Periferia con camion

Mario Sironi: Periferia con camion, 1920

L’avviso diceva:

Per motivi di servizio
venerdì 17 gennaio tra le ore 6 e le ore 19
il cortile non sarà agibile
I signori inquilini sono pregati di liberare il cortile da
autoveicoli, cicli e motocicli e ogni altro oggetto di proprietà
entro la mezzanotte di giovedì.

Si raccomanda altresì, nei predetti orari, di
lasciare sgombro il passaggio del cancello e degli spazi comuni,
in particolare le scale interne e l’androne.

            L’Amministratore

Gli abitanti del palazzo, gente modesta, si adeguarono senza proteste, avvezzi a sottostare a regolamenti e imposizioni e timorosi soprattutto di far inquietare lo scorbutico amministratore, cui nessuno osò nemmeno telefonare per un chiarimento rischiando una rispostaccia velenosa.
Il cortile in realtà era già vuoto: i ragazzini che ci giocavano a calcio si portavano via il pallone ogni volta, e altro non c’era che una vecchia Bianchina verde del ’59 sotto un telone, non più mossa da decenni causa invalidità del proprietario, che nel frattempo nessuno neanche più ricordava chi fosse (lui compreso).
“Magari rifanno la pavimentazione – auspicò qualcuno.
“Come no, e ci metteranno anche una piscina – sogghignò qualcun altro.
Il palazzo al 22 di via Aleardi era un condominio popolare degli anni ’50 di una anonimità esemplare. Sei piani senza ascensore, due scale, A e B, in totale 48 appartamenti tutti uguali simmetrici o speculari (cucinino/salotto/2camere/1bagno) intorno a un cortile di cemento. Vi abitavano famiglie di ferrovieri, operai, netturbini, pensionati, zitelle, un ex ladro e una maestra di pianoforte; tutti erano invecchiati lì o vi stavano invecchiando, e tutti cercavano di andare d’accordo o almeno di non urtarsi troppo a vicenda, scambiando qualche parola dai terrazzini delle cucine o quando si incontravano nell’androne per ritirare le raccomandate dell’affitto. Ma in quella circostanza, che ognuno in privato commentava con una sorta di attesa natalizia, fra tutti serpeggiò un insolito sentimento di solidarietà, uno spirito di gruppo, forse l’orgoglio di esibire il senso civico dell’intero palazzo e di rispolverarne la vecchia dignità avvilita.
Una piccola delegazione bussò alla porta dell’Ex Ladro (3° piano, scala B, int. 18) che ora riparava biciclette sotto padrone, e lo convinse ad andare contro i suoi nuovi princìpi: col magone, accettò di aprire la portiera della Bianchina (non aveva perso la mano, e non fece alcun danno) e quattro giovanottoni, di ritorno dal turno in fabbrica, si incaricarono di spingerla fino in strada, dove la parcheggiarono con cura e la ripararono nuovamente col suo telone. Il cortile era dunque vuoto già dalle cinque della sera precedente, e una vecchina del piano rialzato, maniaca della pulizia, passò diligentemente una ramazza più alta di lei su tutto il cemento “per non fare brutta figura”.
La mattina seguente, alle 7 in punto, un furgoncino varcò l’accesso al cortile: la scritta in grandi lettere rosse diceva “Ditta di Traslochi TEMPESTA & Figli”.
Al 2° piano scala A int. 11 il Bidello che soffiava sul caffellatte davanti alla finestra disse alla moglie: “Ma quale pavimentazione, quale piscina… è un trasloco!” e la moglie subito ad almanaccare chi fosse la famiglia che traslocava, e dopo di lei tutte le altre donne del palazzo che stavano anche loro in cucina a soffiare sul caffellatte dei mariti che andavano al lavoro e dei figli che andavano a scuola, e la Vecchina della Ramazza che parlottava con i ciclami sul davanzale e la Maestra di Pianoforte del 2° piano scala A che lasciava cadere le briciole di fette biscottate sul terrazzino per i passeri, e la coppia litigiosa del 5° piano scala B che sbatteva le porte e soprattutto la Pettegola Ufficiale del palazzo (1° piano scala B int. 1) che di un trasloco non era informata e si chiedeva indignata perché.
Dal furgoncino uscirono uno dopo l’altro, rapidi e decisi come marines, dei facchini in tuta blu; nessuno, sul momento, si prese la briga di contarli, ma più tardi, quando ci si rese conto che avevano formato una catena umana lungo la scala A dal cortile all’ultimo piano, ci fu chi azzardò due calcoli e ne uscì fuori una cifra che rasentava la cinquantina. E il meccanismo si mise in moto: dall’interno 33 del 6° piano scala A, finalmente identificato come centro dell’evento, cominciarono a uscire i primi scatoloni, che i forzuti sulle scale si passavano con veloce precisione fino a trasferirli dall’interno dell’appartamento all’interno di un grosso camion sopraggiunto nel frattempo a rimpiazzare il furgone. Su ogni scatolone c’era scritto un numero e il contenuto. Anche lì, sul momento, nessuno pensò di prendere nota, soprattutto per la rapidità con cui si svolgevano le operazioni, ma alcune diciture rimasero impresse. La prima tornata di scatoloni conteneva LIBRI: ne scesero decine, decine di scatoloni beninteso, anzi centinaia, e ognuno conteneva di certo decine di libri, in tutto diciamo qualche migliaio di libri, fra cui un’intera Treccani e l’Enciclopedia Britannica completa.
“Però, che pozzi di scienza! – commentò l’Inquilina Acida.
“Non so manco chi sono,” brontolò la Sorella Zitella dell’Inquilina Acida, “Quelli del 6° chi li conosce”.
Poi uscirono i bauli della biancheria. Sedici solo per (così era scritto sulle etichette) CORREDO NONNA INES, e il doppio etichettati come BIANCHERIA CORRENTE DI CASA. Le COPERTE e le TRAPUNTE scesero a parte, mica mischiate con LENZUOLA e TOVAGLIE, eh no; 29 scatoloni.
Per gli abiti usarono scatoloni appositi con gli attaccapanni dentro. Ne usarono tanti che avrebbero potuto metterci dentro tutta la Standa. Prima che avessero finito di trasportarli tutti nel camion, si erano fatte le nove, e il camion aveva ancora un sacco di posto malgrado le masserizie continuassero ad arrivare a ritmo impressionante. Finiti gli ABITI, toccò alle SCARPE. Ne furono contati 50 scatoloni. Le gente, ormai affacciata a tutte le finestre e dimentica del lavoro, della scuola, della spesa, cominciò a soffrire di allucinazioni. E accanto al camion, che continuava a ingoiare scatoloni senza batter ciglio, si piazzò un’autogru che fece sbalordire bambini e vecchietti, soprattutto quando la piattaforma salì e si portò all’altezza delle finestre dell’interno 33 piano 6° scala A e ne estrasse, un pezzo per volta, i mobili di casa. Mentre i marines dislocavano scatoloni di ADDOBBI NATALIZI (in numero di 82), SOPRAMMOBILI (in numero di 118), PENTOLE e CASSERUOLE (in numero di 98), ARGENTERIA (in numero di 75) e SERVIZI TAVOLA (divisi in Servizi TUTTI I GIORNI in numero di 63 e Servizi RICEVIMENTO di 104), l’autogru si occupò con titanica efficienza di oggetti di più grandi dimensioni.
Tra cui: una collezione di quadri comprendente una pala d’altare del ‘300 e L’urlo di Münch (quello autentico, e l’Ex Ladro nel vederlo si intenerì perché gli ricordava una sua riuscita impresa di gioventù), un letto matrimoniale a baldacchino 6 m. x 6, 7 armadi quattro stagioni a 18 ante ciascuno, un pianoforte a coda, un’armatura medievale completa di tutti gli accessori, un assortimento di lampadari di Murano e Boemia, una collezione di vasi Ming, ceramiche di Limoges e vetri Lalique, 3 monumentali stufe in maiolica, un organo a canne del settecento, un tavolo da biliardo per lo snooker, un laboratorio chimico, un albero di Natale alto 6 metri, 7 pendole massicce, un carretto siciliano e un plastico dell’Italia in miniatura 22 m. x 18. Ma quello che suscitò l’applauso fu la giostra con i cavalli, a grandezza naturale, che scese in trionfo girando lentamente e emettendo una musica dolcissima da carillon. I bambini del palazzo, rimasti in pigiama perché ormai avevano saltato la scuola, si portarono le manine al petto per la commozione.
La Pettegola Ufficiale diramò la notizia: si trattava dei Manzanares, sì, quella famigliola tanto riservata, marito moglie e 5 figli, gente educata buongiorno e buonasera, li si era sempre visti poco in tre anni che stavano lì, la signora stendeva il bucato sul terrazzino ogni settimana, 7 paia di mutande, 7 paia di calzini, 7 asciugamani, una tovaglia, mai visti tappeti orientali o copriletti di pizzo, mai sentito suonare il pianoforte o l’organo, mai dato ricevimenti, nessuno sapeva niente e chi ci capiva era bravo.
“Certo che devono averne, di soldi,” l’Inquilina Acida.
“Ma secondo te dove la tenevano tutta quella roba?,” la Sorella Zitella dell’Inquilina Acida.
“Quelli lì non me la contano giusta,” il Bidello.
Alle 11 passò il Postino, restò incantato e per quel giorno il suo girò si fermò lì.
Per strada si andava raccogliendo una folla curiosa; dovette venire il Vigile di Quartiere a regolare il traffico, ma anche lui si distraeva tutto preso da quel va e vieni di tavoli, tavoli e tavoloni, sedie seggioline e seggioloni, poltrone poltroncine e divani da 16 posti, casette delle bambole e fortini con i soldatini, una cucina da campo, 17 anfore romane, la Nike di Samotracia, 4 telescopi, 3 juke-box, e poi tutto quel materiale sportivo, biciclette di tutte le misure, due porte da calcio regolamentari, sci da fondo e da velocità, sacche di mazze da golf, un cabinato per la pesca d’altura, una pista per go kart… e qui la gente aveva perso non solo il conto ma proprio la testa, e ancora non era finita.
Intanto i sedani e le lattughe appassivano nelle sporte della spesa delle massaie che si erano fermate a guardare di ritorno dal mercato, e nel quartiere più di qualche armonia familiare, quel giorno, corse seri rischi.
I facchini non osservarono la pausa pranzo, e nessuno nel palazzo osò avere fame per non perdersi nemmeno un’immagine dello spettacolo. Verso l’una arrivarono la stampa e la televisione, intuirono la grandezza dell’evento, montarono un maxischermo e da quel momento tutti i passaggi della sensazionale operazione passarono in diretta mondovisione su tutti i televisori del pianeta. Fu così che anche in Amazzonia, Mongolia e Tasmania il mondo poté assistere al trasloco del reparto Animali: nell’ordine: una voliera con 22 pappagalli, un acquario tropicale da 1.500 litri, una muta di cani da slitta con relativa slitta, 38 gatti, una capretta, una vacca gravida, 14 stie di polli. La piattaforma della gru depositò a terra anche 55 metri di siepe di oleandri, un vigneto, una sequoia, una piantagione di banani e qualche centinaio di vasi di gerani e begonie. Più gli attrezzi da giardinaggio e un pozzo artesiano per l’irrigazione.
Gli inquilini del palazzo erano tutti affacciati sul cortile, cosicché il loro peso era tutto sbilanciato da una parte e se fosse stata una nave si sarebbe rovesciata.
Giornalisti intervistavano istericamente chi gli capitava a tiro, annotando dichiarazioni fantasiose che avrebbero garantito titoloni d’effetto sulle edizioni speciali dei quotidiani e dei telegiornali.
“Una cosa incredibile!”
“Siamo molto orgogliosi, davvero”.
“Grandi cose in questo quartiere!”
“Viva i lavoratori, abbasso il governo!”
“Adesso in Comune dovranno ricordarsi anche di noi e di via Aleardi: ma le ha viste le buche sull’asfalto? E i tombini tutti rotti?”
“Ė ora che ci mettano una fermata del tram anche a noi, diteglielo voi giornalisti a quelli in Comune!”
“Siamo gente onesta, noi, paghiamo le tasse. E amiamo il nostro quartiere!”
“Approfitto per salutare i miei parenti in Argentina, gli amiconi della Bocciofila e tutti quelli che mi conoscono!”

