E poi fu notte e poi di nuovo mattina

Negli ultimi giorni di maggio – e delle sua vita – Zaira ricevette molte visite.
Il dottor Gandolfi, anzitutto. Ogni mattina, prima di aprire l’ambulatorio, passava da lei nel suo alone di ottimo dopobarba e si intratteneva i pochi minuti che lei gli concedeva, giusto il tempo di un galante complimento per il colorito roseo e l’aspetto disteso del vecchio viso, che sapeva bene essere l’effetto di un discreto filo di cipria. Lei lo aspettava eretta sui cuscini del grande letto, fra lenzuola candide di corredo signorile e con un paio di civettuole pantofole azzurre lì a fianco, come a suggerire l’intenzione di alzarsi a momenti. Ma anche questa non era che un’elegante finzione, da entrambi accettata con altrettanta eleganza.
Per avere notizie sulla sua salute, il medico si rivolgeva a Clara, la governante, che in cucina gli serviva il caffè, un ottimo caffè distillato con pazienza goccia a goccia come non ne beveva in nessun altro salotto presso i suoi pazienti altolocati. Le chiedeva se avesse dormito e come, mangiato e quanto. Ne riceveva risposte generiche e riservate, come se la cosa non fosse affar suo. E non lo era, infatti. Non più. Da tempo Zaira non gli permetteva nemmeno di tastarle il polso, lo riceveva solo per cortesia ma senza dargli modo di esercitare il suo ministero.

Gioia, la nipote più giovane, si affacciava alla stanza più volte durante la settimana, di ritorno dalle lezioni. Le mostrava tutta entusiasta le foto del suo cucciolo, a volte le faceva ascoltare l’ultimo pezzo per oboe che stava studiando. Un’anima luminosa e vivace, e due mani piene di grazia. Dopo che se n’era andata, a Zaira sembrava che il tramonto indugiasse di più e più dorato dietro la vasta finestra, come quando era giovane lei. A quell’ora Clara le portava il tè nella tazza inglese, e lei gentilmente ne beveva giusto il numero di sorsi sufficienti per non deluderla. Poi chiedeva di restare da sola e cercava di assopirsi rivivendo le frasi e i sorrisi della nipote, che somigliava così tanto a lei e così poco a tutti gli altri della famiglia.

I figli venivano le domeniche, quasi tutte. Il caffè, una breve conversazione appropriata e generica, tanta formalità, la paura segreta di toccare temi troppo personali come la salute, il futuro. Si trovava sempre qualcosa di poco impegnativo di cui parlare, come una laurea, un viaggio, il nuovo giardiniere. Anche dopo quelle visite i pomeriggi sembravano non finire mai, ma il sapore che lasciavano non era dolce del tutto.

Le sembrava che maggio si stesse facendo sempre più caldo. A metà mattina il sole girava l’angolo della villa e lambiva la terrazza; Clara interveniva puntuale per accostare mezza imposta, solo mezza perché dal giardino saliva l’aria rinfrescata dall’irrigazione e il profumo delle rose antiche.
Dalle altre stanze a tratti le arrivava un tintinnio di tazzine o il ronzio attutito di un aspirapolvere. I rari squilli del campanello era in grado di distinguerli quasi sempre: il postino, i fornitori, il fattorino della lavanderia. Come le telefonate, non la riguardavano, o così aveva stabilito con se stessa da tempo. Le restavano il ventaglio, qualche libro sul comodino e le ombre che danzavano sullo specchio al movimento lieve delle tende.

