Arrampicarsi sugli specchi

 

Attività equilibristica assai esercitata quotidianamente in tutti i campi e in moltissime situazioni. Noi italiani, dotati di poco ma indubbiamente di ciarlatana fantasia, ne siamo maestri nel mondo. E a proposito di maestri, mi viene in mente che a scuola, al liceo che ho frequentato a Trieste, nel nostro gergo si usava un’altra immagine: scavare. Nel senso di grattare il fondo del barile contenente quelle quattro misere nozioni che avevamo fatto finta di studiare per tirarne fuori un succo che, ingegnosamente diluito di sostanza e spudoratamente edulcorato da ingegnose fioriture, avesse effetti convincenti sul professore che ci interrogava, o quanto meno lo inducesse a rimandarci al posto per sfinimento con la sufficienza del furbo. È stupefacente come gli insegnanti ci cascassero sempre; i compagni invece avevano un sesto senso per queste operazioni ardite, e si scambiavano ammiccamenti e commenti ammirati (“Che scavo!“).
Quanto sopra per introdurre la spinosa problematica in cui mi dibatto da due giorni nella mia veste di sguattera di biblioteca addetta alla consulenza culturale.
Nel senso.
Arriva una fanciulla prossima all’esame di maturità (per motivi sentimentali mi rifiuto di chiamarlo col suo nuovo nome) e quindi alla ricerca di fonti per la sua tesina, che dovrà avere un indirizzo psicopedagogico. Che francamente immagino a malapena cosa può voler dire, ma magari sono solo idee mie, e anche piuttosto vaghe. Le parole-chiave della sua esposizione (detta anche elaborato) sono: “lo sguardo”, inteso come linguaggio del corpo ma non solo, e “il viaggio”, inteso come tutto ciò che è facile associargli in termini di metafora. Detto viaggio, per motivi a me ancora ignoti, è preferibile sia effettuato “in treno”, e qui lei stessa mi propone le immagini a me carissime delle locomotive e dei treni di Monet, sulle quali e sui quali ricordo di avere scritto fanfaluche personali più di qualche volta, ma è area riservata.
Arriviamo al dunque, perché l’esame si avvicina e urge aiuto per la compilazione della tesina. La studentessa, dotata – guarda il caso – di bellissimi occhi azzurro-acqua che conferiscono al suo sguardo una profondità sognante che da sola basterebbe a scrivere macché una tesina ma un capolavoro della letteratura, mi chiede suggerimenti sotto forma di libri a vasto raggio, dalla psicologia all’etologia alla narrativa all’arte ai reportage di viaggio. E qui mi sto quasi annegando, lo confesso. Il mio principio imperativo secondo il quale la biblioteca deve categoricamente offrire sempre e comunque delle risposte sta vacillando sull’orlo di un vuoto mentale. Ci annaspo da due giorni, e ho rinviato tutto a venerdì (omadonna, cioè domani!) quando la mia protetta tornerà a ritirare i testi cui ho promesso di pensare.
Se mi venisse in mente in qualcosa, però!
Che ne dite di un po’ di Chatwin? Sulle Ande avrà pur viaggiato in treno, e il suo sguardo di poeta e fotografo deve avere spaziato quanto basta per riempire un paio di capitoletti di una tesina di quinta liceo.
E di Cuccette per signora di Anita Nair? Non l’ho letto ma so che si svolge in treno, è una storia di donne eccetera eccetera, con tutti i risvolti introspettivi che è lecito aspettarsi. Poi suppongo che gli occhi scuri delle donne indiane possiedano una profondità sognante almeno pari a quella della mia giovane amica, con in più magari la vibrazione criptica degli sguardi orientali.
E lo sguardo di Monna Lisa, cosa esprime? Detto fra noi, a me dice poco, però è una citazione su cui si può ricamare per pagine e pagine, come del resto hanno sempre fatto gli storici dell’Arte. Con la Gioconda si vince a mani basse. Però col treno che c’entra?
Sicché sono qua che mi lambicco, e stanotte ho fatto sogni incresciosi incentrati proprio sulla biblioteca: perdevo le penne, mi cadevano i fogli, il computer si impallava, restavo chiusa dentro tutta la notte, e il bandolo non si trovava.
Qualcuno sa per caso dove si è cacciato? 

nell’immagine, Edward Hopper: Scompartimento C, carrozza 293 (1938)