A metà pomeriggio una mamma rinsavì momentaneamente, spalmò del formaggino sul pane e fece fare merenda ai suoi bambini affacciati alla finestra. Vedendoli, anche gli altri bambini del palazzo ricordarono di non aver mangiato a pranzo e chiesero la merenda, e le altre madri rinsavirono anch’esse per dieci minuti, il tempo di spalmare formaggini su fette di pane, per poi tornare ad affacciarsi in vista delle fasi finali dello spettacolo, che ormai, poiché imbruniva, dovevano essere imminenti.
E infatti scesero ancora soltanto 14 comò Luigi Filippo, un totem Sioux da 12 metri, due sarcofaghi egizi e un veliero vichingo. Poi basta. Gli ultimi pezzi furono stivati con millimetrica perizia nel camion, la gru fu ritirata, i marines scesero ordinatamente le scale e risalirono in fila sul furgone, 50 e più che erano, poi i mezzi fecero manovra e lasciarono il campo fra gli applausi.

A quel punto, nel cortile vuoto entrò l’Amministratore Sgarbato, irriconoscibile in un frac a noleggio con le code che strisciavano per terra: teneva in mano uno sterminato mazzo di fiori e si capì che si stava disponendo all’uscita dei signori Manzanares per porgere loro il saluto. Ci fu qualche istante da aspettare, e tutti trattenevano il fiato, mentre i tecnici della televisione illuminavano a giorno il pozzo ormai scuro del cortile e tenevano inquadrata l’uscita della scala A.
Il Pompiere in Pensione del 6° piano scala B int. 13, che per tutto il giorno si era sentito salire l’adrenalina dei bei tempi, approfittò di quell’attesa per fare un paio di veloci telefonate e riuscì a radunare la fanfara dei Vigili del Fuoco, che promise di arrivare di gran carriera a sirene spiegate. E fece appena in tempo, perché finalmente si vide un taxi, una millecento nera con gli interni in skai amaranto, fare ingresso nel cortile, e tutti capirono che il momento era giunto.
Le grancasse, le trombe, i tromboni, i piatti e i pifferi si erano appena disposti quando dall’ingresso della scala A apparvero i signori Manzanares. Il marito con una barbetta, un pastrano vecchio stampo, la sciarpa fatta a ferri intorno al collo; la signora esile, messa in piega sciupata fatta in casa, cappottino modesto, guance pallidine; i 5 figlioletti in scala, paltoncini scozzesi, berrettini di lana, calzettoni di lana, guantini di lana, silenziosi e un po’ stralunati. E dietro di loro due istitutrici svizzere in mantella di loden e fiocchetti, il segretario particolare del signor Manzanares con occhialetti dorati e una borsa di pelle sotto il braccio, la cameriera personale della signora Manzanares in tailleur Chanel e una corpulenta balia ciociara con due gemelli in braccio.
“E quei due lì quando sono nati?”, trasecolò la Pettegola Ufficiale, che non aveva mai sospettato una gravidanza e meno ancora un parto gemellare.
“Ma dove dormiva tutta quella gente?” si chiedevano tutti.
“E dove tenevano i cani, i gatti, la capra…”
“… la vacca gravida, i pappagalli…”
“… il biliardo, la giostra… ”
L’Amministratore Sgarbato, per la circostanza in versione Amministratore Ossequioso in Frac, si fece avanti e travasò i fiori fra le braccia della sparuta signora Manzanares che, inquadrata subito in primo piano sullo schermo gigante, non trattenne un luccichio di commozione negli occhi e accettò con un sorriso timido, ma senza riuscire a proferire parola. Il marito le cingeva le spalle per incoraggiarla, ma era anche lui intimidito davanti al pubblico che adesso pendeva dalle sue labbra. Era chiaro che non potevano andarsene senza un discorso, sarebbe stato da ingrati e maleducati, e poi i cronisti li avevano già intrappolati dietro un mazzo di microfoni.
L’Amministratore Ossequioso in Frac si fece da parte (non troppo, però, e badando a non uscire mai del tutto dall’inquadratura) e invitò l’ormai ex inquilino a prendere la parola.
“Sì, sì, certo… il fatto è che, vedete, io e la mia Signora… non siamo abituati… per noi ecco, è una cosa del tutto nuova… siamo gente comune, non ci aspettavamo tutto questo… tutto questo interesse…”
Si schiarì la voce, abbracciò con lo sguardo la sua famigliola e continuò per amor dei suoi figli:
“A nome di mia moglie e dei miei bambini, io… ecco… ringrazio tutti per la pazienza e la comprensione con la quale avete sopportato il disagio che vi abbiamo creato con il nostro… ehm… trasloco. Lasciamo questo appartamento con molto rammarico, non solo perché vi siamo stati felici ma anche perché andandocene perdiamo dei vicini squisiti come voi. Non vi dimenticheremo, ve lo promettiamo”.
Gente che si commoveva, gente che si asciugava gli occhi, che tirava su col naso, che abbracciava i propri figlioletti per farsi forza: l’intero palazzo era caduto prigioniero dell’incantesimo di quel commiato, e credeva di vivere in un film.
“E a questo proposito”, continuò il signor Manzanares, che ora sembrava più sicuro di sé, “teniamo, la mia Signora e io, ad assicurare tutti che la nostra partenza non è dovuta e presunti disaccordi con il condominio o i suoi inquilini, ma a motivi strettamente familiari. Un membro della nostra famiglia”, e qui la sua voce si ruppe per un attimo, e la signora Manzanares rabbrividì e sulle guance dei bambini apparvero lunghe, silenziose lacrime, “dicevo, un membro della nostra famiglia ha un grave problema di salute e necessita di un clima più salubre. Si tratta di lei”, indicò la figliolina maggiore, ma non proprio lei bensì il fagottino di ovatta che lei scaldava fra le mani. Le cineprese zummarono precipitosamente sul fagottino, e la bimba lo svolse delicatamente sotto le luci, premettendo così di inquadrare e mandare sul megaschermo una minuscola tartaruga, grande come una moneta da 500 lire, avvolta in un panno di lana. Aveva gli occhietti semichiusi, bollicine di muco al naso e il beccuccio semiaperto per respirare.
“Come vedete”, spiegò Manzanares facendosi forza, “la piccola Ruth soffre di asma, e noi ci sentiamo angosciati e in colpa per le sue condizioni. Perciò abbiamo deciso, la mia Signora e io, di trasferirci in un clima più mite, dove la nostra piccola Ruth possa recuperare la salute”.
A questo punto, chi non piangeva non poteva che essere una persona insensibile e malvagia, e lo stesso Bidello si sentì un po’ un verme mentre, per salvare la sua fama di cinico, bofonchiava tra sé: “Questi qua mi sa che ci stanno prendendo un po’ per il culo…”
Gli altri inquilini, invece, cominciarono ad applaudire, dapprima timidamente poi in modo sempre più festoso, e con il battimani accompagnarono le ultime fasi dell’addio, sollevati di non esserne loro la causa e quasi volessero sospingere la piccola Ruth con l’incoraggiamento verso una vita migliore.
Manzanares fece ritirare i microfoni, strinse la mano all’Amministratore Ossequioso in Frac e fece cenno alla famiglia di salire sul taxi. Per prima entrò la balia ciociara con i due gemelli, poi i cinque bambini, le due istitutrici, la cameriera, il segretario; la signora Manzanares, prima di entrare, sollevò lo sguardo e salutò le finestre con un sorriso emozionato, il marito la imitò, poi sparì dentro anche lui e, mentre la fanfara dei Vigili del Fuoco intonava il Valzer delle Candele, da ogni balcone piovvero fiori coriandoli stelle filanti saluti festosi e baci, e in cielo si alzarono palloncini e fuochi artificiali, e il taxi si girò e varcò l’uscita e prese la strada, scortato da poliziotti motociclisti e tra due ali di folla commossa.
“Che giornata!”
“Indimenticabile!”
“Domani dobbiamo fare la giustificazione per la scuola”.
“Anche per i compiti, mamma!”
“Ma chi l’avrebbe mai detto?”
“Che strana gente, però…”
“Sì, ma di buon cuore. Quella povera tartarughina, ma l’hai vista?”
“Un amore!”
Gli spettatori sciamarono via ancora intontiti e sognanti, mentre giornalisti e cineoperatori smontavano e riponevano le attrezzature; le luci si spensero nel cortile, si accesero quelle nelle cucine, i quattro giovanotti riportarono al suo posto la vecchia Bianchina del ’59 e tutto tornò come prima del gran fatto: grigio, anonimo e silenzioso.

