Il morbo infuria

Questa storia me la raccontava quand’ero piccola quel buontempone di mio nonno Amedeo, al quale non si sapeva mai se credere perché era un gran burlone; tant’è vero che i preti lo chiamavano sempre per le recite nel teatrino parrocchiale, e quando entrava in scena lui la gente si ammazzava regolarmente dalle risate. E di questo aneddoto di famiglia aveva fatto addirittura una scenetta, il suo cavallo di battaglia, che ogni volta mandava in visibilio il pubblico
Ma anche se lui insisteva che questo era un episodio vero, verissimo, della storia di Venezia, trascurato dai libri per miopi motivi di decenza, molti dettagli stanno a dimostrare che si tratta di un falso storico; pur tuttavia a noi nipotini piaceva un mondo, e seguitavamo a farcelo raccontare in molte varianti.
È in ogni caso vero che il nonno Amedeo, che era falegname, discendeva in realtà da una stirpe di speziali: il suo bisnonno Maffeo, protagonista di questa gustosa storiella, aveva ereditato la farmacia di famiglia a Santa Fosca. Era il suo orgoglio e quello di sua moglie Tullia, che scendeva dall’appartamento al primo piano tutti i giorni per spolverare di persona i preziosi vasi di vetro soffiato e quelli di ceramica allineati sulle solide mensole di quercia. Contenevano erbe essiccate buone per tutti i malanni, che Maffeo sapeva dosare con un bilancino di precisione e triturare diluendo con alcoli ed essenze per i preparati galenici più efficaci di tutta Venezia. Tullia, nello spolverare, si inebriava di quei tesori: l’oro del miele depurativo, il blu dell’iris, la senape color ocra, la malva rosata, la viola artemisia, il giallo dell’arnica, il nero della liquirizia, la verde menta, il tamarindo screziato.
Un giorno, mentre Maffeo nel retro introduceva il figlioletto Giambattista ai primi rudimenti dell’arte speziale, Tullia lo avvertì che c’era gente. Era entrato infatti un giovanotto marziale in divisa, una divisa i cui colori – il blu e l’azzurro imperiali – al patriota Maffeo facevano salire il sangue alla testa. Ma poiché la salute pubblica era per lui una missione, e non solo un commercio, si accinse a servirlo con competenza.
L’ufficialetto spiccicava un italiano barbaro, e i contorsionismi verbali cui si costringeva lo rendevano ancora più incomprensibile. Risultò, molto all’incirca, che Sua Eccellenza il Maresciallo soffriva di costipazione e necessitava di un rimedio. Maffeo annuì gravemente e invitò l’attendente a tornare dopo un’ora per ritirare il preparato. Poi si ritirò nel retro e pasticciò con le sue erbe e le sue essenze con insolita soddisfazione. La boccetta in cui distillò il prodotto assunse un colore ambrato che gli parve carino ravvivare con qualche goccia di blu di metilene e aromatizzare con un tocco di anice. Ne uscì un capolavoro pittorico e gustativo, che il figlio Giambattista ammirò con stupore come l’opera di un mago.
L’attendente ripassò puntuale, ritirò l’ordinazione e se ne andò battendo i tacchi con quel rumore ridicolo che a Maffeo faceva venire la voglia di spaccare qualche testa, possibilmente austriaca.
“Cosa ci avete messo, signor padre? – chiese Giambattista, ansioso di imparare.
“Mah, un po’ di questo, un po’ di quello… – tergiversò Maffeo – Principalmente senna, cascara, aloe e tamarindo, se proprio vuoi saperlo”.
E aggiunse: ” Ricetta segreta, eh: non svelarla in giro”.
L’indomani l’attendente tornò paonazzo e agitatissimo, e prese a sbraitare in tedesco. Che Sua Eccellenza era stato malissimo tutta la notte. Che tuttora si torceva dal mal di pancia. Che avevano certamente tentato di avvelenarlo. Che avevano dovuto svuotare in canale più e più volte tutti i vasi e i secchi di casa. Che in casa c’era un odore che probabilmente non se ne sarebbe più andato via. E che, naturalmente, qualcuno doveva pagare per tutto ciò, e quel qualcuno non era di certo lui, che aveva solo riferito il disturbo e chiesto un rimedio.
Maffeo lo ascoltò con espressione candida e spaesata, scuotendo la testa.
“Che sta dicendo? Con chi ce l’ha? – chiese Tullia, che era scesa tutta allarmata.
“E io che ne so, questo qua parla in tedesco – rispose Maffeo.
“Ma tu il tedesco lo conosci benissimo, hai studiato a Vienna!”
“Sì, ma lui mica lo sa – rispose Maffeo con un brillio scaltro negli occhi.
Per farla breve, fecero venire un interprete, e saltò fuori che c’era stato un increscioso equivoco. Allora Maffeo, che non aspettava altro, recitò la scena finale:
“Sua Eccellenza mi perdonerà, ma io quando ho sentito la parola costipazione ho inteso si trattasse di costipazione dei visceri. Mica mi avevate detto che era di petto. Eh diamine, c’è costipazione e costipazione! Se mi aveste detto che si trattava di costipazione di petto, gli avrei preparato uno sciroppo di malva, tiglio e miele balsamico, e a quest’ora sarebbe guarito. Un’altra volta siate più preciso, giovinotto, e magari procurate di imparare la lingua del posto, ché con i farmaci non si scherza!”
Con questo sermone severo e un flacone di ottimo sciroppo espettorante (al quale all’ultimo momento volle misericordiosamente aggiungere il tocco magico di un po’ di agrimonia, ortica e carrubo dal miracoloso potere astringente), congedò l’attendente gabbato facendolo passare per sciocco e colpevole, e per altre quattro generazioni (il figlio Giambattista, il nipote Gaspare, il pronipote Amedeo e me), si tramandò l’esilarante storia di quella volta che il Maresciallo Radetzky rischiò di morire ingloriosamente di cagotto per una dose di lassativo da cavalli.
Invece poi, come tutti sanno, Venezia fu messa a ferro e fuoco e colera (il cagotto quello vero), e io stetti sempre ben attenta a non citare la bravata dell’avolo Maffeo quando la maestra mi interrogava sul ’48.
Ma mi piaceva immaginare che il povero Manin, amico di famiglia e ultimo doge della sventurata Repubblica, fosse partito per l’esilio portando con sé almeno qualche pasticca rosa per il crepacuore e un bottiglino di assenzio verde alga per l’insonnia, sapientemente preparati dalle mani del miglior farmacista della città.

*   *   *   *   *   *

Per l’EDS arcobaleno della Donna Camèl, insieme a:
Tramonti di Angela
La grande bolgia di Stefano
Il professore delle favole di Hombre
Pinocchio di Dario
Avventura al Policlinico di Il Coniglio Mannaro
Magia al Polo Sud di Michele
Madonna segreta di Gordon
Cicciuzzu Babbaluci di Dario
Temporale primaverile di Pendolante
Di padelle ne è piena la Storia di Pernonsprecareunavita
Frammenti di vita di Lillina
I custodi del lunedì mattino di Marco
Spifferi di luce di Stefano
Alice nel paese dei cosplayer di Leuconoe 