Gesuina arrivò una sera sul tardi, da molto lontano. Venezuela. Qualcuno stava dando una festa in una villa nei paraggi, e le note di una musica sudamericana portarono con sé anche lei, dopo tanti anni, vestita da india e con le braccia scure di sole. L’ultima volta che l’aveva vista era una bambina in braccio a una monaca, e gliela stavano portando via perché la madre si era rifatta viva e la rivoleva, e lei aveva dovuto lasciarla andare e accettare di non saperne più nulla.
“Ma tu devi stare tranquilla”, le disse Gesuina. “Ho sposato un brav’uomo e siamo emigrati per sistemarci. Abbiamo messo su una piccola azienda, con campi, vacche, banani. Stiamo bene. I nostri figli lavorano con noi, ormai abbiamo anche i nipoti e possiamo invecchiare in pace”.
“Dicevo di te che eri figlia dei bombardamenti”, le ricordò Zaira affettuosamente. “Le bombe di gennaio ti fecero nascere prematura, e quelle di giugno sventrarono l’orfanotrofio dove ti avevano abbandonata e misero in fuga le monache. Ma prima riuscirono ad affidare alcuni bambini a famiglie che potevano, e tu venisti a noi, a me. Ho sempre saputo che era solo per un po’ di tempo. E fu infatti poco, due anni. Ma adesso sei tornata per dirmi che ce l’hai fatta”.
Si sentiva stanca, molto stanca, come dopo una grande felicità. Gesuina se ne andò lasciandola addormentata, e intanto la musica della festa si era smagliata tra le fronde degli oleandri e lungo il viale non restavano che i lampioni accesi e le loro falene intorno.

La luce nella stanza era diafana come se avesse nevicato. Zaira si disse che era troppo vecchia per stupirsi di qualcosa, e del resto sentiva freddo davvero. “Ora chiamo Clara e le chiedo una coperta”, pensò. Ma in quel momento qualcuno le posò un plaid scozzese sulle gambe, dispiegandolo con cura e senza peso. Le pareva già di stare meglio. “Grazie”, disse.
L’uomo con la giacca di tweed era tornato a sedersi di fronte a lei e aveva riaperto il libro che stava leggendo. Era uno sconosciuto, ma il sorriso con cui la guardava si sarebbe potuto definire amorevole.
“Jean, sei tu?”
“Sì. E noi siamo ancora sul notturno Parigi-Venezia”.
“Siamo fermi in Svizzera per la neve?”
“Stanno lavorando sulla linea. Gli inservienti stanno distribuendo coperte, dicono che ripartiremo verso mattina”.
Zaira rifletté.
“Tu stai andando a un convegno a Milano”.
“E tu a rivedere tuo padre in ospedale. Sei molto in ansia, temi di non arrivare in tempo”.
“Ho fatto in tempo. Mi ha aspettato”.
Zaira tornò a chiudere gli occhi. Si sentiva al sicuro con Jean accanto. Da lontano le sembrava di sentire il raschio degli attrezzi degli spalaneve, tra gli alti pini delle alpi svizzere. Era come tornare bambina la notte di Natale, col sonno leggero e i fruscii dell’inverno dietro le finestre. Soprattutto con la certezza che qualcuno vegliasse su di lei. Anche se era un perfetto sconosciuto con il quale divideva ore insolite di un viaggio notturno. O forse a maggior ragione.
C’era stato un bacio, sì. Alcuni baci. Nati dall’attesa, dall’incertezza, dalla tenerezza di due solitudini in mezzo a una notte molto lunga e molto sospesa. Niente di più, solo un lieve ricordo negli anni, come di un dono giunto per caso al momento giusto lontanissimo da casa.
“Ecco”, disse Jean dopo un po’.
“Ci stiamo muovendo?”
“Ha smesso di nevicare. È tutto ciò che so”.

