Il Lido a febbraio

Alle dieci papà ci aspetta in fondo al binario 8. La parola d’ordine, oggi, è farlo contento in tutto e per tutto, mettergli a disposizione la giornata perché se ne ricordi a lungo, dopo a lungo averla sperata: siamo qua tutti e tre, i figli sparsi e divisi, ex-bambini in perenne infelice soggezione, ora cinquantenni ancora parzialmente infelici e ancora sufficientemente succubi, ma ormai più che altro della compassionevole tenerezza verso un padre che ci ha messo troppo ad accorgersi di noi e adesso ha pochi mezzi per recuperare gli anni perduti. Ma basta la salute, e se poi ci aggiungiamo un tanto di superiore ironia la cosa si può fare: si può fingere che vada tutto bene e che nulla di ciò che è successo nelle nostre vite abbia lasciato i segni irrimediabili che solo noi sappiamo, nel silenzio sincero dei ricordi spietati.
Con sorrisi leggeri – leggeri come la luce azzurra di questa mattina di incerto febbraio – ci avviamo in una Venezia smobilitata dai turisti e non ancora aggredita dal carnevale; le donne ben coperte portano sacchetti di spesa, gli uomini escono dai caffè col giornale sotto braccio, i vecchi si fanno guidare da cagnetti remissivi, ragazzi niente – sono a scuola – ma bimbi piccoli sepolti da sciarpe nei passeggini trasportati a braccia su e giù dai ponti. La pietra d’Istria rimanda echi di passi, i fornai profumano gli angoli di pane fresco e vaniglia di frittelle. Ho voglia di caffè, un caffè perfetto, di quelli che non si dimenticano, ma sono sola contro tre e rinuncio precipitosamente per non doverlo precipitosamente inghiottire sotto occhi impazienti.
Si passa un attimo da casa (in fondo a un campiello, alcuni gatti di una colonia felina riconoscono in nostro padre un loro quotidiano benefattore e mi concedono uno scatto)

gattiVE

per lasciare giù dei piccoli pacchi e dare a papà un giudizio collegiale sulla sistemazione a muro di alcuni quadretti che gli stanno a cuore: la mozione è presto approvata all’unanimità e con unanime soddisfazione. L’appartamento è una delizia di luce e serenità su tetti frequentati da gabbiani saggi e sedentari; ogni cosa è in ordine e splende come se quella casa fosse il paradiso finalmente raggiunto, e so che per mio padre lo è. Un po’ tardi, ma finché dura.

gabbiano

Il programma, azzardato lì per lì, ma proprio per questo destinato a esito felice, è una gita al Lido, per rivederlo com’è in inverno e come ce lo ricordiamo dal nostro passato, da altri inverni isolani senza il chiasso dei turisti che si appropria dei silenziosi viali e giardini, degli stridi dei gabbiani fra le terrazze, della quiete delle villette liberty ombreggiate da magnolie. Il vaporetto della linea 1 impiega un buon tre quarti d’ora, percorrendo prima tutto il canal grande dove si incrociano rare gondole con famiglie asiatiche, e poi il bacino che si allarga scintillando fino all’approdo di santa Maria Elisabetta; come giapponesi, mio fratello e io scattiamo foto convenzionali di palazzi, di gomene, di pontili, quasi per riscattare le nostre proprietà perdute.

Imbocchiamo il Gran Viale degli alberghi chiusi e dei negozi in ferie; il poco passeggio è quello delle famiglie del sabato, e anche qui cani al guinzaglio e bimbi in carrozzine impellicciate, ma il sole è più franco e batte sulle palazzine bianche, sui vetri degli abbaini, sulle aiole di sempreverdi che spartiscono un traffico di poche auto. Al posto del circolo degli scacchi in cui nostro padre ci tradiva con la sua meticolosa passione, un grande magazzino; al posto del raffinato negozietto di sciarpe e cappelli, videogiochi e gadget; proliferano agenzie bancarie e bar mordi e fuggi, e all’angolo con la nostra vecchia strada lo storico negozio di ferramenta, ristrutturato a vetri e cromature, espone cellulari e nient’altro. E’ invece rimasta tale e quale, ossia si è lasciata dolcemente contagiare dal degrado carezzante del tempo, la villa del dottore, a due passi da dove abbiamo abitato noi: cancellata verde ormai vocata a una quieta ruggine, stratificazioni felpate di foglie secche sui vialetti, l’ocra della facciata, fra le imposte sbucciate, stinta a tiepido rosa dal sole che le sorge di fronte. Di casa nostra, al contrario, non resta più niente. Era una palazzina liberty di grande sobrietà, con linee irregolari che cingevano un giardino di palme e cedri; cigolava, il cancello, e chiudeva male. Dall’altana dove raramente si saliva – per una scaletta di legno e di fortuna – si vedeva da un lato la laguna e dall’altro il mare.