Le buonanime

Io fino a due anni fa facevo la postina. Che portare la posta a Venezia non è mica un scherso come in teraferma. Prima di tuto in teraferma hanno i motorini, e qua no; qua tuto a piedi, su e giù dai ponti, dentro e fuori le calli, e l’acqua alta e i numeri civici balordi che se non conosci a memoria tuto il labirinto ti trovi a girare in tondo come un imbriago. A noi a un certo punto ci hano dato un carello tipo per la spesa, almeno quelo, no come una volta che avevamo la borsa a tracolla che pesava un acidente. Ma anche col carello non è per gnente un scherso fare i gradini, provate voi di teraferma.
Poi un giorno mentre tiravo su il carello in retromarcia sul ponte dei Ferri un ebete di un garzone che spingeva in giù il carello suo di frutta e verdura ci è scapato di mano e mi è finito adosso tuto belo pesante sul calcagno destro, un male dell’ostrega che sono quasi svenuta.
Sei mesi avanti e indietro dall’ospedale ho fato, per via che il tendine si è belo che roto, e dàgli di operassioni e gessi e fisioterapie, gnente da fare, sono rimasta zoppa, orcocàn.
E sicome che sono come si dice categoria proteta per via di quele due o tre rotelline difetose che ho in testa dala nassita, il Comune mi ha trovato un altro lavoro da far meno fatica, quatro ore al giorno la matina presto, a pulire i musei.
Mi va anche bene perché c’è i assensori e poi non è gnanche tanto dificcile, basta passare con calma una bela scopa e un straccio bagnato, non c’è gnanche mobili da spostare.
L’altro giorno c’era un nebione della malora e dai finestroni del museo Corèr si vedeva tuto bianco, che i vetri non sembravano gnanche sporchi. Ero là che tiravo il straccio su un pavimento quando sento qualcuno fare il mio nome.
“Vardé vardé siora mare, la Ceschina!”
Guardo di qua, guardo di là, nesuno. Saranno le mie rotelline, ho pensato, e ho ripreso a lavorare.
Ma quella là insisteva, con una vocetta da maestrina, tuta smorfiosa:
“Ceschina, sei proprio tu! E non ci saluti?”
Salutare chi, che intorno non c’era nesuno, solo quadri da spolverare.
“Guarda qua, Ceschina, siamo le tue buonanime – mi sento dire.
E infati erano delle buonanime ma di qualcun altro, non certo mie, dentro un quadro tacato sul muro, un quadro anche belo devo dire, con ste belle figurine tute in ghingheri sedute in salotto, che guardavano proprio dala mia parte. Ho piantato lì il spassolone e ci ho risposto educatamente:
“Sì sono la Ceschina ma voi chi sareste che non vi ho mai visto?”
“Eh, tu non ci conosci ma noi sappiamo tutto di te, vero siora mare? – dice la donna giovane, quela col vestito bianco e il ventaglio.
Siora mare è quela di sinistra, con la scuffia in testa e un gato in braccio.
“Ceschina, ti presento le tue bisavole: mia figlia Ortensia e i miei nipoti Zanetta, Carlina, Eleonora e Maffeo. Io sono la bisavola Eugenia e questo è il gatto Momi. Ti piacciono i gatti, vero?”
“Eccome che mi piacciono, ho un gato anch’io e guarda che combinassione si chiama Momi anche lui!”
“A Venezia i gatti si chiamano quasi tutti Momi – dice la figlia, l’Ortensia, con l’aria di una che i gati ci fano un po’ senso, sta smorfiosa.
Il fantolino vestito da bambolotto ataca a ridachiare, e sua mama ci fa:
“Tasi ti, buratìn!”
La fiola granda, la Zanetta, vuol far la sua figura e dice:
“Certo che la Ceschina ha proprio un’aria di famiglia: è zoppa anche lei come l’avo Bartolomeo”.
E qua tute cominciano a contarsela, guardandomi come se fussi una casseta di sardèle sul banco del pessivendolo, e io capisco e no capisco, parlano di certa gente che davero non ho mai sentito prima.
“Non dire stupidessi, l’avo Bartolomeo era zoppo perché a Lepanto si era preso delle schegge di cannone in una gamba. Piuttosto come l’ava Prosdocima, che era badessa a Santa Maria delle Grazie e aveva la gotta”.
“Le mani però sono quelle dell’avo Barba Frutariòl, che aveva banco e bottega a Rialto”.
“Gran lavoratore anche lui!”
“Sì ma gli occhi? Precisi a quelli dell’ava Dolfina, che abitava giusto di fronte alla Veronica, la Veronica Franco”.
“Stessi capelli dell’ava Lucinda, che aveva sposato quel tessitore alla Giudecca. E il naso mi ricorda tanto quello dell’avo Pompeo che dirigeva il coro a San Marco. Dico bene?”
“Senti però, Ceschina – mi fa la vecchia con un modino tuto afetuoso – scusa se te lo dico, ma quel camiciotto celestino non ti sta mica bene, sai. Ti sbatte. Ah, se potessi andare di là, ho una cassapanca piena di damaschi e merletti, ti regalerei volentieri qualche braccio di stoffa per farti un bell’abito come si deve!”
“E io – si mete in mezo il magiordomo sull’angolo della porta – offrirei ben volentieri alle Vostre Signorie una cioccolata, un rosolio, ma purtroppo il Maestro mi ha messo qua in piedi, né dentro né fuori, e non posso servire nessuno…”
Io sono là tuta esterefata che li ascolto, le bele cose che dicono, le maniere da signoroni, tuta quela bela creanza, e un poco mi vergogno col mio camisoto celeste e il spassolone.
“Ma voi come fate a sapere tute queste cose della famiglia?”
“Eh, mia cara, noi siamo qua da tanto di quel tempo, vediamo tanta di quella gente, ascoltiamo tante di quelle storie…”
“E giriamo il mondo, anche. Parigi, Londra, Madrid, San Pietroburgo… All’estero i musei sono pieni di italiani, qua invece vengono quasi solo i foresti. Mah.”
“Ma siamo proprio sicuri che siamo parenti? Perché a me mi par tanto strano…”
“Sicuri, sicuri. Venezia è piccola e siamo tutti un po’ parenti. Avevi sì o no un bisnonno orologiaio a San Marcuola? Ecco, quello era pronipote di un pronipote di questo fantolino qua, Maffeo, che adesso se la ride come un macaco”.
“Ma senti che notissia… Se ce la raconto ala Sonia sicuro che non ci crede…”
La Sonia è la mia compagna di pulissie; al momento è due salette più in là che finisce di lavare per tera, ma fra due minuti verà a chiamarmi perché è ora di andar via.
Bisogna salutarsi, perché a le buonanime non ci piace che i estranei ascoltano i fati nostri, e fra i complimenti mi fano tante racomandassioni:
“Ceschina, i capelli: fatteli più vaporosi!”
“Ceschina, un bell’impacco di glicerina sulle mani tutte le sere!”
“Ceschina, la cipria!!!”
“E stai bella dritta con la schiena!”
Poi ariva la Sonia e quelli si fano tuti muti, mi sembrano anche un po’ più pallidi, sono tornati fissi imobili dentro il quadro, là in posa come prima più di prima.
“Cafè? – mi fa la Sonia davanti al distributore.
E io: “Macché cafè, oggi ti ofro io la ciocolatta al Florian, qua in Piassa!”
“Ciò, e da quando ti xé deventada ‘na Signora? – la Sonia spalanca i ochi.
Mi meto a ridare:
“Sempre stada, vecia mia, sempre stada”.

(nell’immagine, Pietro Longhi: La famiglia Sagredo, 1752)