Erano nuvole estive. O forse le tende leggere che oscillavano appena alla brezza di mezzogiorno. No, non erano nemmeno quelle. Era Guido che varcava adagio la soglia della terrazza in completo di lino bianco. Come le tende, come le nuvole.
“Ti sta benissimo, quel completo da crociera”, gli disse Zaira dopo averlo studiato.
“È per il nostro giro del mondo, ricordi?”
Aveva sempre quel sorriso malandrino, invecchiato con lui e con le loro vite.
“E quando ci imbarchiamo?”
“Appena sei pronta”.
“Ma i bambini?”, chiese Zaira con improvvisa apprensione.
“Sono in buone mani, stai tranquilla. Ora è il nostro momento e non pensare ad altro”.
“Non vorrei dimenticare niente, lo sai come sono fatta”.
Guido girellava per la stanza col suo Panama in mano, osservando oziosamente i dettagli che quasi settant’anni prima avevano curato insieme. Soprammobili, lampade, fotografie, gli stucchi francesi del caminetto.
“Questa puoi lasciarla qui”, disse indicando la fleboclisi accanto al letto, di cui Zaira non si era ancora accorta. “Partiamo leggeri”.
“Leggeri. Sì, lo sono. È una bella sensazione, forse è la prima volta che la provo”.
La mano di Guido sopra la sua aveva il tocco più familiare del mondo, era come aver ritrovato il pezzo mancante e averlo rimesso al suo posto su misura, combaciava senza sforzo, alla stessa temperatura e col medesimo diafano peso.
“Allora dici che posso venire così come sono?” gli chiese un’ultima volta.
“Sei bellissima così come sei”, e a quelle parole l’anello nuziale che le ballava sul dito smagrito gettò un bagliore complice.
“E com’è il mare?”
Si lessero a lungo negli occhi, che avevano entrambi azzurri, trovando insieme e nello stesso istante la risposta che avevano saputo da sempre. Com’è il mare? Com’è il mare?
“Calmo e profondo”.

La pappa!

Questa è vera quant’è vero Iddio, tramandata negli annali della mia famiglia come una delle pagine più pittoresche e significative della prima infanzia di me medesima, quella me medesima che, nata sotto il segno dell’Acquario, già in tenerissima età manifestava intraprendenza, talento artistico e doti creative.
Era una bella estate sul finire, al Lido passava la Mostra del Cinema (fu l’anno di Rashomon, per illustrare il livello) e sulla spiaggia attricette e parvenus si facevano immortalare dai fotografi, mentre nelle serate danzanti dei grandi alberghi impazzavano le musiche elettrizzanti di Perez Prado.
Io avevo mesi pochi ma sufficienti a gattonare e a progettare guai, ragion per cui nei momenti di maggiore indaffaramento mia madre mi neutralizzava deponendomi all’interno di un box con sbarre di legno. Mi ci trovavo, contro ogni mia volontà, anche il mattino di quella famosa telefonata. Il telefono lo avevamo da poco, e infatti a poco serviva. Lo avevamo messo più che altro in caso si dovesse chiamare il pediatra, perché quasi nessuno dei nostri parenti e conoscenti lo aveva. La nonna, per esempio, che abitava a Venezia, non lo aveva. Quella santa donna, per avere notizie della sua prima nipotina, si alzava all’alba, puliva casa, preparava il pranzo per il nonno, prendeva il vaporetto e in un’oretta, pian pianino, fermata dopo fermata, sbarcava al Lido e si presentava a casa nostra con la sua sporta piena di piccoli doni umili.
Una che aveva invece il telefono era la più cara amica della mamma, e con lei stava parlando quella mattina di bel sole, finestre spalancate e Tico Tico dalle radio di tutte le case vicine.
Io nel box mi annoiavo. I giocattoli li avevo già gettati tutti sul pavimento, avevo tirato anche un po’ di strilli nervosi e tentato inutilmente di scardinare le sbarre, ma quelle due ne avevano, da raccontarsi. Avessi avuto una sorellina, un fratellino, un gatto. Ma vennero tutti dopo, col tempo..
A proposito di gatti, lo sai cosa fa un gatto quando non sa più come attirare la tua attenzione? Ti fa gli scherzoni. Ti rubacchia la penna, ti fa cadere un soprammobile, ti graffia il divano, finché non gli dai retta.
Io feci la cacca.
E dato che avevo mangiato la pappa di carote, feci la cacca di pappa di carote, per colore e consistenza perfettamente identica, giusto un po’ differente quanto a odore. La feci, l’osservai e mi dissi che com’era entrata così era uscita, tale e quale. Arancione e papposa. E siccome non mi era nemmeno piaciuta, l’idea di averla trasformata in cacca fu un po’ una vendetta.
Solo che non è tutto qua. Una marmocchia di pochi mesi è perfettamente autorizzata a fare la cacca nel box, non c’è nulla di cui rimproverarla, soprattutto se la mamma è temporaneamente distratta altrove.
Bisognava aggiungerci il tocco speciale, quello che avrebbe trasformato un evento naturale in un monito degno di essere ricordato.
Così, mentre la mamma continuava a parlottare al telefono, io con le manine sante cominciai a raccogliere la santa cacchina papposa e a spalmarla coscienziosamente dappertutto, sulle odiate sbarre, sul pavimento di cartone, sulle gambette nude e, con maggiore abbondanza, sul bel musino lentigginoso che mi ritrovavo e che tutti volevano sempre sbaciucchiarmi. Tracciai pennellate spontanee secondo una tecnica di mia invenzione (successivamente copiata da certi pittori astratti) ottenendo interessanti effetti cromatici e soprattutto materici, e avrei continuato a perfezionare la mia performance se ad un certo punto non mi fosse venuta a mancare la materia prima.
Finita la telefonata, la mamma mi trovò così, placida e orgogliosa della sontuosa opera pittorica che mi circondava e di cui facevo parte. Un quadro vivente, e olezzante. Mi sentivo come mi sarei sentita tante altre volte nella mia vita, in futuro: appagata per un atto artistico originale, come quando metto la parola fine a un racconto perché ormai quello che avevo dentro è uscito tutto (sì, ammetto che il paragone è imbarazzante, potete astenervi da battutacce ovvie).
Qui il biografo dice solo che a mia mamma cascarono le braccia, sorvolando con eleganza sulla scena isterica che ne seguì, e che sfociò in una nuova telefonata di sfogo, stavolta a mio padre, il quale non la prese tanto bene e minacciò di sciogliere il contratto con la Telve. Poi però non lo fece. E neppure mia madre mi fece più la pappa di carote.

