prova a dire un Pateravegloria più sentito del solito, si fa tre volte il segno della croce, bacia il rosario, lo mette sul comodino.
“Peccato per peccato… – pensa.
E la sua mano, leggera come quella di una timida sposa, cerca la spalla del marito.

Nove mesi dopo è nata mia madre, ed è stata lei a raccontarmi questa storia quando sono diventata grandicella e ho cominciato a farle certe domande su come nascono i bambini. Lei dice di aver sentito tutto dall’ovetto dove stava, in attesa di due genitori che la venissero a prendere. E io, adesso che sono incinta, non credo che se lo sia solo immaginato.

*   *   *

Stavolta l’eds è dedicato al rosso e al peccato. Ecco gli altri peccatori:
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Fulvia con Biancaneve
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Angela con Pensiero stupendo 3 – Come i Simpson
Pendolante con La confessione
Gabriele con Pesci bianchi, pesci rossi 
Pendolante con Generazioni 
Michela con Apple
Cielo con Il pantone. Altro che rosso
Lillina con Iago
Hombre con I primi nove venerdì del mese
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La Donna Camèl con La casa rossa
Leuconoe con Sogno di un pomeriggio di mezz’autunno
Marco con Il treno rivelatore
Kermit con Aspettando Geova
Singlemama con La Messa della domenica

Gloria mundi

“Eminenza, mi ha fatto chiamare?”
Il cardinal Bottazzi, ben contenuto nella poltroncina di velluto cremisi dietro l’ampia scrivania, giocherella con un sigaro e accoglie sogghignando il giovane segretario.
“Vieni vieni, don Venceslao, ti volevo giusto parlare”.
Don Venceslao è un bellissimo prete, giovane, atletico, impeccabile, con un’espressione maschia eppure spirituale sul volto ottimamente rasato. Dalla sua famiglia, gli Ubaldini di Sant’Ubaldo, sono usciti nei secoli prelati, diplomatici, pianisti. Da quella del cardinal Bottazzi, funzionari del catasto e produttori di celebri insaccati. Solidità economica, buone conoscenze, corporature poderose e facilità a rapporti conviviali calorosi e ben unti.
“Allora, ci siamo, domani si va a Roma – introduce il cardinale, inserendo una nota di golosa aspettativa. Il sigaro rotola fra le dita grassocce, in attesa del momento più azzeccato per essere tranciato e religiosamente acceso.
“È tutto pronto, Eminenza – lo rassicura il segretario in tono neutro e professionale. Gli sembrerebbe fuori luogo condividere palesemente la gioiosa impazienza che il suo superiore, invece, non cerca nemmeno di nascondere.
“Con i discorsi a che punto sei?”
“Li ho qui, se li vuole vedere – e Venceslao posa sulla scrivania una distinta cartellina di Bristol color crema.
“Mi fido, mi fido, li leggerò domani in aereo. E cosa ci hai messo dentro?”
“Di tutto, Eminenza, come mi ha detto lei”.
“La pace nel mondo? La giustizia, la solidarietà, i diritti umani? L’infanzia abbandonata? Il terzo mondo, il terrorismo, la perdita dei valori?”
“Tutto, Eminenza, tutto. Tutto quello che può servire per discorsi, dichiarazioni, interviste. A seconda del bisogno e del contesto, basterà mettere insieme i punti più opportuni”.
“E ci penserai tu, vero? Sei bravissimo in queste cose. Da quanto tempo è che sei il mio segretario?”
“Saranno cinque anni a settembre, Eminenza. Bontà vostra”.
“Il miglior segretario che abbia mai avuto – decreta il cardinale, con grassa soddisfazione. E avverte che è arrivato il momento di gustarsi quel profumatissimo sigaro.
“Ti dispiace, Venceslao? – l’Eminenza porge il sigaro e osserva pregustando il gesto esperto con cui l’impareggiabile segretario lo libera dall’involucro e lo decapita con precisione chirurgica.
“Tu non fumi, vero? – gli chiede con amichevole complicità.
“Occasionalmente qualche sigaretta, se devo essere sincero – risponde Venceslao badando a non tradire l’imbarazzo che quella ammissione sempre gli procura. Il fatto è che una sigaretta è l’unica tentazione cui si permette di cedere ogni tanto, quando lo stress del suo difficile ministero sale oltre i livelli di guardia. In quei momenti, sente urgente il bisogno di uscire dal suo studio – moderno, cablato, tecnologico, un ufficio attrezzatissimo e alienante – e correre fuori, nel giardino interno del Palazzo, per respirare l’aria di tutti e annusare gli odori delle piante e della vita normale. Spesso c’è un giardiniere che ramazza foglie dai vialetti, e se si tratta del vecchio Procopio si siedono vicini su un muretto e fumano insieme una sigaretta liberatoria, scambiando poche frasi che non tengono conto della differenza di rango fra loro, e nemmeno di età.
Il gran cardinale tira la prima boccata con gli occhi socchiusi dal piacere e si assesta meglio sullo schienale della poltrona. Poi, con un sorriso vagamente canagliesco, si rivolge di nuovo al giovane:
“Me lo voglio proprio godere, perché, sai, questo potrebbe essere l’ultimo”.
“Ha deciso di smettere, Eminenza? – si informa premuroso Venceslao.
“No, no, cosa dici, (piccola pausa strategica), è che se mi fanno Papa non potrò più farlo – e quasi ammicca – Perché, tu non pensi che io abbia buone probabilità? – chiede con aria innocente.
Venceslao si è irrigidito: “Non saprei, Eminenza. Queste sono cose che riguardano lo Spirito Santo, noi possiamo solo pregare”.
“Giusto, giusto, preghiamo, pregheremo. Lei mi raccomando preghi molto. E se tutto va bene, se da questo Conclave esco Papa, per lei ci sarà molto presto il cardinalato. Se lo merita!”