L’appartamento

L’ultimo cliente era uscito da venti minuti.
Alle diciannove e trenta, Augusto Linassi, libraio in Campo santa Margherita, spense le luci, chiuse il negozio e percorse i pochi metri che lo separavano dall’ambulatorio dell’amico dottor Attilio Cavagnis. Lo faceva almeno due volte la settimana da oltre vent’anni; passare, affacciarsi un momento solo per un saluto, oppure aspettare che terminasse e poi uscire per fare un pezzo di strada insieme, chiacchierando sobriamente.
La sala d’attesa era vuota, e un lieve mormorio segnalava la presenza di un ultimo paziente dietro la porta chiusa. Non ci mise molto.
Attilio lo ricevette serenamente rilassato sulla sua poltrona dietro la scrivania in disordine.
“Finito?”
“Credo”.
Seduti uno di fronte all’altro, si guardavano con vecchi sorrisi virili, assaporando la soddisfazione in cui si stemperava la stanchezza di fine giornata.
“Allora”.
“Allora – ripeté Augusto. Era un vezzo quello di rimpallarsi l’esordio della conversazione, la quale avrebbe dovuto svolgersi senza fretta, su un registro disteso. Potevano farsi compagnia per interi minuti così, senza parlare, senza affrontare alcun tema, solo lasciandosi scorrere addosso quei preziosi istanti di serenità e reciproca confidenza.
“Tanto lavoro? – chiese il medico.
“Non mi lamento. C’è ancora chi regala libri a Natale, per fortuna. Meno di una volta, ma c’è”.
“Adesso va il tecnologico – notò Cavagnis.
“E tu, qua? Arrivata l’influenza?”
“Il solito, i malanni di stagione, i certificati di malattia, sai com’è”.
“Guarda che io non mi vaccino, sai. Il vaccino è per i vecchi, io mica sono vecchio. Ho la tua età!”
Risero affettuosamente.
“Casomai dovrei vaccinarmi io, che passo tanto tempo in mezzo a gente piena di bacilli”.
Poi, come ricordando improvvisamente la sua missione, chiese:
“E Liliana come sta? Tanto che non passa a misurarsi la pressione”.
“Liliana sta da dio, figuriamoci. Sempre in giro a conferenze, corsi di yoga. La pressione se la fa vedere dal farmacista, dice. Costa 3 euro”.
Attilio si alzò prendendo l’apparecchio:
“Vieni qua che a te la misuro io, e gratis”.
“Tre euro! – ribadì Augusto, scoprendo il braccio.
“E vai sempre a remare? – chiese Attilio dopo la misurazione.
“Come no, come no. E do dei punti ai giovini, anche”.
“Ci credo, ci credo. Sei sempre stato uno sportivo”.
“Com’era la pressione?”
“A posto”.
Tornarono a sedere l’uno di fronte all’altro.
“Cosa fai a Natale? Perché non vieni da noi? Liliana mi ha raccomandato di invitarti”.
“Vado a Padova da mia sorella, ma ti ringrazio lo stesso”.
“Attilio, da quant’è che siamo amici?”
Attilio Cavagnis la conosceva, quell’ouverture. Saltava fuori nei momenti di maggiore abbandono, di più intima confidenza, e preludeva a un piccolo viaggio nella commozione della memoria.
“Dall’asilo, Augusto. Dall’asilo”.
“Suor Geromina, te la ricordi?”
“Eccome se me la ricordo. Cicciottella ma con manine piccolissime. Anche i piedi. Piedini minuscoli. E il resto, tutto cicciottello”.
“Ci soffiava il naso fino a farci uscire il cervello”.
“E il liceo, te lo ricordi?”
Domande che non necessitavano di risposte.
“Tu sei l’unico con cui non abbia fatto a pugni al liceo. Perché portavi gli occhiali” – rievocò Augusto, e aggiunse, togliendoli per pulirli col fazzoletto:
“E adesso li porto anch’io”.
Tacquero per qualche istante, poi fu il medico a prendere in mano la situazione:
“Ma tu volevi dirmi qualche cosa, vero?”
I loro sguardi, da dietro le rispettive lenti, si fecero complici. Il libraio assunse un’espressione da cospiratore e si sporse sulla scrivania per dare un tono più teatrale alla sua rivelazione:
“L’appartamento. Quello sopra il negozio. Due piani luminosi più soffitta abitabile – qui una pausa strategica, per poi subito dopo raddrizzarsi e annunciare trionfante: “L’hanno messo in vendita”.
La notizia era delle più felici.
“Ma non mi dire!”
“Il vecchio è morto l’anno scorso, e ora il figlio, l’australiano, sì, quello emigrato in Australia, si è deciso a venderlo. Sì sì. Già”.
“E tu hai fatto un’offerta, immagino?”
“Fatta. E accettata. Lunedì firmiamo”.
Il dottore rimase senza fiato:
“Bel colpo, vecchio mio! Erano anni che gli stavi dietro!”
“Anni. Anni che me lo sognavo anche di notte. Casa e bottega, capisci.  Così il giorno che mi stufo di lavorare affido il negozio a qualcuno e mi limito a scendere qualche ora ogni tanto, per vedere se tutto va come dico io”.
“Son contento, son proprio contento”.
“Sai, mia moglie è figlia unica e ha ereditato bene. Io ho messo da parte un po’ di soldi, e poi ho il mio appartamento ai Frari, che se la banca mi fa un prestito posso venderlo bene, con calma”.
“Ottimo, ottimo. Passerete un bel Natale. Son proprio contento – ripeté Attilio, sul viso un largo sorriso.
Poi, stringendosi un po’ nelle spalle come per timidezza, si decise a mettere in tavola la propria, di notizia.
“Anch’io, Augusto, ho una cosa da dirti. Niente di che, in confronto alla storia dell’appartamento, però nel suo piccolo per me è importante”.
Augusto lo incalzò con aria canagliesca:
“Dai, spara!”
Attilio Cavagnis abbassò gli occhi, congiungendo le mani sul piano della scrivania in atteggiamento imbarazzato, ma felice.
“Un editore mi ha offerto un contratto. Il mio libro uscirà tra poco”.
Augusto saltò su dalla sedia alzando le braccia giubilante:
“Alleluia, era ora! Il tuo romanzo storico, quello sulla peste a Venezia! Grande lavoro, grande affresco, io l’ho letto in bozza e posso ben dirlo!”
“Allora, lo venderai nel tuo negozio? – chiese Attilio ridendo.
“Gli farò una vetrina apposta, scherziamo. Ti organizzerò una presentazione al pubblico e farò venire mezza città. Ah, lascia fare a me che conosco tutti!”
“Vedremo, vedremo… – si schermì il medico, notoriamente schivo.
“Qua ci sta uno spritz! – tuonò Augusto alzandosi – Alla nostra salute, alla salute di due vecchi veneziani che alla loro non fresca età ancora sono capaci di fargliela vedere!”

Sulla soglia sostarono a infilarsi i guanti osservando benevolmente i passanti con i pacchetti lucenti, le luminarie rosse e oro, le vetrine dei caffè appannate di vapore.
Augusto alzò gli occhi annusando il cielo buio sopra i tetti invisibili.
“Sai cosa ti dico? – annunciò in tono sapiente – C’è aria di neve”.