*    *    *

Scherzosamente scritto per l’Eds arancione del grande cocomero, bandito dalla Donna Camèl che ormai tutti ben conoscono…
Leggi gli altri:
Matilda di Dario
Condomini di La Donna Camèl
PC gate di Lillina
Giuseppe di Pendolante
Essere Johann Cruijff di Hombre
La torta di amarene
di Calikanto 
Notte insonne con gatti rosso arancio di Angela
Jamaica discromatica di Cielo
In pirlo veritas di Singlemama
Tequila sunrise di Leuconoe
La stessa tonalità di Marco C.
Il quadro capovolto (1a parte) di Fulvia
Pronto soccorso di La Donna Camèl
Maracaibo di Lillina 

L’albatro – 4 di 4

A volte fui malato. Un’estate, la dissenteria. Sudavo freddo e tremavo, e il mio corpo si svuotava di continuo lasciandomi stremato. In più occasioni mi procurai ferite brutte, talora slabbrate, con gli attrezzi da lavoro. Mi capitò di dover stare inattivo e a riposo sulla branda, alternando la coperta contro i brividi e la fiasca dell’acqua per la febbre che mi prosciugava. Quando non mi vedevano affacciarmi, cominciavano a preoccuparsi, così predisposi un cartello ed ebbi cura di appenderlo al parapetto non appena avvertivo segni di malattia: “Tutto bene, sono solo molto occupato”. Mentivo, un po’ per orgoglio e un po’ per amore.
Una mattina, però, più o meno un anno fa, al risveglio dopo una notte d’inferno in cui ero stato più che altro incosciente a causa di una febbre polmonare, feci una scoperta che mi fece singhiozzare di tenerezza: sulla panchetta accanto al mio letto madido qualcuno aveva deposto un bottiglino di sciroppo e un biglietto: 3 cucchiai al giorno per abbassare la febbre.
Qualcuno, Maxim o il dottore o entrambi, erano saliti a bordo furtivamente per portarmi soccorso, infrangendo le regole e i vincoli finora rispettati da tutti.
Ed è successo ancora, più di recente, e stavolta erano compresse di aspirina o asciugamani puliti, brodo di carne, disinfettanti, un cuscino di piuma d’oca, mutandoni di lana ruvida, liquore d’erbe. Libri, tanti libri. Contro l’ignoranza e l’isolamento.
Approfittano delle mie infermità, dei miei stati di sopore, e si curano di me più di quanto si curino della Legge. Non si fanno sentire né vedere, non si lasciano ringraziare. Di tutto questo non si parla, non si deve parlare. Succede, lo fanno, e io lo accetto in silenzio. Un patto più forte di tutti i patti. Dio lo chiamerebbe Misericordia.