In giardino è sceso l’imbrunire e le foglie sul vialetto sono fradice di umidità. Il vecchio Procopio le sta raccogliendo con la scopa e le deposita sulla carriola. Si siedono accanto sulla panca di pietra vicino alla statua della Madonna, estraggono ciascuno dalla tasca il proprio pacchetto di sigarette e accendono da un unico cerino..
“Dice che diventerà Papa – sospira Venceslao pensieroso, guardando lontano.
“Reverendo, con tutto il rispetto quello lì l’è matto – sentenzia francamente il saggio Procopio.
Venceslao pensa agli enormi armadi di rovere che custodiscono il ricco guardaroba cardinalizio: le mantelline rosse, gli zucchetti, i piviali ricamati, le cotte con altissimi pizzi. Quella mattina ha passato tutto in rassegna per allestire i bagagli, e si è dilungato a sfiorare la nobiltà dei tessuti e la regalità del porpora. Il cardinale sogna invece di vestire tutto di bianco, e in quel caso che ne sarà di tutti quei costosi paramenti firmati? Venceslao chiude gli occhi e si immagina allo specchio, vestito di rosso, maestoso, ammantato di potere. Si vede un po’ più vecchio, appesantito, col viso arrotondato e roseo come quello di un neonato pasciuto, con gioielli d’oro da far luccicare alla folla, con le mani grassocce e molli da porgere al bacio di ambasciatori e potenti.
Poi in un altro specchio rivede se stesso ragazzo, seminarista in vacanza nella tenuta di famiglia, intento a studiare su antichi volumi nella biblioteca del padre, sordo ai richiami delle cugine che lo vorrebbero sul campo di tennis. E ancora la pieve del trecento dove canta la sua prima messa, e dove più avanti celebra il matrimonio di suo fratello e le esequie di sua madre. Castità, povertà, obbedienza. Domine non sum dignus.
Si scuote, cancella tutto, quello che prova è una specie di brivido ma non è febbre; casomai consapevolezza.
“Forse dovrei andare a confessarmi – annuncia a Procopio, spegnendo la sigaretta. Si affretta verso la cappella, sorridendo al pensiero che in Vaticano probabilmente è vietato fumare.

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Stavolta l’eds è dedicato al rosso e al peccato. Ecco gli altri peccatori:
Dario con Lisa Borletti
Dario con Turi Pappalardo
Dario con Lucevan li occhi suoi più che la stella
Gordon Comstock con Il peccato più grande
Fulvia con Biancaneve
Hombre con Present continuous
Gabriele con Cave cave Deus videt
Angela con Pensiero stupendo
Angela con Pensiero stupendo 2 – Rosso Jungla
Angela con Pensiero stupendo 3 – Come i Simpson
Pendolante con La confessione
Gabriele con Pesci bianchi, pesci rossi 
Pendolante con Generazioni 
Michela con Apple
Cielo con Il pantone. Altro che rosso
Lillina con Iago
Hombre con I primi nove venerdì del mese
Calikanto con Tabarin 
La Donna Camèl con La casa rossa
Leuconoe con Sogno di un pomeriggio di mezz’autunno
Marco con Il treno rivelatore
Kermit con Aspettando Geova
Singlemama con La Messa della domenica