 nell’immagine, un’opera di Renato Ambrosi

Serenissima

1755, un pomeriggio di autunno inoltrato, nel palazzetto Sandonà sito in fondamenta della Misericordia, sestiere di Cannaregio.
I musici arrivano per tempo e si danno subito da fare per verificare se la sala da musica sia stata predisposta in modo confacente; fanno spostare sedie e tavolini, misurano a occhio, fanno e disfanno con grande gravità finché non sono ragionevolmente soddisfatti. Poi chiedono di essere lasciati tranquilli qualche minuto per accordare gli strumenti e gli spiriti prima dell’arrivo degli invitati, e da dietro la porta iniziano a formarsi suoni di prova, per ora slegati, interrotti, bislacchi, come stonature di goffi principianti. Io, servetta dodicenne venuta dalle campagne, me ne sto nei paraggi senza farmi vedere ma attratta da enorme curiosità, e mi chiedo come questa accozzaglia potrà, fra poco, trasformarsi in qualcosa di compiuto, ordinato e così paradisiaco come il mio padrone si aspetta.
Frattanto sopraggiungono gli ospiti. Ecco fare ingresso la figlia maggiore maritata, con quel suo goffo marito infelice al guinzaglio, ecco i suoceri intimiditi e ansiosi di far buona figura. Ecco poi alcuni notabili con le mogli, nonché il medico e il farmacista, tutti più mondani e a loro agio; ecco la marchesa Dolfin, donna affascinante malgrado l’età, la cui purissima nobiltà è finita sul lastrico. A ognuno ritiro pastrani, cappelli, bastoni da passeggio; le signore si liberano di mantelle e manicotti, esibendo gli abiti buoni con scollature peraltro modeste data la natura severa dell’intrattenimento.
E finalmente i maestri concertisti annunciano di essere pronti. Per generosità del padrone, i due battenti della porta vengono lasciati spalancati, e i servi sono ammessi sulla soglia, la cuoca, le fantesche, perfino il vecchio gondoliere, un omone grande e grosso, ruvidissimo e di così poche parole da passare per muto. Si affollano discretissimi e rispettosi, gli occhi lustri.
Io, la più piccola e l’ultima arrivata, la sguattera di cucina, mi accuccio da sola sul primo gradino della scala, gelido e duro, in attesa di capire quale rito a me sconosciuto si stia per celebrare. Inchini, riverenze, sommessi complimenti, poi gli ultimi scalpiccii, gli ultimi cigolii delle sedie, gli ultimi fruscii degli abiti ben accomodati, e si fa silenzio.
E da questo silenzio germoglia, sboccia, si apre, si alza e vola sotto gli alti soffitti verdeazzurri una voce unica, un arpeggio di corde di leggiadria estrema, e si articola disunendosi e poi riunendosi come un filo di seta, o d’oro fino; si snoda, si sgomitola, si divincola lieve sopra le parrucche e i bassi pensieri, se ne va su a galleggiare per l’aria intrecciando note a cascata, una dopo l’altra e una dentro e sopra l’altra, in una armonia mirabile, e quest’armonia pare nascere ininterrottamente da se stessa e sostenersi da sola, spandersi sopra le nostre teste, occupare poco per volta tutto lo spazio alla ricerca di un altro spazio più vasto dove distendersi, di un cielo libero, magari dalle parti dove sta il Paradiso degli angeli, unico posto degno di questa infinita bellezza, troppo perfetta per appartenere al mondo dei mortali. Ė dapprima un liuto gentile, ma a momenti imperioso, poi trascinante, poi cadenzato come una danza sui prati; ma presto si inserisce un altro timbro, quello di un oboe, cui il primo strumento sembra aver voluto solo aprire la strada, e da esso si sprigiona intensa e pungente una nuova melodia, malinconica come una pioggia autunnale, poi mistica come una preghiera, e prende il posto del brio trasformandosi in dolce e accorato tormento, come se raccontasse un dolore fine, e lo accarezzasse con infinita grazia. Un incanto mi assale la mente e tutte le membra, illanguidendo, erodendo, scavando sotto la scorza dei sentimenti nascosti, frugando l’intimità più vulnerabile, trafiggendo i sensi e il cuore col più tenero e crudele stiletto. Nessuna voce sa essere più struggente di quella di un oboe quando è triste, e in questa improvvisa rivelazione avverto la mia piccola anima spezzarsi in un dolce mare di lacrime.

Devo essere svenuta.
Mi sveglio sul mio lettuccio in soffitta. Accanto a me il padrone, il dottore, la cuoca, mi sventolano con un ventaglio, mi toccano la fronte, la trovano rovente.
“Cos’è stato? – chiedo in un sussurro.
Qualcuno, misericordioso, mi dà la spiegazione:
“Musica. Si chiama musica. Ora dormi tranquilla, va tutto bene”.

*  *  *

Contributo all’eds della donna Camèl, insieme a:
Incanto, di Dario
Io, l’amministratore e la signora grassa, di Hombre
Il viaggio, di Pendolante
Quel certo non so che, di Lillina
Io non c’entro, della Donna Camèl
Mercoledì, di *cla
Tutto quello che avreste voluto sapere sul seNso ma non avete mai osato chiedere, di Hombre
Cinque, di effe 