La Vecchina con la Ramazza non aveva visto niente, perché era uscita alle sei e mezza per tenere compagnia a una sorella in ospedale ed era rientrata a cose fatte. Solo, si accorse dei coriandoli per terra e sospirò ai suoi ciclami: “Avranno fatto una festa, e adesso guarda qua: chi pulisce? Mah, vuol dire che domattina mi alzerò un po’ prima e darò una sistemata io. Quanta pazienza, però!”
La ramazza, nell’angolo, annuì.

Obbligo di catene

(nell’immagine: La pelliccia di leopardo, di Alberto Manfredi – 1994)

I giorni subito dopo il Natale, quella loro atmosfera di sazia indolenza prima che si accenda l’elettricità del Capodanno. Ieri pomeriggio sono andata in centro per cambiare un regalo; c’era stata una nevicata durante la notte ma poi un sole scialbo e fugace ne aveva sciolto gran parte, lasciandone cumuli di fanghiglia a bordare i marciapiedi. I passanti avevano dismesso l’aria festosa della vigilia e indossato quella pigra e opulenta dei giorni di vacanza, con la quale occhieggiavano le vetrine senza più la febbre dell’acquisto e sceglievano i migliori caffè per celebrarsi con bevande calde e lussuose.
Uscita dal negozio, non avevo voglia di fare altrettanto: l’imbrunire stava arrivando e stava tornando anche il nevischio, attraverso il quale le luci delle auto e delle luminarie si percepivano più brillanti e tremolanti. Ho raggiunto la fermata del mio autobus e mi sono disposta ad aspettare insieme ad altre persone che, come me, dovevano aver collegato la ripresa della nevicata al desiderio di ritrovarsi a casa al sicuro e al caldo.
Dalla parte opposta della strada stava arrivando un altro autobus, e una donna improvvisamente ha attraversato di corsa per non perderlo, agitando un braccio come nei film si chiama un taxi. Indossava una pelliccia maculata e saltellava con un’eleganza molto parigina fra le pozze di guazza, mentre la sua mano guantata faceva cenno al conducente di aspettarla più come dando un ordine che chiedendo una cortesia.
Ė sparita dietro la sagoma del mezzo, e quando questo è ripartito ho constatato che non era rimasta sul marciapiedi.
Quell’immagine, durata pochi istanti, mi ha ricordato Philippa. Forse per la pelliccia di leopardo e le lunghe gambe inguainate in quelli che sembravano pantaloni da sci, neri, del modello elasticizzato che usava anni fa. Nell’insieme, un abbigliamento insolito e molto seducente, ma anche molto anni ’50, molto diva del cinema. E poi, certamente, la neve.

I nostri amici ci avevano invitati a passare una domenica nel loro chalet sopra Cortina. Fabrizio era di gusti costosi. “Voglio mostrarti come lo abbiamo ristrutturato”, mi disse, “è venuto benissimo. Ė proprio fantastico”. Molte cose erano fantastiche, per Fabrizio. Anzitutto il suo successo e i soldi che guadagnava. E Philippa era fantastica. Ad un certo punto della nostra amicizia – un’amicizia più mondana che autentica – aveva smesso di parlare di lei come di “una cara amica che fa l’arredatrice”, e ora la definiva “la mia fidanzata, una donna fantastica”. Svedese, o danese. Il tipo scandinavo comunque, capelli biondi e bellezza fredda.
Quella mattina la vallata era una conca di neve, su cui spiccavano i costumi colorati degli sciatori. Poiché noi due non sciavamo, ci sistemammo sul belvedere di un locale a mezza costa da cui partivano le sciovie e prendemmo il sole guardando il panorama e bevendo qualcosa mentre i nostri ospiti facevano un paio di discese prima di pranzo.
“Ė prevista una nuova nevicata”, si scusò Fabrizio, “e sarebbe un peccato perdere una giornata di sci come questa”. Un vero peccato, poiché era senza dubbio fantastica.
Io ho sempre detestato la montagna. D’inverno forse sono disposta a sopportarla, purché ci sia la neve fuori e un bel caldo dentro; ma in ogni caso non è il mio ambiente, e più tardi, mentre pranzavamo in un ristorante caratteristico stipato di boccali di peltro e cuscini tirolesi, non vedevo l’ora che tutto finisse e che potessimo tornare a casa nostra in città.
Per il caffè andammo finalmente a visitare lo chalet rinnovato. Dall’esterno, una casetta in stile cadorino, ma all’interno un sorprendente design minimale addirittura con pezzi di artigianato africano e asiatico. Nell’insieme, un’algida show-room che avrebbe benissimo potuto affacciarsi su un panorama di grattacieli metropolitani invece che su quello delle Tofane. Ma Fabrizio “Tutta opera di Philippa, un genio. Non è fantastico?” e Philippa, artefice del progetto, sorvolava sui complimenti con un sorriso duro, senz’anima. La disposizione delle stanze e l’arredamento non riflettevano alcuno spirito originale né, men che meno, femminile. Ricordo che provai molto freddo davanti alla cucina cromata e intonsa e ai bagni piastrellati di marmo.
Dopo il caffè e parecchi liquori e chiacchiere, insistettero per una passeggiata sul corso principale. Fu allora che Philippa indossò la pelliccia di leopardo. Fabrizio le camminava a fianco a testa nuda, tenendola per un braccio, ma lei tenne ostinatamente le mani in tasca. La neve cominciava a cadere di nuovo, nell’aria c’erano musiche natalizie e profumi, e il momento del non ritorno passò senza che ce ne accorgessimo. Alle quattro del pomeriggio le strade secondarie erano completamente sepolte e raggiungemmo lo chalet sprofondando nella neve fresca. Una telefonata confermò che la situazione era critica, e come dicevano alla radio era sconsigliato mettersi in viaggio se non per motivi di ineludibile necessità.
“Mi dispiace, mi dispiace”, continuava a dire Fabrizio, “ma non preoccupatevi: potete restare qui, e domani i mezzi avranno liberato le strade e potrete ripartire”. Philippa, lei, taceva sempre: la cosa le era indifferente. Noi le eravamo indifferenti. Si sistemò sul divano allungando le lunghe gambe su un pouf e partecipò pochissimo alla conversazione che imbastimmo per tirare a sera. Andò a finire che parlammo soprattutto Fabrizio e io, che allora eravamo colleghi di lavoro e qualche argomento in comune lo avevamo, ma in questo modo era giocoforza escludere gli altri. E tuttavia il silenzio sarebbe stato peggio. La televisione ovviamente non prendeva quasi nulla: cercammo di vedere qualcosa, il Circo di Montecarlo, un telequiz, un notiziario, ma lo schermo e l’audio erano disturbatissimi. Per cena comparvero del pane e del salame, una ciotolina di olive, del formaggio locale, del foie gras di gran marca e un rosso davvero eccellente. Per fortuna, perché fu l’ultima cosa con cui ci scaldammo, dato che poco dopo mancò la corrente e ci ritrovammo istupiditi al buio nel soggiorno minimale, dove il caminetto presto smise di rosseggiare poiché, come scoprimmo, era elettrico come tutti gli altri della casa. Philippa sparì con una torcia in mano, lasciandoci con Fabrizio a osservare desolati dai vetri l’intero paese al buio, salvo due o tre flebili luminosità in qualche grande albergo dove erano partiti i generatori. Quando tornò, confabulò un attimo con Fabrizio prima di sparire di nuovo su per la scala del piano notte. Fabrizio ci riferì: “Ragazzi, brutte notizie: il nostro generatore è in panne. Philippa non riesce ad attivarlo, e se non ci riesce lei che è l’esperta…”
Lei ci aspettava di sopra, sulla soglia della camera degli ospiti. Con nordica efficienza, aveva deposto sul letto una trapunta aggiuntiva e due coperte. Ci fornì anche di una torcia e ci offrì un paio delle sue pillole per dormire. Più che una premura, mi sembrò un gesto molto strano, e molto freddo. Forse per il modo impersonale con cui faceva, in fondo, ogni cosa, e trattava, suppongo, ogni persona, Fabrizio compreso.
Quella notte li sentimmo litigare. Lei aspra, lui imbarazzato, ma a lungo, con un brusio incostante e stridente che passava attraverso i muri, il corridoio e la coltre pesante sotto cui ci eravamo raggomitolati. Non sentivamo le parole, solo i toni, così secchi e odiosi da sembrare degli ultimatum, delle condanne. Il vino, il freddo, il disgusto: mi venne mal di testa, lì al buio, finché dopo mezzanotte cominciammo a sentire il ronzio dei mezzi spazzaneve nascere da lontano e crescere su piani alterni e concentrici, popolando la notte di segni di speranza. Doveva avere smesso di nevicare. Il rumore ipnotico – le fusa di un grosso gatto meccanico – ci accompagnò nel sonno.
Ci svegliammo alle prime luci. Il paesaggio che spiammo socchiudendo un’imposta era di un biancore maestoso, bellissimo e terribile. Stracci di azzurro salivano tre le vette della conca. Qualcosa di lamiera brillava intensamente su un tetto. Ora gli spazzaneve erano più lontani, e il loro ronzio era sostituito dal ritmico raspare delle vanghe degli spalatori che ripulivano le strade secondarie e gli accessi alle ville private. L’elettricità non era ancora tornata. Ci sciacquammo il viso con l’acqua fredda e provammo a scendere in cucina, facendo pianissimo perché la porta dell’altra camera da letto era ancora chiusa. Dormivano.
La tentazione di partire subito, lasciando un biglietto, era forte, ma poi decidemmo di aspettare un altro po’ per salutarli.
“Perché non proviamo a scendere in paese? Magari da qualche parte ci sarà un bar funzionante e potremo prendere un caffè. Magari informarci anche sullo stato delle strade…”
Lungo la discesa parlammo con alcune persone: il vicino della villetta più in basso, che stava spalando il vialetto, ci confermò che l’elettricità stava tornando a zone e che entro poco avrebbero raggiunto anche la nostra. Operai che scendevano a bordo di un mezzo di servizio ci dissero che le strade principali erano percorribili, ovviamente con prudenza e a velocità ridottissima. Sul corso trovammo molta gente al lavoro per liberare gli accessi ai negozi e alle case, e dai locali entravano e uscivano avventori avvolti in nuvole di alito di caffè. Bevemmo il nostro in una caffetteria deliziosa, dove la padrona, avendo capito che eravamo di città, ci riservò un trattamento cordiale rassicurandoci alquanto. Ci facemmo impacchettare una confezione di marrons glacés per i nostri ospiti e un trancio di strudel da portare a casa.
Allo chalet ci venne incontro Fabrizio, scusandosi per averci trascurati restando a poltrire. Capiva perfettamente la nostra decisione di metterci in viaggio prima possibile, approfittando della pausa di sereno. La nostra auto, al sicuro nella rimessa, partì al primo giro di chiave; lasciammo girare il motore qualche minuto perché si scaldasse, e intanto ci facemmo i saluti. Con Fabrizio riuscii a essere molto affettuosa: lo abbracciai ripensando all’increscioso litigio con Philippa di quella notte. Forse non tutto era così fantastico, nella loro vita. Lei apparve solo all’ultimo momento, e non abbracciò nessuno. Era lì, sulla soglia, avvolta nella pelliccia di leopardo da attrice di Hollywood degli anni ’50, a gambe nude e scalza. Fui subito certa che sotto la pelliccia non indossasse niente. Nell’ultima immagine, Fabrizio che si sbraccia mentre facciamo retromarcia verso il cancello, e lei sempre sulla soglia, che agita la mano destra in un blando segno di saluto. Poi raddrizzammo il muso della macchina e prendemmo la discesa, lasciando lo chalet e i suoi abitanti dietro la prima curva.

