Train de nuit

Il notturno Venezia-Parigi è pronto a partire sul primo binario. Inservienti in livrea assistono i viaggiatori e i loro lussuosi bagagli, mentre sul binario accanto il polveroso regionale accoglie i ritardatari affannati che tornano alle loro case di campagna dopo la giornata di lavoro. È l’ultima corsa e c’è poca gente, nessun turista perché siamo in inverno, è una nottata gelida in cui i lampioni brillano di una luce siderale e i vetri si appannano al primo fiato.
Una donna, una signora in elegante mantella foderata di pelliccia, con una piccola valigia di gran firma, viaggiatrice ideale di un Orient Express, delude il capotreno gallonato già pronto ad aiutarla a salire sul treno dei ricchi, e sale senza aiuto sul trenino proletario, dal riscaldamento incerto e dai sedili chiazzati. Trova posto accanto a un finestrino, si abbassa il cappotto sulle spalle, si sfila i guanti, li ripone con cura nella borsetta, si assesta il foulard intorno al collo, controlla l’orologino d’oro bianco, poi assume una posizione composta e riservata, il volto appena girato verso il vetro.
Il regionale parte lentamente, faticosamente, con qualche cigolio imbarazzante. Il notturno di lusso è ancora lì, rimane indietro, ronfa elegantemente in attesa di partire al perfetto scoccare del suo orario con un fruscio maestoso. Raggiungerà il regionale a Mestre, lo costringerà a prolungare la sosta finché non sarà transitato e avrà preso possesso della linea principale, filando dritto e senza scosse verso la prima delle poche e prestigiose stazioni del suo percorso, che si concluderà domattina nel sole velato di Parigi che si sveglia al profumo di baguette e caffè.
Il regionale fa lo stesso numero di fermate ma lungo una tratta di una trentina di chilometri. Nel buio, toccherà sei o sette stazioncine buie e deserte anche esse, lasciando in ognuna di esse una, due persone, non di più, a intirizzirsi verso un parcheggio o una casetta illuminata.
La signora ha piccoli brillanti alle orecchie, un viso pallido e bellissimo, mani da principessa, scarpine da ballo. Una donna di classe. Nessun anello alle dita, solo uno sguardo contratto e la cornice di due piccole rughe d’espressione. Il controllore che le vidima il biglietto lo trova in regola e la saluta toccandosi il berretto.
Tratti di campagna sono costellati da luci di sorveglianza di fabbriche, altri completamente bui. Il vetro è grigiastro e solcato da goccioline che deformano la vista e rendono irriconoscibili i luoghi.  Il treno si approfonda in quel buio, nel cuore misterioso della notte. A metà di uno dei tratti di più fitta oscurità, là dove non si percepiscono le distanze né segni di vita, come negli abissi di un oceano preistorico, emerge fievole il chiarore del cartello di una stazione, la più piccola, la più sperduta, la più inutile di tutta la tratta.
È qui che scende la signora, con gesti fluidi che non lasciano segno né rumore. È sulla banchina deserta con la sua valigia di marca, la mantella ben chiusa, le scarpe che luccicano debolmente sotto il lampione. Nessuno la aspetta. Di là dalla strada, la vecchia locanda della bocciofila è sprangata per turno di riposo. Non ci sono taxi, case, semafori. Il paese dista qualche chilometro di strada non illuminata che rasenta un canale e vaste campagne ora dormienti sotto spruzzi di neve congelata. L’aria taglia il fiato, il selciato scricchiola di nevischio sotto i passi. Per molto spazio intorno ogni cosa dorme raggomitolata e ignara, con l’alibi della sopravvivenza contro l’inverno e la solitudine.
La viaggiatrice indugia solo un attimo nel cono di luce del lampione, poi lo varca e si inoltra nella notte, facendosi lei stessa notte e lasciando solo domande che si spengono.