nell’immagine, Concertino, di Pietro Longhi, 1741

Per un piatto di risi e bisi

Il doge Pierpaolo Strigheta stava sulle spine. Era il giorno di San Marco, il 25 aprile, la festa più importante dell’anno, ma il suo momento di gloria rischiava di essere offuscato da almeno tre pungenti preoccupazioni.
Anzitutto, le scarpe.
Fin dal mattino, scendendo la Scala dei Giganti, si era accorto che erano troppo strette, e infatti i piedi cominciarono a fargli male ai primi passi della lenta processione verso la Basilica che a lui spettava di guidare tra ali di folla e attorniato da notabili, canonici e confraternite.
Poi il caldo scoppiato all’improvviso, con quel sole che dardeggiava e lo faceva penare sotto il peso del broccato d’oro e soprattutto di quel maledetto corno ducale che gli faceva sudare e prudere la testa.
Terzo e non ultimo cruccio, era il pensiero del pranzo: per l’occasione aveva invitato mezzo mondo, da Venezia e da fuori, ambasciatori, ammiragli, porporati, governatori dei possedimenti d’oriente, rappresentanti di tutte le aristocrazie. E per fare migliore figura aveva fatto arrivare un cuoco francese di gran fama, ma non c’era stato il tempo di metterlo alla prova, e ora non gli restava che sperare di non essere stato troppo imprudente.
La cerimonia durò un’infinità. I piedi, la testa e lo stomaco del doge mandavano segnali di impazienza, ma bisognava rispettare i tempi ieratici del Patriarca, che non la finiva più di salmodiare e di benedire la folla di polpe e falpalà devotamente raccolti sotto le cupole della Basilica.
Finalmente arrivò il momento di sciogliere le righe e tornare al palazzo, al salone dove era imbandita una tavola opulenta sotto la quale il doge Strigheta non si fece scrupoli a togliersi le scarpe (un valletto, sgusciando non visto fra le gambe dei convitati, gliele sostituì con più comode babbucce di panno purpureo).
Alle spalle del seggiolone dorato del doge, prese posto l’Assaggiatore, che in quei tempi di veleni e coltelli era un accessorio indispensabile alla corte dei potenti, e benché Strigheta non avesse molto da temere gli piaceva esibirlo come un ornamento in più della sua serenissima maestà.
Si trattava di un certo Zanetto, un ragazzotto di umili origini ma volonteroso e di buon contegno, che aveva accettato quell’ingrato compito perché era un gran ottimista; e in effetti finora gli era andata bene.
Cominciò la sfilata dei vassoi, e la vista degli arrosti infiocchettati, delle zuppiere fumanti, dei crostacei lucenti e delle polentine tremebonde suscitò negli illustri commensali una estasiata ammirazione e accese gli occhietti del Doge di malizioso orgoglio.
Ma prima c’era da assolvere la prova dell’assaggio, un rito serissimo che tutti avrebbero seguito con grande compunzione pronti a perderla subito dopo passando ai fatti.
“Alora, Zanetto – esordì il Doge, calandosi tutto tronfio nella parte – cossa ti me disi de sto fasàn in umido?”
Zanetto infilzò sulla sua forchettina professionale un bocconcino di fagiano, lo studiò coscienziosamente tra lingua e palato, lo triturò delicatamente con i soli denti anteriori e dopo diversi istanti lo inghiottì. Ma la sua faccia aveva assunto un’espressione perplessa.
“Cossa te par, ghe xé el velén? – chiese ansiosamente il Doge.
“Veleno no, Ecelensa, però…”
“Però?”
“Però con tutto il rispetto non è fagiano. Ė gallina”.
Il Doge impallidì. Anche parecchi convitati impallidirono. Gallina al pranzo di San Marco? Ma che scherzi erano quelli?
“No ghe credo. Gò ordinà fasàn, e gà da essere fasàn. Ti xé ti che no ti capissi gnente – reagì rudemente il Doge. E aggiunse:
“E magari ti me dirà che sto figà a la venexiana no xé figà? – insinuò sarcastico.
“Ė fegato senza dubbio, Ecelensa, però…”
“Però? Sentìmo, sentìmo – sbottò Strigheta, sull’orlo della disperazione.
“Però è di bue. Il fegato alla veneziana deve essere di vitello, non di bue, Ecelensa”.
Strigheta decise di incassare, e con l’ultimo brandello di dignità giocò il tutto per tutto: i risi e bisi, il piatto tradizionale veneziano, immancabile alla mensa dei dogi il giorno del santo patrono e venerato al pari di esso. Il vero banco di prova della venezianità, il suo biglietto da visita nel mondo. La zuppiera fumava e il suo contenuto ancora dava gli ultimi scoppiettii di dolce bollore al candore del riso e al verde prato dei piselli, infiorati di delicate foglioline di prezzemolo occhieggianti in mezzo alla burrosa mantecatura.
“Te sfido a trovarghe dei difeti. Avanti, tasta sta bontà – invitò il Doge, e si adagiò contro lo schienale assaporando la vittoria.
“Ecelensa ilustrissima, col vostro permesso non ho bisogno di assaggiarla per poter dichiarare con la massima onestà che questa roba è una porcheria, e vi spiego perché. I piselli sono del tipo a buccia dura, il riso è troppo cotto e la consistenza è troppo densa. Se volete mangiarla, male non vi farà, ma resta una porcheria”.
Il verdetto era inappellabile. Un margravio e un paio di dame svennero. La Dogaressa nascose  lacrime desolate in un fazzoletto, uno dei maggiordomi si strappò le vesti e l’arcivescovo di Costantinopoli esorcizzò la tavola con un crocefisso tempestato di rubini.
Il Doge era impietrito. La disfatta, completa. Da domani il mondo avrebbe saputo qual era il trattamento che la Serenissima Repubblica riservava ai suoi ospiti e alleati più prestigiosi, e quanto miserevole fosse l’inettitudine del suo più alto rappresentante.
“Ti me gà fato far ‘na figurassa, ma ti me la paghi. Via, in presón, e doman te fasso tagiar la testa – ordinò.
Così Zanetto, per amor di verità, finì ai Piombi, e il pranzo venne annullato con grande scorno e malcontento di tutti. Prima di sera tutti gli ospiti ripartirono in fretta e furia per i loro paesi lontani, senza nemmeno lasciare la mancia ai gondolieri e ai facchini. La Dogaressa si chiuse in camera a singhiozzare, mentre il Doge cercò sfogo alla collera e alla vergogna prendendo a calci e sberloni tutti quelli che gli capitavano a tiro.
Zanetto, nella cella angusta e senza finestre, era tuttavia sereno. Aveva quel fatalismo tipico degli ottimisti e delle anime semplici, e poi sapeva di essere nel giusto. Da devoto suddito della Repubblica, mai avrebbe ingannato il Doge, nemmeno per farlo contento. Se la morte per decapitazione era il prezzo da pagare, pazienza: sarebbe morto onesto. Ma comunque non si poteva mai dire, forse un’ultima speranza c’era ancora.
Quando si dice i casi della vita… Quell’ultima speranza si concretò verso sera: venne il capo carceriere e gli chiese se avesse preferenze per l’ultima cena, dato che sarebbe stato giustiziato all’alba. E fu qui che Zanetto ebbe l’illuminazione.
“Vorrei tanto – disse – un piatto di risi e bisi cucinato da mia mamma”.
“Tuto qua? Ti te contenti de poco – lo derise la guardia, e mandò a chiamare la madre di Zanetto, certa Carlina Fornasier che faceva la lavandaia nel sestiere di Castello. Nell’apprendere che suo figlio era rinchiuso ai Piombi in attesa della pena capitale, la forte Carlina non si perse d’animo e si mise subito al lavoro per esaudire quell’ultimo desiderio e chissà, forse, fare in modo che non restasse l’ultimo davvero.
Intanto Zanetto aspettava, fiducioso; e faceva bene, ma il tempo passava e non arrivava nessuno a portargli la cena.
Erano ormai le nove e s’era fatto buio completo quando sentì scorrere i catenacci e il custode beffardo di prima, ancora più beffardo, gli annunciò:
“Fora, ti xé libero. Fiol d’un can, la te xé andada ben…”
“Libero?”
“Come l’aria”.
“E i miei risi e bisi?”
“Li gà magnai el paron. Povero Strigheta, el gera drio andar in leto co na scuela de pan e late quando xé rivada to mama co quel pignaton de risi e bisi, quell’odorin che girava per tuto el palasso e svegiava anca i morti… Ti dovevi véderlo come che el se gà butà sul piato: tre, el ghe n’ha magnà. E dopo el gà ciapà el cogo par la giacheta e el lo gà licensià sensa tanti complimenti”.
“E mia mamma?”
“La xé de sora in cusina drio contarsela co la parona, Va’ va’, destrìghite, che le te speta”.
In cucina la Carlina e la Dogaressa, completamente rasserenata, chiacchieravano placide come vecchie amiche. Quando entrò Zanetto, sua madre stava dicendo:
“Tolte nota, Clelia. Per far i risi e bisi come che Dio comanda, ghe vol i bisi de primissia, quei picinini e dolsi, e ghe va anca na puntina de sùcaro. Ti fa un desfritìn co ogio, butiro, segola, ti ghe buti i bisi e ti fa andar finché li se infiapisse ma sensa desfarse. El sal ti ghe lo meti a la fine, senò i vien duri. El brodo gà da esser otimo, de polastro o de manzo. A tre quarti de cotura ti zonti el riso e ti fa cusinar finché non vien tuto belo cremoso, ma ocio che no gà da esser né tropo fisso come un risoto né tropo sbrodoso come na minestra. La giusta via de mezo. La xé questa, la vera arte dei risi e bisi”.

A mezzanotte erano ancora tutti e tre in cucina; Carlina insegnava a donna Clelia i segreti dello zabaione e delle sarde in saor, e Zanetto si era addormentato su una panca con la pancia piena e rosei progetti per il suo futuro di capo cuoco a Palazzo Ducale.

*   *   *

Questo piatto rientra nel menu dell’eds Ipogeusia lanciato dalla gastronoma Donna Camèl
Gli altri commensali sono:
Dario con Sarde a baccaficu
–  Hombre con Caffè alla Norma
Cielo con Lettera alla donna che ami sulla felicità e il ragù
Singlemama con La prima volta che ho mangiato i piselli davvero
Lillina con Lu vinu
La Donna Camèl con Mia nonna era google
Dario con Bastardi affucati
Pendolante con Antichi sapori
Effe con Raneclode 

(nell’immagine, Processione di san Marco, di Gentile Bellini)

L’orecchio assoluto

In ritardissimo ma ben convinta e orgogliosa di partecipare all’eds della Donna Camèl, eccomi qua, con uno dei miei soliti raccontini dove ficco dentro un po’ di cose che mi sono molto care: Venezia, il settecento, la musica. Prima non ho proprio potuto: sapete com’è, a volte si ha il tempo ma non una storia, io ultimamente ho le storie ma non il tempo per scriverle.

Ah povero Serafino, che ne sapevi tu! Tu, l’ultimo di sette fratelli e sorelle, tu il più gracile e pensieroso, quello buono solo a cogliere frutti dagli alberi mentre gli altri vangavano la terra e spaccavano la legna, robusti e fracassoni quanto tu eri – e sei – così magrolino e inappetente, così sognatore e suggestionabile, così fatto di un’altra pasta.
Vai, vai – ti hanno spinto, emozionati, tutti quanti, tuo padre, tua madre, i parenti, perfino i pochi amici un po’ invidiosi della tua fortuna.
Vai vai, Venezia è la città della musica, dei teatri, degli artisti – ti lusingava il curato, quello che per primo si era accorto del tuo talento e ti aveva messo in mano il primo violino.
Vai,Serafino, tu sei nato per diventare un grande musicista, qui non è posto per te, non sarai mai un contadino, non imparerai mai a zappare i campi, a tirare il collo alle galline, non sei fatto per questa vita.
Ne parlavano tutti insieme la sera intorno alla tavola, facendo conti e progetti con gli occhi lustri. Tua madre ti ha rimesso a nuovo un abito di velluto che a tuo padre era venuto stretto molto presto, e ha venduto un’oca delle migliori per farti fare un paio di scarpe eleganti, con la fibbia, da città. Per i concerti, diceva, commovendosi. Tuo padre ti ha contato il denaro in un sacchetto di stoffa e ti ha fatto un discorsetto da uomo, poi ti ha salutato stringendoti la mano come si fa tra adulti, la sua mano grossa e coriacea e la tua gentile e affilata, quella di un violinista, di un angelo.
E hai lasciato il paese, un barcaiolo ti ha traghettato col tuo piccolo baule attraverso un largo braccio di laguna e tu hai finalmente messo piede nella città dei tuoi studi e del tuo incantevole futuro.