Ora non lo so, se quella di ieri in centro fosse davvero lei. In teoria è assai poco probabile, perché negli anni seguenti so che si erano divisi e lei immagino fosse tornata in patria, o almeno si fosse trasferita in una città più grande, più adatta alle sue ambizioni. Anche Fabrizio e io ci eravamo in qualche modo divisi: dapprima per motivi di lavoro, poi per il fisiologico allentamento dei rapporti che si crea quando non si è più colleghi e si frequentano altri ambienti.  Di certo, lei non l’ho più rivista. Ho visto anche sempre meno pellicce, in giro, e neanche più una sola di leopardo. Poche donne saprebbero portarla, credo: attrici, indossatrici, first ladies, forse, ma avrebbero subito tutti gli animalisti contro. Al contrario, lei a questo sarebbe rimasta del tutto indifferente.
Forse, se la donna in pelliccia che ieri ha fermato l’autobus con tanta imperiosità l’avessi guardata più da vicino avrei colto qualcosa che, malgrado gli anni trascorsi e lo sbiadimento del ricordo, me l’avrebbe fatta riconoscere con sicurezza.
O forse avrei notato che non era poi così alta come sono alte le donne svedesi o danesi, e che neanche gli occhi avevano la luce delle albe nordiche, né il volto era levigato come la porcellana delle bambole di lusso; che la pelliccia di leopardo era solo un facsimile sintetico di poco prezzo e gusto volgare; che la borsa era una Louis Vitton da marciapiede e il gesto regale con cui aveva intimato l’alt al conducente era accompagnato da una smorfia irosa. Forse l’autobus l’avrebbe condotta in un quartiere periferico di fabbricati popolari tutti simili, con giardinetti vizzi contesi da condòmini litigiosi e terrazzini squallidi dove i panni stesi penzolano grigi. Forse abita uno di quegli appartamenti pieni di magagne che nessuno vuole aggiustare, e porta a riparare le scarpe dal calzolaio avvolgendole in fogli di vecchie riviste di arredamento e architettura.
Forse era lei. Forse era proprio Philippa. Forse.

La casa dell’impiccato

Un raccontino modesto, così, per rompere il silenzio dopo tre mesi.
E poi, piuttosto che niente, meglio piuttosto.

Paul Cezanne: La casa dell’impiccato, 1873

La casa dei cugini, me la ricordavo diversa.
Le estati in cui venivamo qui in vacanza era ancora una casa abbastanza nuova, la più nuova del paese, costruita apposta per ospitarvi una famiglia che si preannunciava numerosa, e lo divenne. Cinque figli, erano arrivati, e le grandi stanze spoglie si erano riempite di voci, viavai, profumo di pane e sapone di marsiglia, mentre nel cortile a ghiaia trillavano i campanelli delle biciclette e innumerevoli lenzuola e calzettoni asciugavano stesi sfiorando il rosmarino.
All’interno un unico specchio, nel bagno senza riscaldamento, e così piccolo e alto che sì e no serviva al padre per farsi la barba col pennello all’alba. Sulle pareti nessun quadro, tranne i due ritratti fotografici di fine ottocento dei bisnonni, col rametto d’olivo rinnovato a ogni Pasqua. Nelle stanze, il minimo necessario: un letto per ognuno, un cassettone, una sedia; mancavano del tutto le cose superflue, libri e giornali compresi, e qualunque forma di ornamento. Di tende in particolare non c’era bisogno perché la casa sorgeva distante da ogni altra abitazione, circondata da terra incolta che confinava con la ferrovia, in fondo a una stradina sterrata nuova e poco utilizzata.
Nessuno della famiglia conosceva le esigenze dell’estetica e il piacere del superfluo. Erano gente onesta, senza vanità, tutta lavoro e affetti familiari, sereni nell’economizzare ma non tanto per avarizia quanto per rispetto di un vangelo di campagna, all’antica. I ragazzini crescevano vivaci il giusto ma obbedienti ancora di più. Una famiglia modello.
Poi arrivò l’Angelo del Signore con la sua spada spietata, e li divise. Si prese la madre fra i tormenti di un ospedale senza compassione, assistette beffardo alla fuga dei figli come formiche stanate dal loro castello sotterraneo, riempì di nebbia la mente del padre, più orfano di tutti.
La maggiore prese il treno per la città con la debole scusa degli studi, e non vide quando una burrasca di fine agosto affogò l’orto e la grandine crivellò le galline, disperdendone i resti in un rigagnolo schiumoso lungo lo sterrato. Pochi anni dopo la troviamo a pulire le latrine al Cottolengo, e di qualunque sogno avesse avuto nessuno seppe più niente.
La seconda, quando ebbe finito di ramazzare le frasche e il marciume del nubifragio, indossò un vestito buono e andò in bicicletta a chiedere lavoro in fabbrica nel paese vicino. Sei mesi dopo era incinta di uno sposato, e insieme se ne andarono altrove, a fare una vita di vergogna dove non li conoscessero.
Le altre due sorelle per anni si contesero aspramente il diritto di essere la prossima a lasciare la famiglia; ci riuscì quella che, per dispetto, si prese un fidanzato del meridione che la sposò in sacrestia all’alba e la portò a vivere così lontano che ci si dimenticò di loro.
L’ultima femmina era stata brava a scuola, e le bruciava vedersi avvizzire in un paese di beghine. Ma qualcuno doveva pur occuparsi del padre, prosciugato dalla vedovanza e in balia della debolezza di un carattere che si era sempre nascosto dietro le fiere sottane della moglie.
A Gualtiero, il minore, l’unico maschio, nessuno chiese nulla. Dapprima perché era un bambino, e in seguito per orgoglio, poiché se a lui non passava neanche per la testa di prendere in mano le redini della famiglia e sostituirsi al padre inutile, non erano certo le sorelle maggiori e tutte donne a volersi umiliare nello spronare a farlo. Ciascuna di loro aveva le doti per essere una matriarca, ereditate dalla madre, ma di lei non avevano la purezza d’animo, e per tutta la vita coltivarono segretamente il rancore per l’ingiustizia che gliela aveva tolta quando ancora c’era bisogno di lei.
Così Gualtiero, col suo viso paffuto da marmocchio ben nutrito e un corpo che andava facendosi piacevolmente robusto, terminò di crescere e si fece uomo sempre ignorando il senso della responsabilità, anche quando lavorò prima come meccanico, poi come camionista, e perfino quando sposò quella ragazzetta semplice e vivace di Fratta con cui ebbe un matrimonio breve e tre figlioletti biondini dei quali entrambi non sapevano bene che fare.
Il padre non si accorse nemmeno di essere diventato nonno, come non si era reso conto di avere perduto per sempre tre delle figlie e di aver ridotto in schiavitù l’ultima rimasta. Morì di nulla, come se il nulla in cui aveva vegetato dopo la perdita della moglie lo avesse definitivamente inglobato. E al funerale vennero solo poche donne di pietà perché in paese lo avevano dato per morto molti anni prima.
Solo allora se ne andò anche Ernestina, ma non troppo lontano perché per lei era ormai tardi. Rilevò un negozietto all’angolo della piazza, con camera e cucina al piano di sopra, e vi vendeva fili, bottoni, colletti e scampoli di stoffa. Gualtiero era tornato col suo fagotto di fallimenti, e nella vecchia casa conduceva una vita da rinnegato, barricandosi tra le rovine di famiglia fino a diventare egli stesso un topo di legnaia.
L’hanno poi trovato impiccato nella rimessa, con un cane afflitto che rosicchiava una scarpa poco più in là. Dicono che ormai beveva troppo e troppo male per tenersi un lavoro, qualunque lavoro. Altri pensano che sia stato per il dolore di non poter più vedere i suoi figli dopo la diffida del tribunale. O entrambe le cose. Anche in lui doveva aver albergato il germe negativo di suo padre, quella stessa vocazione all’inettitudine e alla mediocrità.