Il resto è nel diario, un quaderno ormai slegato, con i fogli che si staccano e cambiano posto, invertendo e confondendo la cronologia di questi dieci anni, forse quindici.

Aprile
Da tre giorni non vedo Maxim. Il secondo giorno un pescatore mi ha detto che sua moglie sta male. Il terzo giorno che è morta. Non sapevo avesse moglie. Non sapevo fosse malata. Vorrei solo essere con lui. 

Settembre
Sento dire che la guerra è finita, o sta finendo. Di più non si sa, ce lo racconteranno i reduci se e quando torneranno. Questa nave non potrà mai più navigare, questo è certo. Un po’ per volta ho utilizzato tutti i materiali sfruttabili, tramezzi di legno e piastre di ferro, lucerne, pezzi di ricambio, barili, olio, pece, cordami, vernici, manopole di ottone. L’ho mangiata viva. 

Agosto
Ho letto un libro che parla di me. Si intitola Robinson Crusoe. 

Dicembre
Il capo dei gendarmi mi ha regalato una bottiglia per Natale e mi ha messo in guardia. Dice che a guerra finita non finiranno automaticamente anche i miei guai, perché dovrò rispondere del reato di diserzione, clandestinità e furto di beni della Compagnia armatrice. Dice che devo essere paziente e aspettare ancora un po’ finché non si chiariscano le cose. Io invece penso che dopo tanto tempo si saranno dimenticati sia di me che della nave, che ci avranno creduti naufragati e buonanotte. 

Giugno
Ho chiesto consiglio a Maxim. Gli ho detto che vorrei scrivere una lettera a qualcuno perché mi aiuti a risolvere la mia situazione. Non so, un giornale, un ministro, un presidente di qualcosa. La Croce Rossa, eventualmente. Mi ha risposto che il servizio postale ancora non è ripreso del tutto, ma che intanto, se voglio, posso buttar giù qualche brutta copia. Lui me le correggerebbe volentieri. 

Luglio
A volte mi prende il delirio  che mi stiano ingannando tutti. Fin dall’inizio. Mi hanno convinto a restare qua, libero purché rimanga a bordo, e anche adesso che sembra che la guerra sia finita continuano a esortarmi a non fidarmi, a non scendere, ad avere pazienza. Io non lo so più cosa sto aspettando, a cosa serva avere ancora pazienza. Mi chiedo per quale diabolico motivo non vogliano lasciarmi andare. E subito dopo mi do dell’idiota per averlo anche solo pensato. 

Luglio
E se chiedessi asilo politico? 

Luglio
Ma a chi? 

Novembre
Tosse. 

Novembre
La nave sta andando in malora. Ruggine. Cattivo odore. Non ce la faccio, non ho più voglia. Mi metto sulla branda e faccio buio nella testa. Posso passare interi giorni così. Nella nebbia. 

Novembre
Ancora tosse, schiena indolenzita, testa che mi scoppia. Fa notte troppo presto. A volte sogno i topi, allora mi decido a ispezionare dappertutto, ma per ora nessuna traccia. Se arrivassero anche loro, non 

Febbraio
Freddo secco, rigido. Tutto bianco e d’alabastro. La tosse va meglio. Appetito, niente.

 Febbraio
Quanto mi manca un lungo bagno caldo, quanto. 

Marzo
Rondini!