Ma nessuno ti aveva parlato delle sue pietre umide, del salso che corrode i muri, dell’ombra perenne di certe calli profonde, dell’acqua che in inverno lambisce le soglie delle case e a volte risale i primi gradini, col suo odore di marciume e il suo ritmo lento e indecifrabile. Non ti avevano detto che nella tua stanzetta in affitto avresti visto una lama di sole solo due ore la mattina, e per il resto del tempo non ci sarebbe stato alcun caminetto a scaldarti mentre studi su un tavolino traballante o provi la tua musica con i mezzi guanti. Non immaginavi quanto avresti rimpianto il grande focolare sempre acceso nella cucina di casa tua, né che avresti dovuto accontentarti di un catino di acqua fredda per lavarti il viso all’alba e di uno scaldino che a malapena ti intiepidisse il lettuccio umido la notte.

Nel salone dove prendi le lezioni con altri giovinetti c’è lo stesso freddo, e solo un po’ più di luce dai finestroni; il maestro, un ex-gesuita suscettibile e intransigente, non tollera lamentele né incertezze, pretende l’impossibile dai suoi allievi e in particolare da te, che ti sei rivelato così promettente fin dal primo giorno, tu con quel dono divino, il tuo orecchio assoluto. Ma già dopo qualche settimana è cominciato il tormento dei geloni, che ti deformavano i sensibili polpastrelli e li gonfiavano e ulceravano fino a farti piangere in silenzio mentre ti imponevi di suonare lo stesso. Il contatto con le corde del tuo strumento li fa sanguinare, ed è così umiliante, oltre che doloroso.
I soldi poi non bastano mai: l’affitto, la lavandaia, le lezioni, i libri. I tuoi scarpini eleganti e inutilissimi non hanno retto ai primi geli e li hai fatti riparare due volte, prima di rassegnarti a procurarti degli stivaletti più dozzinali ma perlomeno più caldi e robusti.
Eppure la passione per la musica finora ha mantenuto viva la tua volontà di resistere; a volte hai suonato per nessuno, sui gradini di un ponte o di una chiesa, per il solo incanto di dialogare con il tuo strumento che sempre risponde con voce celestiale al fiotto di felicità che ti nasce in cuore quando pensi alla musica.
Ma ora, povero Serafino, c’è questa nuova disgrazia che ti sta rodendo l’animo da qualche settimana: quel rumore che ti assilla notte e giorno, ti attraversa la testa da un orecchio all’altro, diabolico e multiforme, a volte come uno stormire di fronde, altre come risacca di alta marea, oppure rauco come un soffio forzato dentro una canna, talora persino simile a uno squittire di topo, o un pigolio di uccelli impazziti. Ti dà poca tregua, ti toglie il sonno, ti smagrisce di giorno, ti rende un povero spettro febbrile che ha perso l’orientamento e rabbrividisce anche alla solita eco dei suoi passi, diventata un rimbombo insopportabile. E il peggio è che anche le note del tuo violino sono contagiate da questo male, ed escono distorte, irriconoscibili, raschianti come le unghie su un vetro, uno strazio che va peggiorando e ti spegne pian piano non solo la dignità ma la stessa voglia di vivere.
Ti torna alla mente il nonno. Era sordo, sordo quasi del tutto. Anche lui sentiva rumori inesistenti, e se ne lamentava con tutti, e tuttavia non avvertiva le parole di chi cercava di consolarlo. Il suo mondo era popolato di stridori e cigolii, e null’altro. E ora sta succedendo a te, povero Serafino, che hai solo diciassette anni e quell’orecchio assoluto che avrebbe dovuto fare di te un grande artista.
L’ultima notte in bianco ha fatto di te uno straccio. Senza la musica, non hai più motivo di vivere, non hai più alcun futuro su cui contare, alcuna gioia da raccogliere.

Sei in cima a un ponte. Ti affacci alla spalletta. L’acqua del canale è verde e pigra, e muove lentamente con sé qualche immondizia: quasi una metafora della deriva senza più rimedio che è diventata la tua vita. Due cose sole ti restano da fare. La prima è la più facile: scavalcare quel parapetto e lasciarti cadere nell’acqua fredda e sporca. La seconda invece è troppo difficile, e sai già che non ci riuscirai: non riuscirai a lasciarti anche andare a fondo perché ci vorrebbe uno sforzo di volontà disumano per rinunciare a nuotare, e tu sai nuotare e sei anche un po’ codardo, così ti salveresti malgrado tutto.
Ma ci provi lo stesso, spinto da un nuovo attacco di fruscii e scampanii che ti si scatena in testa più forte del solito, forse animato dal galoppo del tuo cuore portato allo stremo. Sei magro e agile, una gamba è già sopra la spalletta, tiri su anche l’altra.
“No no, bambin mio, cossa fastu? – grida una donna, e ti senti trattenere un braccio, poi anche l’orlo della giacca, e la donna insiste a gridare e altri passanti si fermano, ti soccorrono, ti strappano al parapetto, ti parlano tutti insieme, accalorati, premurosi, e tu ti abbandoni fra le loro braccia e ti afflosci a terra chiudendo gli occhi pieni di lacrime.
Un uomo grande e grosso ti carica in spalla, qualcun altro si preoccupa del tuo violino, la donna materna ti cede il suo scialle per coprirti la testa nuda, e tu sei senza forze e pieno di vergogna e lasci fare, non ti opponi più a niente, avresti voluto morire e forse sei morto lo stesso, anche se quelli te lo hanno impedito.
Ti portano lì vicino, nella bottega dello speziale. Lì dentro c’è un bel tepore e profumi pungenti. Lo speziale ti accoglie bonario, gli raccontano la cosa, lui ti fa sedere su una poltroncina e ti esamina con mani calde e sorriso indulgente.
“Su su, giovinotto, non sono cose da fare, queste. È stato un brutto momento, lo so, ma adesso è passato, vero? Prendete qua, bevete questo – ti danno qualcosa da bere, ti brucia un po’ la gola ma ti dà forza e conforto.
Poi lo speziale manda via tutti e avvicina una sedia per fare due chiacchiere con te, come farebbero un padre o un buon prete confessore.
“Allora, adesso potete dirmi cos’è successo – ti invita.
E tu, riscaldato nelle vene da quel cordiale, cominci a raccontargli il tuo male, prima con pudore e poi con sempre maggiore sincerità e particolari. I rumori, gli incubi, la paura, il nonno sordo. Gli confessi – e non sai nemmeno tu da dove hai trovato tanto coraggio – di esserti convinto di andare incontro a pazzia e morte precoce, perché un tormento come quello che soffri da qualche mese non può che far impazzire chiunque, soprattutto se giovane, inesperto e lontano da casa come te.
“Macché macché, per morire ce ne vuole, giovinotto. Intanto vediamo un po’ se si può fare qualcosa: ho già un’idea, sapete? E se è quella giusta, vi assicuro che tra pochi minuti uscirete dalla mia bottega guarito e rinato”.
Il sant’uomo va nel retrobottega, e quasi subito ne torna con degli oggetti in mano e un panno pulito. Hai paura, eh, Serafino? Paura di quella bacinella fumante, di quei piccoli strumenti metallici, di quel rito sconosciuto che sta per iniziare e potrebbe rivelarsi doloroso. Non ne sai niente, tu, di malattie, di dottori. A casa, in campagna, era tua madre a curarti quando avevi bisogno: tisane, impiastri, purganti, e via. Tutto andava a posto subito, grazie alle sue mani sante e all’aria familiare di casa tua, del tuo lettino, dei tuoi cari vicino a te.
Lo speziale comincia con guardarti l’interno dell’orecchio avvicinando una candela per vederci meglio. Lo senti ridacchiare piano, un riso più di soddisfazione che di derisione. Poi avverti un liquido caldo e oleoso entrarti in un orecchio; lo senti diffondersi piacevole e indolore, e chiudi gli occhi ormai pronto a tutto. Ora qualcos’altro si fa strada nel tuo orecchio, ma sempre in modo delicato anche se stavolta hai capito che si tratta di uno strumento, qualcosa di metallico, prudente e preciso. Ancora qualche istante, ed ecco la voce trionfante dello speziale che estrae la pinza, si raddrizza e annuncia “Ecco fatto!”
E infatti nello stesso attimo il tuo orecchio esacerbato si è riaperto alla vita come per incanto e senza dolore, solo un lieve ed euforico stordimento nel momento in cui l’ovatta e la risacca e gli squittii si sono dissolti per lasciare tutto lo spazio a un colpo di vento benefico e alla perfezione totale dei rumori circostanti, ora nuovamente distinti, puliti, intonati, non più stranieri. Anzi, ogni rumore è un suono, un’armonia vergine, un balsamo.
“Eccolo qua, il male che vi dava tanto fastidio: un frammento di paglia, nientemeno! – lo speziale ha un po’ l’aria di canzonarti, ma benevolmente, mentre ti fa vedere il frustolino ancora trattenuto nella pinzetta. Tu sgrani gli occhi, sei confuso, arrossisci: mai avresti pensato che una pagliuzza potesse rischiare di far impazzire un uomo. E allora ti viene in mente che sì, Marcolina, il fienile, il giorno prima di partire, lei un po’ piangeva e un po’ rideva, perché non voleva lasciarti andare, e non ti ha detto di no, e neanche tu hai detto di no a lei, e quel fienile era caldo e odoroso e ci avete passato le ultime ore e le più belle alla vigilia della partenza. Poi quella pagliuzza è partita con te, forse per impedirti di dimenticare Marcolina, o forse invece per farti diventare uomo davvero.
Adesso è tempo di tornare a vivere: ringrazi lo speziale, sei colmo di gratitudine, e gli chiedi quant’è il suo onorario. Ma lui non vuole denaro, no. Lui guarda il tuo violino, e tu per un attimo ti senti nuovamente morire all’idea che voglia essere ripagato proprio con ciò che più che ti sta a cuore.
Invece no, hai capito male: non è lo strumento che vuole, lo speziale, ma il piacere di ascoltarti suonare qualcosa solo per lui, ora, lì, tra quegli scaffali di noce, i vasi di ceramica con le scritte in latino, gli aromi canforati che impregnano il bancone. E tu, Serafino, suoni con le lacrime agli occhi, e il tuo violino è tornato a essere il violino degli angeli e alza verso le travi del soffitto e oltre la vetrina e su per la calle e in alto fino ai tetti e alle cupole e al cielo di marzo le note perfette del tuo orecchio assoluto.