Entro in casa varcando il cancello che non c’è più. Era stato il loro orgoglio in un paese dove non esistevano staccionate e recinzioni, e dove si accedeva alle aie delle grandi case coloniche attraverso porticine ritagliate nei vasti portoni carrai. In mezzo alla ghiaia del cortile, secchi e tinozze di plastica sfondati, copertoni lisi di camion, rottami di ferro. Le tapparelle, altro orgoglio quando tutte le altre finestre del paese erano ancora riparate da imposte di legno scrostato, pendono a metà, sbilenche e scardinate. Quelle che sembrano tende di velo antico dietro i vetri sono ricami complessi e sovrapposti di ragnatele. Nelle camere in penombra, le reti metalliche dei letti arrugginiscono, e ovunque immondizia, bottiglie, lattine, pile di giornali, stracci, imbottiture sfondate, muffe e sudiciume sui muri, i segni di un falò in mezzo al pavimento del salotto. Per di qua è passata la disperazione, e non ha trovato ostacoli. Come il nubifragio che aveva divelto il pollaio e sterminato l’orto, quando la terra sulla tomba della madre era ancora fresca.

Ernestina forse mi aspettava, si è vestita in un certo modo, goffamente distinto, che me lo fa supporre. I celebri riccioli di famiglia, con quel loro inconfondibile colore di miele scuro, si sono però trasformati in un mazzo di pannocchie riarse, e poi quegli occhiali, mio Dio, quelle lenti grandi e pesantemente ambrate, dietro le quali lo sguardo sembra al tempo stesso sfuggente e maligno. Appoggia le mani a pugno sul vetro rigato del banco in un atteggiamento aggressivo, e alle sue spalle gli scaffali sguarniti espongono la miseria dell’abbandono. In vetrina ho visto qualche bavaglino e dei gomitoli di lana, ma soprattutto uno strato di polvere e falene seccate.
“Sei venuta a vedere come ci siamo ridotti? – mi apostrofa, avvelenata – Guarda, guarda pure, guarda tutto finché puoi, che io ormai non ci vedo quasi più”.
E con una mano fa un gesto rabbioso verso gli occhiali giallastri, indicandomi così l’ultima malasorte con una specie di disgraziata fierezza.
“La casa la vendiamo, sì. Se solo qualcuno la volesse, perché per ora nessuno si è fatto avanti. Forse dovremmo buttarla giù e farla finita, così magari almeno la terra farebbe gola a qualcuno”.
Mi butta là frasi così, dure, risposte a domande che si aspettava da me ma che io non le faccio. In negozio non entra nessuno, mentre mi riassume gli anni dello sfacelo come se sputasse fuori rospi, o peccati vergognosi.
“Dodici anni che non ci parlavamo. Del resto lui non parlava con nessuno. Con i cani, forse. I cani! In quella casa non c’era né telefono né acqua calda, però lui  si teneva i cani, e scommetto che mangiavano meglio di lui. Adesso se li sono portati via, è venuto uno del Comune a prenderli”.
Mi dice anche:
“Voi non potete capire. Voi di città. Cosa ne sapete voi?”
“Questo non puoi dirlo. Siamo di famiglia, Ernestina, siamo addolorati anche noi, davvero”.
E vorrei aggiungere che neanche io ho avuto una vita facile, ma sarebbe vigliacco, così mi tengo dentro tutta questa desolazione, la sua e la mia.
“Compratela voi, la casa. Comprala tu. Perché non la compri? Vale poco, puoi permettertela di sicuro – attacca Ernestina, ed è una sfida.
Ma poi fa un gesto di disgusto:
“No no, a  voi di città non la venderemmo mai. Piuttosto la buttiamo giù e morta là. Tanto io presto me ne vado, ho fatto domanda all’Istituto per i Ciechi, tra poco non potrò più arrangiarmi da sola”.
L’ultima cosa che mi dice prima che esca ha tuttavia qualcosa di conciliante:
“Che vuoi farci, è andata così”.

Fuori, in piazza, una coppia di turisti fotografa la meridiana sulla pieve, mentre i vecchi già giocano a carte ai tavolini del bar sotto i portici e l’ombra del tramonto taglia in due la facciata del Municipio.
La mia macchina è posteggiata lì sotto. Devo solo recidere alcune radici e poi infilarmi in autostrada con Glenn Gould in sottofondo.

Le buonanime

Io fino a due anni fa facevo la postina. Che portare la posta a Venezia non è mica un scherso come in teraferma. Prima di tuto in teraferma hanno i motorini, e qua no; qua tuto a piedi, su e giù dai ponti, dentro e fuori le calli, e l’acqua alta e i numeri civici balordi che se non conosci a memoria tuto il labirinto ti trovi a girare in tondo come un imbriago. A noi a un certo punto ci hano dato un carello tipo per la spesa, almeno quelo, no come una volta che avevamo la borsa a tracolla che pesava un acidente. Ma anche col carello non è per gnente un scherso fare i gradini, provate voi di teraferma.
Poi un giorno mentre tiravo su il carello in retromarcia sul ponte dei Ferri un ebete di un garzone che spingeva in giù il carello suo di frutta e verdura ci è scapato di mano e mi è finito adosso tuto belo pesante sul calcagno destro, un male dell’ostrega che sono quasi svenuta.
Sei mesi avanti e indietro dall’ospedale ho fato, per via che il tendine si è belo che roto, e dàgli di operassioni e gessi e fisioterapie, gnente da fare, sono rimasta zoppa, orcocàn.
E sicome che sono come si dice categoria proteta per via di quele due o tre rotelline difetose che ho in testa dala nassita, il Comune mi ha trovato un altro lavoro da far meno fatica, quatro ore al giorno la matina presto, a pulire i musei.
Mi va anche bene perché c’è i assensori e poi non è gnanche tanto dificcile, basta passare con calma una bela scopa e un straccio bagnato, non c’è gnanche mobili da spostare.
L’altro giorno c’era un nebione della malora e dai finestroni del museo Corèr si vedeva tuto bianco, che i vetri non sembravano gnanche sporchi. Ero là che tiravo il straccio su un pavimento quando sento qualcuno fare il mio nome.
“Vardé vardé siora mare, la Ceschina!”
Guardo di qua, guardo di là, nesuno. Saranno le mie rotelline, ho pensato, e ho ripreso a lavorare.
Ma quella là insisteva, con una vocetta da maestrina, tuta smorfiosa:
“Ceschina, sei proprio tu! E non ci saluti?”
Salutare chi, che intorno non c’era nesuno, solo quadri da spolverare.
“Guarda qua, Ceschina, siamo le tue buonanime – mi sento dire.
E infati erano delle buonanime ma di qualcun altro, non certo mie, dentro un quadro tacato sul muro, un quadro anche belo devo dire, con ste belle figurine tute in ghingheri sedute in salotto, che guardavano proprio dala mia parte. Ho piantato lì il spassolone e ci ho risposto educatamente:
“Sì sono la Ceschina ma voi chi sareste che non vi ho mai visto?”
“Eh, tu non ci conosci ma noi sappiamo tutto di te, vero siora mare? – dice la donna giovane, quela col vestito bianco e il ventaglio.
Siora mare è quela di sinistra, con la scuffia in testa e un gato in braccio.
“Ceschina, ti presento le tue bisavole: mia figlia Ortensia e i miei nipoti Zanetta, Carlina, Eleonora e Maffeo. Io sono la bisavola Eugenia e questo è il gatto Momi. Ti piacciono i gatti, vero?”
“Eccome che mi piacciono, ho un gato anch’io e guarda che combinassione si chiama Momi anche lui!”
“A Venezia i gatti si chiamano quasi tutti Momi – dice la figlia, l’Ortensia, con l’aria di una che i gati ci fano un po’ senso, sta smorfiosa.
Il fantolino vestito da bambolotto ataca a ridachiare, e sua mama ci fa:
“Tasi ti, buratìn!”
La fiola granda, la Zanetta, vuol far la sua figura e dice:
“Certo che la Ceschina ha proprio un’aria di famiglia: è zoppa anche lei come l’avo Bartolomeo”.
E qua tute cominciano a contarsela, guardandomi come se fussi una casseta di sardèle sul banco del pessivendolo, e io capisco e no capisco, parlano di certa gente che davero non ho mai sentito prima.
“Non dire stupidessi, l’avo Bartolomeo era zoppo perché a Lepanto si era preso delle schegge di cannone in una gamba. Piuttosto come l’ava Prosdocima, che era badessa a Santa Maria delle Grazie e aveva la gotta”.
“Le mani però sono quelle dell’avo Barba Frutariòl, che aveva banco e bottega a Rialto”.
“Gran lavoratore anche lui!”
“Sì ma gli occhi? Precisi a quelli dell’ava Dolfina, che abitava giusto di fronte alla Veronica, la Veronica Franco”.
“Stessi capelli dell’ava Lucinda, che aveva sposato quel tessitore alla Giudecca. E il naso mi ricorda tanto quello dell’avo Pompeo che dirigeva il coro a San Marco. Dico bene?”
“Senti però, Ceschina – mi fa la vecchia con un modino tuto afetuoso – scusa se te lo dico, ma quel camiciotto celestino non ti sta mica bene, sai. Ti sbatte. Ah, se potessi andare di là, ho una cassapanca piena di damaschi e merletti, ti regalerei volentieri qualche braccio di stoffa per farti un bell’abito come si deve!”
“E io – si mete in mezo il magiordomo sull’angolo della porta – offrirei ben volentieri alle Vostre Signorie una cioccolata, un rosolio, ma purtroppo il Maestro mi ha messo qua in piedi, né dentro né fuori, e non posso servire nessuno…”
Io sono là tuta esterefata che li ascolto, le bele cose che dicono, le maniere da signoroni, tuta quela bela creanza, e un poco mi vergogno col mio camisoto celeste e il spassolone.
“Ma voi come fate a sapere tute queste cose della famiglia?”
“Eh, mia cara, noi siamo qua da tanto di quel tempo, vediamo tanta di quella gente, ascoltiamo tante di quelle storie…”
“E giriamo il mondo, anche. Parigi, Londra, Madrid, San Pietroburgo… All’estero i musei sono pieni di italiani, qua invece vengono quasi solo i foresti. Mah.”
“Ma siamo proprio sicuri che siamo parenti? Perché a me mi par tanto strano…”
“Sicuri, sicuri. Venezia è piccola e siamo tutti un po’ parenti. Avevi sì o no un bisnonno orologiaio a San Marcuola? Ecco, quello era pronipote di un pronipote di questo fantolino qua, Maffeo, che adesso se la ride come un macaco”.
“Ma senti che notissia… Se ce la raconto ala Sonia sicuro che non ci crede…”
La Sonia è la mia compagna di pulissie; al momento è due salette più in là che finisce di lavare per tera, ma fra due minuti verà a chiamarmi perché è ora di andar via.
Bisogna salutarsi, perché a le buonanime non ci piace che i estranei ascoltano i fati nostri, e fra i complimenti mi fano tante racomandassioni:
“Ceschina, i capelli: fatteli più vaporosi!”
“Ceschina, un bell’impacco di glicerina sulle mani tutte le sere!”
“Ceschina, la cipria!!!”
“E stai bella dritta con la schiena!”
Poi ariva la Sonia e quelli si fano tuti muti, mi sembrano anche un po’ più pallidi, sono tornati fissi imobili dentro il quadro, là in posa come prima più di prima.
“Cafè? – mi fa la Sonia davanti al distributore.
E io: “Macché cafè, oggi ti ofro io la ciocolatta al Florian, qua in Piassa!”
“Ciò, e da quando ti xé deventada ‘na Signora? – la Sonia spalanca i ochi.
Mi meto a ridare:
“Sempre stada, vecia mia, sempre stada”.