Passiamo il ponte che non rimbomba più, da quando lastroni di pietra hanno sostituito le assi di legno che facevamo risuonare coi passi. Più avanti, il fornaio che ci forniva spartane merendine sulla strada per la scuola, poi un altro ponte su un canale quietissimo dove il sole entra d’infilata e scalda vecchi legni di barche a riposo. L’istituto delle suore dove ho imparato a leggere e a scrivere è invecchiato signorilmente e soprattutto non è più una scuola, ma un pensionato intristito: mancano le nostre voci bambine tra quei rosai e l’impeccabilità del cortile ben spazzato, mancano i disegni alle finestre e i paltoncini buttati in un angolo per giocare.
Di là dalla strada, però, c’è il mare, le spiagge recintate per l’inverno. Troviamo un varco giù da una scalinata di cemento che poi permette anche di accedere a una terrazza sopraelevata, ma la meta sicura per tutti – anche per un padre sbigottito che teme di sporcarsi le scarpe sulla sabbia – è la spiaggia libera e possibilmente – anzi, per quel che mi riguarda, irrinunciabilmente – la battigia. Li lascio indietro e prendo il mio passo, quello ventoso e esaltato che sempre mi porta verso l’acqua, qui e ovunque.
Marea bassissima e moria di granchi e conchiglie; i moli deserti, la spiaggia estesa dove si contano poche figure in passeggio meditativo, come in certi dipinti di Boudin e come fuori dal tempo. Due petroliere sfumano all’orizzonte; il faro è lontanissimo, meta di coraggiose camminate da cui si tornava con le spalle scottate e l’urgenza di un tuffo nelle acque sicure sotto riva. Alle spalle, dorme nel suo biancore primo novecento il grand hotel Des Bains, l’albergo fiabesco delle nostre fantasticherie di bambini, l’albergo del professor Aschenbach e del suo Tadzio.

DesBains

Ma è l’acqua, è l’acqua che cerco, e mentre i miei fratelli raccolgono conchiglie come mai li ho visti fare da piccoli, io è l’acqua che raccolgo, tra le mani non osando togliermi scarpe e calze per non turbare un padre tardivamente apprensivo per la salute della progenie, ma lo farei, oh se lo farei, non sarebbe la prima volta che mi arrotolo i jeans per entrare in acqua a piedi scalzi in pieno inverno, e per trovarla più tiepida, più dolce, più materna e affine a me dell’aria fredda che mi taglia il viso.

Tra me e l’acqua c’è qualcosa di infinitamente saldo, un patto naturale che mi accompagna dalla nascita, io che son nata in una stanza affacciata sul canal grande, e quella sera anche il cielo pioveva, ed è perciò che è nell’acqua che sono venuta al mondo e che per sempre poi l’acqua mi è stata madre.

All’una si torna nel mondo, nelle strade, sui marciapiedi lastricati fra vetrine semideserte e rari locali in attività; in uno offrono pizze e primi piatti, quel che manca del tutto è qualsiasi traccia di pesce, ma dei quattro sono l’unica a prediligerlo, e mi adeguo a una margherita su una cerata verde e gialla, dove i nostri bicchieri di vino lasciano cerchi rossastri. I vicini di tavolo, ce ne sono di slavi e di giapponesi, pasteggiano a lasagne e cappuccino, Dio li perdoni. Papà riesce a mangiare la sua pizza dall’interno, lasciando la crosta intatta come una corona circolare; mio fratello la divora tutta, mia sorella e io a tre quarti ci sentiamo spacciate e rinunciamo alla crostata, rinviando il dolce a una buona pasticceria dove anche il caffè abbia un aspetto e un aroma più convincente. Progetto che poi cade nel nulla, perché è ora di tornare a Venezia, e il motoscafo – stavolta la linea 52 che gira dietro l’Arsenale – è già al pontile. Mio padre fa strada col suo famoso berretto da Corto Maltese che lo fa sentire tanto uomo di marineria.

Il tragitto è frequentato quasi solo da indigeni, perché offre delle suggestioni che i non veneziani non saprebbero cogliere, abbacinati da quelle convenzionali e a buon mercato dei percorsi classici; per questo lo preferiamo, e ci lasciamo alle spalle l’isola della nostra infanzia dove sembra – sembra solo – tanto facile tornare quando si voglia, un treno, un vaporetto, che ci vuole? ma che invece è così lontana, così fuggita via da essere ormai per noi irraggiungibile e aliena. Anche se sono certa che certi angoli, certi cancelli, certi vecchi muri, qualche albero e qualche ponte ci sapranno riconoscere sempre, almeno loro, e ci chiamerebbero per nome con tenero stupore.

L’ultima immagine del Lido a febbraio è un controluce, un controluce d’amore. Si torna all’asfalto e ai fumi plebei della terraferma. Ma nostro padre, che ci saluta dal terrazzino dei gabbiani, lui è felice. L’ultima impressione che mi segue al treno è che lui oggi sia ringiovanito, mentre io mi sento di colpo più vecchia.

Ma non è colpa sua. È Venezia che mi frega sempre.

10 thoughts on “Il Lido a febbraio

  1. Grazie a entrambi! Non so quanto c’entri Proust, che però amo molto. Non amo invece i diari veri, ma questa pagina premeva per uscire, e dopo averla scritta confesso che mi sono sentita meglio.

  2. Prima di tutto grazie delle tue parole: scaldano, e sì, ci sarebbe voluto un abbraccio ieri sera per tornare alla realtà, seppure piccola e spoglia comunque rassicurante.

    E poi, presegue la mia invidia :) per come sei stata in grado di raccontarci questa giornata.

    E poi l’Adriatico, lo stesso mare che è il mio mare, il Mediterraneo che si racchiude e trasforma…

    sam

  3. belle e appropiate queste foto “di rapina”

    Mio nonno, (quello la), di lavoro portava il latte per le case a Venezia, con la barca naturalmente. Smise quel lavoro nel ’57, circa, per cui non credo proprio tu abbia bevuto quel latte, però pensarlo mi diverte!

    bacio

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