*   *   *

All’eds della Donna Camel hanno partecipato, prima e meglio di me:
MaiMaturo – Il movimento
Lillina – Ti lascio una parola
Fevarin e carnazza – Un errore di sbaglio
*cla – Il pallone
Hombre – Testa di ignudo
MaiMaturo (bis) – Il rumore del vento
La Donna Camèl – Amico mio
Pendolante – Il sibilo
Dario – Michelino e Filippo

Tornare a Itaca

Ogni tanto ci torno, a Itaca.
Più che altro torno per vedere come stanno, se stanno tutti bene, se c’è qualcosa da cambiare, aggiustare, rinnovare.
Finché va tutto bene, sto bene anche io, perché posso dirmi “Allora, anche se parto di nuovo, qui lascio tutto in ordine, e potrò tornare un’altra volta, magari fermarmi un po’ di più, o per sempre, se ci riesco”.
Finché la mattina si aprono le imposte e i traghetti lasciano gli attracchi e il caffè si scalda sul fornello e qualcuno lava via il piscio di gatto della notte; finché i bambini vanno a scuola e le donne al mercato e i pensionati a vedere i treni alla stazione e i bottegai mettono fuori la merce e spazzano la soglia; e i preti dicono messa per le vecchiette che si alzano presto e osservano il digiuno e quando tornano a casa danno da bere ai fiori e al canarino e rassettano il letto e accendono la radio; finché i morti vanno a San Michele in pompa magna, in corteo attraverso la laguna, traslocando solo temporaneamente in un’isola ancora più bella, più silenziosa e placida; finché tutto continua così, finché stanno a galla loro malgrado e malgrado il peso dei marmi e dei mosaici e della pietra e della Storia; fino ad allora ci tornerò. Ogni tanto, quando posso. Il più spesso col pensiero, o con la musica. Violoncello e clavicembalo insieme fanno miracoli.

Affresco

Non ho mai mentito sulla mia età, anzi ne vado fiera. Perché non conosco nessun altro che possa vantare una vita varia e longeva come la mia.
Sono nata a Venezia nel 1735, lo stesso giorno dell’incoronazione di Alvise Pisani a Doge. Mio padre era tipografo, aveva una stamperia in Barbarìa dele Tole, vicino a Campo Ss. Giovanni e Paolo; era molto apprezzato in città, e fra i suoi clienti vi erano diversi artisti, che gli portavano a bottega poesie, libretti d’opera e spartiti musicali. Noi la sera, a casa, facevamo musica prima di cena, soprattutto d’inverno quando fuori la notte e le nebbie ingoiavano il canale della fondamenta Brian. Mi accadde di conoscere di striscio Antonio Vivaldi, che doveva dei soldi a mio padre ma era stretto di manica come di petto e tirava sempre sul prezzo. Giacomo Casanova lo conobbi l’inverno in cui gelò la laguna e tutti andammo a vedere dalla riva i buontemponi che ci pattinavano sopra. Ero al tempo bella come tutte le veneziane del settecento, e non nascondo di aver ricevuto da lui delle avances piuttosto pressanti, che però respinsi con fermezza perché mi ero segretamente innamorata di Giambattista Tiepolo, allora cinquantenne, per averlo visto lavorare all’Incoronazione di Maria Immacolata sulla volta della navata della chiesa della Pietà.
Andavamo anche a teatro, per lo più di carnevale (ma ricordiamoci a Venezia, nel settecento, il carnevale andava da ottobre a primavera inoltrata), e fu così che conoscemmo Carlo Goldoni. Fu ospite ai nostri salotti musicali almeno due o tre volte, ma la musica lo annoiava un po’ e preferiva fare quattro chiacchiere davanti a un bricco di cioccolata fumante. Prima di lasciare Venezia per Parigi, passò a salutarci e promise di tornare entro un paio d’anni; invece sappiamo come è andata, che lui a Venezia non ci tornò più.
Una primavera mi incantai, con tutta la città, ammirando l’ascesa di un pallone aerostatico nel cielo sopra piazza San Marco; era l’aprile del 1784, e l’ammiraglio Angelo Emo aveva cominciato le sue azioni militari contro i pirati barbareschi. In città arrivavano, e suscitavano tripudio, le notizie dei suoi bombardamenti contro i porti di Tunisi e Biserta.
Vidi Goethe estatico su una gondola mentre si riempiva gli occhi di immagini che in patria non avrebbe mai dimenticato. Tornai a vedere la laguna gelata durante il carnevale del 1788, e pochi anni dopo ci capitò di passare la notte di Natale in cima alle scale per salvarci da un’eccezionale acqua alta. Ma ci attendevano prove ben peggiori. Dovetti udire i cannoneggiamenti del porto del Lido contro una nave napoleonica che veniva a prendere prigioniera la città, e in capo a poche settimane cademmo in mano francese. Quei ladri. Ci derubavano dei nostri tesori più sacri con la più empia arroganza. Poi vendettero anche noi, tutti noi, agli odiati austriaci, che oltre al resto fecero la loro parte di razzie. Giacomo Casanova era lontano, vecchio e piegato; seppi solo dopo mesi che era morto oscuramente in Boemia.
Gli austriaci rimasero un bel pezzo. Non che ci trattassero male, anzi erano innamorati di noi e di Venezia, non avendo, a casa loro, niente di così bello. Tuttavia erano stranieri, e noi non abbiamo mai sopportato padroni: nemmeno i nostri dogi lo sono mai stati, erano anzi uomini come noi al servizio del popolo e del Maggior Consiglio. Fastosi ornamenti ma senza potere. Siamo stati sempre, e sottolineo sempre, una Repubblica, e per di più laica, sganciata dalla Chiesa e spesso, perciò, in odore di eresia.
Ecco perché c’ero anche io, in Piazza, nei giorni della liberazione di Manin e Tommaseo e della proclamazione della Repubblica Veneta Democratica (e non leghista), in mezzo alla folla esultante e piena di orgogliose speranze. E per il motivo opposto, l’umiliazione e lo sconforto, scesi in calle ad assistere alla caduta dell’anno successivo, tra la fame e il colera che ci assediavano peggio degli austriaci e che ci sconfissero vigliaccamente. Ma c’ero, e commossa, anche il giorno in cui le ceneri di Manin, morto esule a Parigi, tornarono a Venezia dopo l’unificazione al Regno d’Italia, che alla fin fine non si rivelò poi tanto migliore dell’impero astro-ungarico, va detto.
Nel 1902 accorsi affranta a contemplare le macerie del crollo del campanile di San Marco. Con gli altri giurai a me stessa e alla città e all’intero mondo che sarebbe rinato com’era e dov’era, e così fu.
Gli austriaci, poi, non se l’erano messa via del tutto. Tornarono a desiderarci e portarono nuovi cannoni fino al Piave. Una notte ci bombardarono per otto ore di fila, che io passai in cantina tra odor di salmastro e spolverio di calcinacci ma nessuna preghiera nel cuore, a nessun Dio, tutt’al più a San Marco e al suo Leone.
Dopo la guerra, la Grande Guerra, credetti di incontrare D’Annunzio un pomeriggio lungo le Zattere. Aveva i suoi stessi baffi, il suo stesso charme, il suo stesso naso altezzoso e una bella donna sognante appesa al braccio. C’era un sacco di bella gente, ricca e famosa, che girava per Venezia in quegli anni; scrittori, musicisti, celebri amanti, teste coronate, attrici di teatro. Anche oggi, verrebbe da dire, ma di tutt’altra qualità, molto più modesta; più che altro una mise en scène da dilettanti.
Di guerra ce ne fu un’altra, come si sa. Di notte si vedevano i traccianti sopra il cielo nero della terraferma, e si udivano gli schianti delle bombe su Treviso. Noi, ci risparmiavano, perché volevano la città intatta come trofeo. Ma si presero comunque qualche martire, come i sette i cui cadaveri restarono legati per giorni ai lampioni sulla Riva che poi avrebbe preso il loro nome; io li vidi mentre li fucilavano per motivi futili, vi fui portata a viva forza con gli abitanti della zona per assistere a uno dei fin troppi atti esecrabili di rappresaglia. Ora a quella riva attraccano navi da crociera, e ne sbarcano i discendenti di quello straniero e di molti altri; poi scusate se qualche ristoratore o qualche gondoliere gli rifila conti da capogiro. E scusate anche se, quando ogni anno quegli scalmanati della lega vengono a piantare lì le loro tende, sono io quella donna che si affaccia alla finestra e espone il tricolore. Non perché mi senta particolarmente italiana, in quanto veneziana non ne ho bisogno; ma perché di invasori invasati e barbari di campagna ne abbiamo già avuti abbastanza, ora poi che stiamo combattendo all’ultimo sangue contro i cinesi.