(nell’immagine, Pietro Longhi: La famiglia Sagredo, 1752)

Serenissima

1755, un pomeriggio di autunno inoltrato, nel palazzetto Sandonà sito in fondamenta della Misericordia, sestiere di Cannaregio.
I musici arrivano per tempo e si danno subito da fare per verificare se la sala da musica sia stata predisposta in modo confacente; fanno spostare sedie e tavolini, misurano a occhio, fanno e disfanno con grande gravità finché non sono ragionevolmente soddisfatti. Poi chiedono di essere lasciati tranquilli qualche minuto per accordare gli strumenti e gli spiriti prima dell’arrivo degli invitati, e da dietro la porta iniziano a formarsi suoni di prova, per ora slegati, interrotti, bislacchi, come stonature di goffi principianti. Io, servetta dodicenne venuta dalle campagne, me ne sto nei paraggi senza farmi vedere ma attratta da enorme curiosità, e mi chiedo come questa accozzaglia potrà, fra poco, trasformarsi in qualcosa di compiuto, ordinato e così paradisiaco come il mio padrone si aspetta.
Frattanto sopraggiungono gli ospiti. Ecco fare ingresso la figlia maggiore maritata, con quel suo goffo marito infelice al guinzaglio, ecco i suoceri intimiditi e ansiosi di far buona figura. Ecco poi alcuni notabili con le mogli, nonché il medico e il farmacista, tutti più mondani e a loro agio; ecco la marchesa Dolfin, donna affascinante malgrado l’età, la cui purissima nobiltà è finita sul lastrico. A ognuno ritiro pastrani, cappelli, bastoni da passeggio; le signore si liberano di mantelle e manicotti, esibendo gli abiti buoni con scollature peraltro modeste data la natura severa dell’intrattenimento.
E finalmente i maestri concertisti annunciano di essere pronti. Per generosità del padrone, i due battenti della porta vengono lasciati spalancati, e i servi sono ammessi sulla soglia, la cuoca, le fantesche, perfino il vecchio gondoliere, un omone grande e grosso, ruvidissimo e di così poche parole da passare per muto. Si affollano discretissimi e rispettosi, gli occhi lustri.
Io, la più piccola e l’ultima arrivata, la sguattera di cucina, mi accuccio da sola sul primo gradino della scala, gelido e duro, in attesa di capire quale rito a me sconosciuto si stia per celebrare. Inchini, riverenze, sommessi complimenti, poi gli ultimi scalpiccii, gli ultimi cigolii delle sedie, gli ultimi fruscii degli abiti ben accomodati, e si fa silenzio.
E da questo silenzio germoglia, sboccia, si apre, si alza e vola sotto gli alti soffitti verdeazzurri una voce unica, un arpeggio di corde di leggiadria estrema, e si articola disunendosi e poi riunendosi come un filo di seta, o d’oro fino; si snoda, si sgomitola, si divincola lieve sopra le parrucche e i bassi pensieri, se ne va su a galleggiare per l’aria intrecciando note a cascata, una dopo l’altra e una dentro e sopra l’altra, in una armonia mirabile, e quest’armonia pare nascere ininterrottamente da se stessa e sostenersi da sola, spandersi sopra le nostre teste, occupare poco per volta tutto lo spazio alla ricerca di un altro spazio più vasto dove distendersi, di un cielo libero, magari dalle parti dove sta il Paradiso degli angeli, unico posto degno di questa infinita bellezza, troppo perfetta per appartenere al mondo dei mortali. Ė dapprima un liuto gentile, ma a momenti imperioso, poi trascinante, poi cadenzato come una danza sui prati; ma presto si inserisce un altro timbro, quello di un oboe, cui il primo strumento sembra aver voluto solo aprire la strada, e da esso si sprigiona intensa e pungente una nuova melodia, malinconica come una pioggia autunnale, poi mistica come una preghiera, e prende il posto del brio trasformandosi in dolce e accorato tormento, come se raccontasse un dolore fine, e lo accarezzasse con infinita grazia. Un incanto mi assale la mente e tutte le membra, illanguidendo, erodendo, scavando sotto la scorza dei sentimenti nascosti, frugando l’intimità più vulnerabile, trafiggendo i sensi e il cuore col più tenero e crudele stiletto. Nessuna voce sa essere più struggente di quella di un oboe quando è triste, e in questa improvvisa rivelazione avverto la mia piccola anima spezzarsi in un dolce mare di lacrime.

Devo essere svenuta.
Mi sveglio sul mio lettuccio in soffitta. Accanto a me il padrone, il dottore, la cuoca, mi sventolano con un ventaglio, mi toccano la fronte, la trovano rovente.
“Cos’è stato? – chiedo in un sussurro.
Qualcuno, misericordioso, mi dà la spiegazione:
“Musica. Si chiama musica. Ora dormi tranquilla, va tutto bene”.

*  *  *

Contributo all’eds della donna Camèl, insieme a:
Incanto, di Dario
Io, l’amministratore e la signora grassa, di Hombre
Il viaggio, di Pendolante
Quel certo non so che, di Lillina
Io non c’entro, della Donna Camèl
Mercoledì, di *cla
Tutto quello che avreste voluto sapere sul seNso ma non avete mai osato chiedere, di Hombre
Cinque, di effe 

