Madame, ou la promenade

Mi sono persa nel bosco, ma mantengo la mia compostezza.
E non è nemmeno vero che mi sia persa; casomai mi sono ritrovata, in questo bosco dove comunque è impossibile perdersi. Qui gli alberi non sono sbarre opprimenti di prigione, né inciampi sotto le zampe del mio cavallo, bensì tenui trasparenze che accolgono il nostro passaggio e si fondono con le nostre forme in un unico fluire come di risacca. La natura ci accarezza sotto le nostre carezze, diventiamo esili tronchi noi stessi che si ricompongono subito dopo il nostro passaggio, mentre noi filtriamo in foglie, in cielo, in nebbiolina. È un trapasso senza ferite né cicatrici, uno scambio di dolci sfioramenti e abbandoni. Ci diamo e ci trasformiamo come le sfumature dell’acqua in una laguna tranquilla. Transitiamo in un sistema di vasi comunicanti che nulla perdono e tutto rispettano. Attimi di lunare pienezza nel vivo di giornate cruente fra le mura troppo ornate di una casa troppo grande, troppo fastosa, troppo invadente. Attimi quasi di apnea come di pesci a pelo d’acqua. Si potrebbe sentire il vecchio fruscio della Terra che gira su se stessa e regola gli orologi degli uomini, togliendo il sonno a quelli che puntano tutto sul futuro dimenticando di dissetarsi.

Tra poco tornerò, tornerò al mio posto fra i candelabri, le tappezzerie, i domestici, il grammofono che starà suonando qualcosa di Stravinskij, gli specchi e gli armadi e le fatuità da salotto, la poltrona e il cognac di mio marito, e poi ancora lui, stasera, a bussare alla mia porta. Lui che non sa, non immagina, non può nemmeno concepire che le cose possano essere molto, oh molto diverse da ciò che sembrano.

nell’immagine: René Magritte, Le blanc-seing, 1965

Quadratura del cerchio

L’ultima volta, l’ultima volta… fammi pensare.
Mi ricordo quella sciocchezza che ci ha tanto messo allegria, sai quella macchia di vino stampata dal tuo maglione al mio quando ci siamo abbracciati ridendo, e gli altri di là non se ne sono accorti. Io l’ho coperta col foulard, tu hai tirato su la zip della tuta da ginnastica, ma il luccichio di quel vino rosso ci è rimasto negli occhi anche dopo, tornati in salotto con gli amici. Tu di un’altra, io di un altro, ovviamente, secondo le regole della vita. Forse addirittura tu di molte altre e io di molti altri, oppure, diciamolo onestamente, di nessuno. E poi parlare di musica e delle solite cose, perché dalle tue parti c’è sempre una chitarra e ci sono sempre vecchie canzoni, le nostre, quelle invecchiate ma solo sul calendario, squallido foglio di carta pieno di numeri assurdi che io non so contare.
Di cosa stai ridendo adesso? Della mia faccia strana, che mi viene quando guardo indietro imbambolata e i miei occhi si stringono nella fatica di toccare ricordi?
Ridi, e lo so perché, perché quei ricordi sono anche tuoi, o meglio di quegli altri noi due che in questo stesso momento stai vedendo con me, da un’altra prospettiva, decisamente maschile. Eh sì, maschile. Non hai mai capito le donne, da quando io sono stata la prima e ti ho confuso le idee.  L’assurdo è invece che a me è successo il contrario: conoscendo te, il mio primo, li ho poi conosciuti anzi ri-conosciuti tutti, gli altri, quelli di dopo, fino a oggi. Non te l’immaginavi, scommetto. Di tante cose sbagliate che mi desti allora, questa è il regalo migliore, e l’ho così ben conservato, così ben vissuto e assorbito da riuscire a essere qui anche oggi, dopo una vita; alla metà della vita. Non è per caso.
Vuoi sapere degli altri? I miei amanti? Certo, ti racconto. Se non ti dispiace, li rimescolo un po’, non so fare i conti lo sai, quindi non tengo elenchi. Ma poi non cambia, tanto erano tutti uguali. Ti racconto, sì, se vuoi, ma non fidarti dei loro nomi e delle date, immaginati un continuum, una specie di riga dritta con pochi sussulti, uno o due picchi senza volto.
Delle tue donne, se ci tieni, se ne hai bisogno, parlami pure, e io sorriderò. Le conosco tutte, anche quelle; noi donne ci conosciamo e non ci stupiamo mai. Vediamo subito i contorni delle storie che voi ci proponete, e le viviamo il più possibile al centro, per poi spostarci ai margini a girare attorno fino a trovare l’uscita, dalla parte opposta a dove ci avevate fatte entrare con un mazzo di rose fra le braccia.
Lo so che tu non la vedi così, e non è colpa tua. I tuoi successi virili sono una raccolta di trofei, ossidati ma pur sempre trofei. Sei entrato nel corpo delle tue donne come un generale che si appropria di una città capitolata, ma sfilando narciso fra quelle strade non si è accorto delle persiane che si sbarravano senza cigolare e definitivamente al suo passaggio. Da una città all’altra e da una donna all’altra hai condotto la tua campagna vittoriosa, e solo ora, e solo davanti a me alla fine del cerchio, dove l’inizio incontra nuovamente la fine e vi si fonde, ti accorgi che dietro hai lasciato morti e feriti, e avevano tutti la stessa faccia, la tua.
Questo ti spiego oggi, ti spiego la sconfitta, e non solo la tua.
Ti toccherà credermi, perché tu sei un uomo e la donna sono io, la tua prima e tutte le altre lungo il cerchio che ti imprigiona. Io ti guardo da fuori, col sorriso che già avevo la nostra prima volta, mezza vita fa, e che non so cambiare. E da fuori, da fuori di quel cerchio ininterrotto, ti sfido all’impossibile: salta.

nell’immagine: René Magritte, Les amants – 1928

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