Ultimamente incontro spesso il sindaco Orsoni in vaporetto. Come stiamo, sindaco? gli chiedo. Come va la guerra contro i cinesi? Mah, risponde lui col suo sorriso placido da piccolo orefice vagamente pronipote di Dogi e Capitani del Mare. Poi mi offre uno spritz, mentre da San Marco arriva e si scioglie sopra i tetti il mezzogiorno largo, solenne e inconfondibile della Marangona.

Pedigree

maschere veneziane - L. TiepoloDei veneziani si dice “gran signori”. È vero, ci sentiamo signori anche in mutande, abbiamo dentro il genio splendente della Serenissima e siamo costituzionalmente degli snob. Con tutta la bonarietà di Goldoni, ma snob. Sornioni e autoironici, ma snob. Per esempio.
Da piccola mi avevano lasciato credere che mia madre era una contessa che aveva rinunciato al titolo per sposare un borghese. Falsissimo. Il nonno era un falegname e la nonna aveva origini contadine. Resta il fatto che mia madre era donna ipersensibile e svagata, e con questo si era fatta la fama di avere il sangue blu. E non era esattamente un complimento.
In casa dei nonni c’era anche un papiro araldico appeso a una parete, con le sue belle palle e corone, indubbia opera spuria e mercenaria di qualche artigiano, che basandosi sulla semplice condivisione di un cognome piuttosto comune certificava la discendenza dal ceppo del Guercino. Balle. Qualcuno si era solo divertito con poco.
Mi ero anche messa in mente che fra i miei antenati vi fosse un pilota del porto, e a questa leggenda ero affezionata più che alle altre, perché una figura così prestigiosa e tipica nel mio albero genealogico non faceva che confermare e nobilitare le mie radici acquee. Questo, probabilmente, me lo ero inventato da sola.
Pare vero, però, che nella famiglia paterna vi fosse stato un innesto di sangue greco. E del resto la Dominante in Grecia aveva fatto fior di guerre e di affari, ai tempi d’oro.
Cito questa mitologia familiare per quello che è. Lascio immaginare quante ispirazioni ne ho tratto, da bambina e ragazzina, nei miei primi esercizi di scrittura.
Mi converrebbe piuttosto vantarmi di alcune verità, ma non è che valgano molto più delle leggende. Per esempio.
Nantas Salvalaggio da bambino giocava in Campo dei Mori con mio padre, che non ne aveva un ricordo simpatico perché come ragazzino era stronzetto. Mio padre aveva conosciuto anche Carlo Della Corte, che per un breve periodo era stato impiegato nella banca dove papà era già funzionario.
La casa dove ho passato i primi anni dell’infanzia (e che successivamente è stata abbattuta, Dio strafulmini chi si è macchiato di questo crimine perché era una classica, leggiadra, armoniosa palazzina Liberty) era stata abitata, prima di noi, dalla famiglia di Carlo Rubbia.
Un mio zio era stato segretario del cardinal patriarca Marco Cè.
Una prozia piemontese, contadina politicamente attiva sotto il segno dell’Azione Cattolica, aveva conosciuto e discusso animatamente in mille occasioni con un ancor giovane ed esordiente Oscar Luigi Scalfaro.
Paolo Rumiz al liceo era un paio d’anni avanti a me, ma soprattutto era l’amico più intimo del mio moroso di allora, e quindi una delle persone che ho frequentato più spesso e più da vicino nei miei anni a Trieste. Dei tanti ricordi che ho di lui, quello che lui avrà senz’altro dimenticato (ma tanto non mi legge) riguarda una tarda sera d’inverno, al ritorno da una pizza o un cinema o una riunione con poesie, chitarre e distillati iugoslavi, quando sotto casa mia continuavamo a contarcela senza aver voglia di salutarci, e faceva il freddo che può fare a Trieste a gennaio verso mezzanotte, e lui, Paolo, aveva la gamba destra ingessata dal piede all’inguine per un incidente sugli sci (non il primo, se ben ricordo), e ciò malgrado a un certo punto si mette a saltellare sul marciapiede ghiacciato con il gambone rigido e tutto, e io gli chiedo se ha freddo o cos’altro ha, e lui mi risponde che semplicemente gli scappava la pipì.

Ecco, mi pare che sia tutto. Magari chiederò a mia sorella se si ricorda qualcos’altro, non so, un bisavolo doge, una trisnonna cortigiana, un antenato arcivescovo di Costantinopoli. O anche solo un cugino di quarto grado che aveva fatto il militare con il suocero della cognata del barbiere di Massimo Cacciari.

(nell’immagine: Lorenzo Tiepolo (1736-1776) – Maschere veneziane)