nell’immagine, Concertino, di Pietro Longhi, 1741

Per esempio la neve

I primi a cantare erano i galli dei monaci della Certosa, nella lontananza della campagna, quando dietro il bosco il nero della notte virava al blu scuro.
Clotilde si alzò, accese il lume e si affacciò alla stanza del fratello. Magnus era già sveglio, come ogni mattina, e con la sola testa e le mani fuori dalle coperte aspettava solo quel segnale per scostarle e balzare giù dal letto, pronto e felice come se ogni giorno fosse di festa.
Magnus era così: il corpo di un uomo di trent’anni, il cervello di un bimbo di tre, l’anima di un angelo. Le febbri che lo avevano colto quando era piccolissimo lo avevano lasciato un po’ tocco, di una stoltezza buona, fatta di candore e mansuetudine. Obbediente come un cane, laborioso come un mulo e portato alla felicità come un rondone a primavera. Sì, magari parlava poco, ma aveva il dono della sintesi e ciò che gli sarebbe riuscito complicato da dire lo esprimeva in sorrisi espliciti. E quelle mani, poi: mani d’oro, che sapevano fare di tutto.
Clotilde scese in cucina, ravvivò il fuoco e scostò le imposte: fuori era ancora troppo buio, restava una debole coda di luna al tramonto, già incalzata dall’indaco che sorgeva. Nella notte il gelo pareva essersi allentato: la campagna era molle di umidità ma non brillava più di brina. Magnus apparve sulla porta, alto e robusto e con la bocca già pronta al sorriso, e fece l’annuncio:
“Ho visto la neve”.
Se l’aveva vista, significava che l’aveva sognata; per lui non c’era differenza, non esisteva confine fra la realtà e il sogno, il suo contatto viscerale con la natura era vivo anche durante il sonno e gli parlava con la stessa certezza che percepiscono gli animali.
Clotilde gli credette subito. Gli credeva sempre. I due si scambiarono uno sguardo interrogativo, come stessero esaminando tutta una serie di fatti e programmi che non necessitavano di parole, e Magnus alla fine ripeté, con la medesima lieta sicurezza di prima:
“Ho visto la neve”.
Poi prese il secchio e uscì a mungere le vacche, mentre la sorella iniziava a impastare il pane sul piano infarinato della madia. Altri lumi si andavano accendendo nelle stalle dei casolari sparsi, altri coloni cominciavano la giornata dopo aver annusato l’aria per trarne presagi, altre donne impastavano acqua e farina e riponevano le pagnotte a lievitare accanto al focolare. Il latte fresco si scaldò sulla stufa e andò a riempire due grosse ciotole piene a metà di caffè d’orzo. I due fratelli fecero colazione continuando a lanciare occhiate alla finestra, come presi da un’urgenza che aveva tuttavia qualcosa di festoso.
C’era molto da fare, se davvero avrebbe nevicato. Clotilde rassettò velocemente le stanze, estrasse le trapunte più pesanti dalla cassapanca, spazzò i pavimenti poi raggiunse Magnus che stava rigovernando le bestie. Era nato un sole piccolo e fumoso, buono solo a spandere un chiarore lattiginoso e senza riflessi. Rabboccarono il mangime e l’acqua per le galline, i maiali, i conigli, e fissarono pezzi di tela cerata a coprire le lamiere del pollaio. Nell’orto sguarnito le verze si aprivano sfarzose, barocche, e Clotilde ne colse le due migliori per conservarle in salamoia. Con le ultime piccole mele e una decina di cachi riempì una cassetta e la mise in salvo dal gelo. Poi protesse con fascine di paglia il piede degli alberi da frutto, mentre Magnus rivoltava la terra dell’orto per l’ultima volta in quella stagione, affidandola poi alle drastiche cure dell’inverno. Avere dei compiti lo elettrizzava, e poterne contemplare alla fine i risultati gli dava alla testa dalla felicità.
Per tutta la mattina portarono avanti i preparativi per il lungo isolamento che li aspettava, e intanto il disco pallido del sole si era lasciato ingoiare da un grigiore denso come vello di pecore. La luce si era fatta spettrale, e anche la gatta si guardava intorno in attesa, senza allontanarsi troppo dalla soglia. Anche lei aveva visto la neve. Anche le cornacchie che volavano basse rasentando i pendii l’avevano vista.
Magnus salì sul tetto per verificarne la tenuta. Clotilde raccolse un cestino di uova. La gatta tornò dentro e si rannicchiò di nuovo a dormire accanto al fuoco.
Ingrassarono i serramenti esterni, i mozzi del carro, la carrucola del pozzo, gli scarponi. Magnus stipò la legnaia con nuovi ciocchi tagliati a misura e accatastati con ordine, occupando meticolosamente ogni spazio. Il fienile traboccava: con un forcone ciascuno rivoltarono il foraggio perché non prendesse di muffa, e non sentirono più il freddo.
Il nevischio cominciò intorno a mezzogiorno. Il primo a vederlo fu probabilmente il pettirosso sulla staccionata, poi lo videro anche loro dalla finestra della cucina, e terminarono la loro zuppa di castagne in piedi, con la ciotola in mano, guardando fuori dai vetri. Il cielo aveva assunto lo stesso colore e l’apparente consistenza del latte cagliato.
Magnus uscì di nuovo, stavolta per mettere al riparo gli attrezzi; prima li ripulì, li affilò, li fece brillare. Anche i suoi occhi brillavano di soddisfazione, e cominciava a brillare anche il terreno, dove la neve ancora sottile stava attaccando.
Clotilde ispezionò la dispensa: i sacchi di farina, di noci, di castagne, di patate; la damigiana dell’olio, il mastelletto di strutto; gli orcioli di miele, i vasi di composte, marmellate e confetture; le salamoie di ortaggi, le scatole di latta con le spezie seccate; i salami appesi alle travi; il sale, lo zucchero, gli scuri  bottiglioni di vino, le forme di cacio. Tutto in ordine, tutto confortevolmente in ordine.
L’imbrunire scese presto: la neve aveva preso forza e scendeva a falde più grandi, calma e sicura, senza vento né rumori, solo quella maestosa regolarità che indicava una nevicata lunga e abbondante, forse per giorni. Ormai era tutto bianco, e Magnus vi impresse le sue orme quando uscì per rigovernare gli animali per la notte, ma le tracce furono ricolmate presto e la neve ristabilì il suo ordine armonioso tutto intorno. Nel silenzio del vespero giunse ovattato il rintocco della campanella dei monaci, e parve lontanissimo. In fondo lo era, lontano, al di là di un mare di neve che ricopriva tutti i sentieri e donava nuove forme e dimensioni ai dossi e agli avvallamenti della campagna.
Cenarono alle cinque, o poco dopo, benché la notte si preannunciasse lunga, e tutte le notti seguenti. E dopo cena lasciarono aperte solo l’imposta della finestrella in cucina, per gettare ogni tanto uno sguardo alla neve che si ammucchiava agli angoli del vetro e continuava senza posa.
Clotilde avvicinò al focolare la sedia con il cuscino imbottito, inforcò gli occhialini che erano stati di suo padre e si mise in grembo i calzettoni di lana da rinforzare con nuove punte e nuovi talloni sulle vecchie smagliature.
La gatta si leccò a lungo il pelo già lucente prima di acciambellarsi con estrema cura per la notte.
E Magnus aprì sull’angolo del tavolo il suo quaderno, appuntì alla perfezione la matita con un coltellino, si diede uno sguardo contento tutt’intorno, incrociando quello rassicurante della sorella, poi cominciò, col sorriso nel cuore, a disegnare le sue macchine per volare.

nell’immagine: Claude Monet, La pie (1869)

L’estate mia

La luna che sorge stasera dietro il filare di pioppi è quasi tonda, quasi rossa e un po’ fumosa. Sembra una caramellona appiccicosa, e non mi stupirei se ne cominciassero a colare goccioloni gelatinosi come nel racconto di Calvino.
L’estate mia si misura in queste lune, in quei pioppi, che quando un po’ di vento passa attraverso le loro altezze ricorda il fruscio delle pinete a mare, quel fruscio che annuncia la risacca prima ancora che il terreno diventi sabbia affacciandosi sulle dune. Ma dietro i pioppi musicali dell’estate mia non ce n’è, di mare; c’è il parco di una villa veneta con le imposte sempre chiuse, e oltre ancora l’argine di un fiume che più volte ha fatto i suoi bei malanni e che comunque del mare non ha né l’odore né l’incanto.
Di canto c’è quello dei grilli e quello delle cicale. Di odore, quello dell’asfalto e della gomma surriscaldati, che persistono anche nel buio. I fossi sono cicatrici secche lungo i campi stremati, e tremolano in lontananza campanili di borghi che fanno ombra alle tende rosse di piccoli mercati.
L’estate mia è ferma al semaforo deserto di un paese alle due del pomeriggio, scenario abbacinante come un villaggio di cartapesta in Arizona, con due sole comparse che leccano pigramente un gelato davanti alla vetrina dell’agenzia immobiliare.
L’estate mia sono i nordafricani e le badanti slave accampati sotto gli alberi giovani del giardinetto, a far passare ore più inutili delle altre circondati da sacchetti di plastica e sandali rotti.
L’estate mia si misura nelle levate mattiniere con la testa piena di idee e una piccola riserva di energie per tentare di realizzarle contendendo le ore all’afa che poi arriva inesorabile già dopo il caffè; l’estate mia è correre comunque per battere il tempo, quello dell’orologio e quello meteorologico, perché più corro e meno sento il caldo. Il caldo lo sento tutto la sera, quando mi fermo quasi senza aver prima rallentato, e il contraccolpo è di quelli che fanno stramazzare sul letto in posizione di resa, mentre l’inattesa sensazione di conforto alla schiena in quell’alveo morbido e fresco è così inebriante da far girare momentaneamente la testa. E non è ipotensione. È solo annientamento nel benessere e coscienza di averlo meritato.
L’estate mia è annebbiarmi dentro un libro mentre fuori sale quella luna che dicevo e cantano quei grilli di cui sopra, finché gli occhi cominciano a socchiudersi e arriva benedetto il sonno, che durerà poche ore prima che tutto rinasca e si ripeta.
Ma l’estate mia me la tengo stretta, non ho fretta di consumare queste giornate che alludono all’imminenza di una vacanza, in cui mi muovo leggera vestita di poco e mi ricarico come una lucertola al sole. Non ho fretta di tornare a coprirmi, contare gli spiragli della nebbia, chiudermi dietro una finestra rabbrividendo nelle sere precoci. L’estate mia è quando ogni giorno, per il solo fatto che c’è il sole, potrebbe succedere qualcosa di bello, una bella corsa, un bel gelato, una voglia improvvisa di ballare, un ricordo felice che torna, una sorpresa della vita, lo stupore di una nuova storia da raccontare.
L’estate mia è una promessa di mare vecchia come me, e come me sempre incompiuta.

nell’immagine: Paul Gauguin, Donna polinesiana con mango, 1893

Madame, ou la promenade

Mi sono persa nel bosco, ma mantengo la mia compostezza.
E non è nemmeno vero che mi sia persa; casomai mi sono ritrovata, in questo bosco dove comunque è impossibile perdersi. Qui gli alberi non sono sbarre opprimenti di prigione, né inciampi sotto le zampe del mio cavallo, bensì tenui trasparenze che accolgono il nostro passaggio e si fondono con le nostre forme in un unico fluire come di risacca. La natura ci accarezza sotto le nostre carezze, diventiamo esili tronchi noi stessi che si ricompongono subito dopo il nostro passaggio, mentre noi filtriamo in foglie, in cielo, in nebbiolina. È un trapasso senza ferite né cicatrici, uno scambio di dolci sfioramenti e abbandoni. Ci diamo e ci trasformiamo come le sfumature dell’acqua in una laguna tranquilla. Transitiamo in un sistema di vasi comunicanti che nulla perdono e tutto rispettano. Attimi di lunare pienezza nel vivo di giornate cruente fra le mura troppo ornate di una casa troppo grande, troppo fastosa, troppo invadente. Attimi quasi di apnea come di pesci a pelo d’acqua. Si potrebbe sentire il vecchio fruscio della Terra che gira su se stessa e regola gli orologi degli uomini, togliendo il sonno a quelli che puntano tutto sul futuro dimenticando di dissetarsi.

Tra poco tornerò, tornerò al mio posto fra i candelabri, le tappezzerie, i domestici, il grammofono che starà suonando qualcosa di Stravinskij, gli specchi e gli armadi e le fatuità da salotto, la poltrona e il cognac di mio marito, e poi ancora lui, stasera, a bussare alla mia porta. Lui che non sa, non immagina, non può nemmeno concepire che le cose possano essere molto, oh molto diverse da ciò che sembrano.

nell’immagine: René Magritte, Le blanc-seing, 1965

Io vorrei, non vorrei, ma se vuoi

a gentile richiesta, il seguito al maschile del post precedente

Io invece ho un altro ricordo, di un pomeriggio freddissimo che il sole già calava alle quattro, noi in cima alle scalette che scendevano giù in Città Vecchia, la bora al suo terzo giorno che strapazzava i teloni di un piccolo cantiere abbandonato. Io che mi guardavo le scarpe per evitare non il tuo sguardo ma il mio, mentre ti dicevo basta, che ci sto a fare qui, devo partire; e tu che guardavi un bottone del mio cappotto come se la mia voce venisse da lì, come se sotto ci fosse la mia anima ben chiusa perché non scappasse – avrebbe potuto perdersi – poi alzavi la testa verso i miei occhi terribilmente imbarazzati, pentiti quasi, e quietamente mi dicevi solo va bene, vai,  ti aspetterò.
In quel momento mi hai fatto paura. In quel momento ho smesso di credere che l’avrei fatto sul serio. Partire. Andarmi ad arrischiare una vita migliore. Già di per sé era un’impresa formidabile il solo prospettarmelo, ora poi diventava maledettamente più difficile realizzarla perché avrei dovuto assumermi l’ulteriore responsabilità di avere qualcuno che mi avrebbe aspettato.
Eppure tu eri così tranquilla, così ragionevole. Credevi di esserti immedesimata in me, nel mio desiderio, credevi di averlo fatto tuo serenamente, così come in una coppia si cerca di condividere il bene e il male. Ma per me non era così. Io non ero ancora pronto a tanto. Quello che volevo non era una vita migliore ma fuggire da me, lo stavo capendo solo in quell’esatto momento. E se tu mi avessi aspettato, non avrei mai potuto fuggire così lontano.
Dimmi la verità, lo sapevi e lo hai fatto apposta?
Perché, vedi, più tardi ho pensato che tu avessi voluto mettermi alla prova. E se così è stato – magari lo hai fatto inconsapevolmente, in fondo avevi solo diciassette anni ed è questo che poi mi turbò più di tutto – in quel caso io la prova l’ho fallita, restando qui, e nel tempo cambiando poco di me e della mia vita, senza troppa infamia e senza troppa lode, senza troppo rischio né troppa ambizione, qui lungo il sentiero, sempre quello, sempre lo stesso, ma sicuro nella sua mediocrità.
Se fossi partito davvero, avrei dovuto vincere per trovare il coraggio di tornare. Per non temere di affrontare le risatine e lo scherno degli amici del bar, la pallida delusione di mia madre, il silenzioso disgusto di mio padre. Perdendo non avrei potuto tornare. Ma poiché tu mi aspettavi, avrei dovuto farlo comunque. Quindi niente, non ne feci più niente.
Voi donne la fate facile: se qualcosa vi va storto, piangete, tornate dalla mamma, le amiche vi consolano e danno la colpa a qualcos’altro; alla sfortuna, agli uomini. Gli uomini invece non possono permetterselo. Noi dobbiamo competere, essere cinici, essere superiori. Altrimenti ti cancellano, ti annientano, ti ridono dietro le spalle come i barboni ubriachi agli angoli dei giardinetti.
Fai presto, ora, a dirmi “salta”. E cosa trovo, al di là: il ventenne che ero, le ali per volare, il coraggio di cadere? E se cado davvero, e mi faccio male? E se sbaglio? E se combino una figuraccia, una di quelle che ti mettono ridicolo tutto, credibilità, carriera, posizione, identità sessuale perfino? Chi mi recupera, dopo, me lo dici tu, chi mi salva, chi mi rimette in piedi, chi trova una nuova giustificazione alla mia vita?

Perché mi guardi così, adesso? Ho detto le solite fesserie, vero? E tu non dici niente, sorridi tranquilla come quel giorno di bora, e come quel giorno di bora aspetti che ci arrivi da solo, alla risposta.
Tu.

nell’immagine: Henri Matisse, Icarus – 1943

Quadratura del cerchio

L’ultima volta, l’ultima volta… fammi pensare.
Mi ricordo quella sciocchezza che ci ha tanto messo allegria, sai quella macchia di vino stampata dal tuo maglione al mio quando ci siamo abbracciati ridendo, e gli altri di là non se ne sono accorti. Io l’ho coperta col foulard, tu hai tirato su la zip della tuta da ginnastica, ma il luccichio di quel vino rosso ci è rimasto negli occhi anche dopo, tornati in salotto con gli amici. Tu di un’altra, io di un altro, ovviamente, secondo le regole della vita. Forse addirittura tu di molte altre e io di molti altri, oppure, diciamolo onestamente, di nessuno. E poi parlare di musica e delle solite cose, perché dalle tue parti c’è sempre una chitarra e ci sono sempre vecchie canzoni, le nostre, quelle invecchiate ma solo sul calendario, squallido foglio di carta pieno di numeri assurdi che io non so contare.
Di cosa stai ridendo adesso? Della mia faccia strana, che mi viene quando guardo indietro imbambolata e i miei occhi si stringono nella fatica di toccare ricordi?
Ridi, e lo so perché, perché quei ricordi sono anche tuoi, o meglio di quegli altri noi due che in questo stesso momento stai vedendo con me, da un’altra prospettiva, decisamente maschile. Eh sì, maschile. Non hai mai capito le donne, da quando io sono stata la prima e ti ho confuso le idee.  L’assurdo è invece che a me è successo il contrario: conoscendo te, il mio primo, li ho poi conosciuti anzi ri-conosciuti tutti, gli altri, quelli di dopo, fino a oggi. Non te l’immaginavi, scommetto. Di tante cose sbagliate che mi desti allora, questa è il regalo migliore, e l’ho così ben conservato, così ben vissuto e assorbito da riuscire a essere qui anche oggi, dopo una vita; alla metà della vita. Non è per caso.
Vuoi sapere degli altri? I miei amanti? Certo, ti racconto. Se non ti dispiace, li rimescolo un po’, non so fare i conti lo sai, quindi non tengo elenchi. Ma poi non cambia, tanto erano tutti uguali. Ti racconto, sì, se vuoi, ma non fidarti dei loro nomi e delle date, immaginati un continuum, una specie di riga dritta con pochi sussulti, uno o due picchi senza volto.
Delle tue donne, se ci tieni, se ne hai bisogno, parlami pure, e io sorriderò. Le conosco tutte, anche quelle; noi donne ci conosciamo e non ci stupiamo mai. Vediamo subito i contorni delle storie che voi ci proponete, e le viviamo il più possibile al centro, per poi spostarci ai margini a girare attorno fino a trovare l’uscita, dalla parte opposta a dove ci avevate fatte entrare con un mazzo di rose fra le braccia.
Lo so che tu non la vedi così, e non è colpa tua. I tuoi successi virili sono una raccolta di trofei, ossidati ma pur sempre trofei. Sei entrato nel corpo delle tue donne come un generale che si appropria di una città capitolata, ma sfilando narciso fra quelle strade non si è accorto delle persiane che si sbarravano senza cigolare e definitivamente al suo passaggio. Da una città all’altra e da una donna all’altra hai condotto la tua campagna vittoriosa, e solo ora, e solo davanti a me alla fine del cerchio, dove l’inizio incontra nuovamente la fine e vi si fonde, ti accorgi che dietro hai lasciato morti e feriti, e avevano tutti la stessa faccia, la tua.
Questo ti spiego oggi, ti spiego la sconfitta, e non solo la tua.
Ti toccherà credermi, perché tu sei un uomo e la donna sono io, la tua prima e tutte le altre lungo il cerchio che ti imprigiona. Io ti guardo da fuori, col sorriso che già avevo la nostra prima volta, mezza vita fa, e che non so cambiare. E da fuori, da fuori di quel cerchio ininterrotto, ti sfido all’impossibile: salta.

nell’immagine: René Magritte, Les amants – 1928

se ti è piaciuto, puoi leggere il seguito – al maschile – qua