Uno di questi giorni verranno festanti ad annunciarmi:
“Tutto a posto, è finita, sei libero, puoi scendere a terra!”
E per quel giorno io vorrei essere pronto, aver domato questa tosse, rimpolpato un po’ queste gambe scheletriche, raddrizzato questa schiena ingobbita, cicatrizzato tagli ed escoriazioni, ripassato come si fa a ridere, e preparare per loro una grande festa, farli salire, mostrare loro con orgoglio questo relitto generoso ripulito e lucente, e brindare, consegnare a ognuno piccoli doni (metterli in quelle mani che non ho mai toccato), ballare le loro canzoni suonate con la chitarra e la fisarmonica, girare girare girare fino a rischiare di perdere i sensi, e alla fine abbracciarli tutti e chiedere loro “Tenetemi con voi”.

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L’albatro – 3 di 4

Certe albe verde-azzurre, certe nottate di stelle estive passate in coperta un po’ dormendo e un po’ piangendo, certi cigolii di gomene sfilacciate, cullanti o stridenti a seconda della marea, gli odori dell’acqua stagnante e del ferro riscaldato dal sole, di vecchio combustibile e di alghe fresche al mattino. Le bitte di pietra, i gabbiani di cristallo.
Le case stinte con imposte da bambole, i tetti violacei dimore di cicogne; il fumo dei focolari in inverno, qualche spruzzo di neve, le ventate che scendono impetuose dalle montagne lontane e ruggendo si allargano verso il mare aperto lasciando turbini di foglie e polvere e stracci  e un cielo più vasto e abbacinante. Le lunghe sere di primavera, un muggito lontano dalle stalle, il canto semplice e contadino dei secchi di zinco. Il timbro antico di zoccoli di legno sui selciati sconnessi, le campane della domenica e dei morti, i bambini con lenze improvvisate che imparano a pescare dal molo, a piedi scalzi.
Un paese mai veduto eppure imparato a memoria.

Quando morì il vecchio Elijah, ne ereditai il mestiere e tutti gli arnesi. Mi sistemai un piccolo laboratorio in una cabina con luce e misi in piedi l’unica attività possibile: l’aggiustatutto. Mi facevo mandare su nel cesto o con corde robuste sedie spagliate, madie traballanti, mastelli sfondati, ma anche casseruole da stagnare, orologi incagliati o giocattoli di legno da riparare. Tutti lo impararono presto: se c’è qualcosa di rotto, portatelo a Viktor, sa fare un po’ di tutto e ha tanto tempo. Mi sono mantenuto così in questi anni, in una scambievole assistenza. Dalla mia prigionia a cielo aperto, ho sopperito con le mie alle mani degli uomini – mariti, padri – lontani in guerra.
“Maxim, cosa mi dici della guerra?
“Eh, la guerra. Va e viene”.
La guerra non si vide mai, ma si sapeva che c’era anche quando pareva tacere. Si spegneva qua per riaccendersi a tradimento un po’ più in là, e non si capiva mai chi stesse vincendo.
“Maxim, ma chi è che vince?”
“Non si sa. Devono ancora deciderlo”.
I bambini continuavano ad andare a scuola e a venire sotto la murata a fare i compiti.
A volte sotto la murata venivano anche gruppetti di ragazze, la domenica pomeriggio. Passeggiavano chiacchierando nell’unico giorno di festa, con i loro vestiti rilucidati e rammendati, le gonne coi ricami tradizionali che nascondevano le calze grosse, sui capelli larghi scialli a fiorami con frange di seta. Mi facevano sorrisi e cenni di saluto, ma erano vergognose perché ero un uomo e passavano oltre senza fermarsi. Forse però, allontanandosi ridacchiando a braccetto, fra loro parlavano di me.
Olga no, perché era sordomuta, e con lei usavano il linguaggio dei segni. E io, di Olga mi innamorai. Di quegli amori necessari ma solo sognati, un’invenzione della solitudine e dell’incertezza. Era un volto da riconoscere e cui pensare come fosse cosa mia pur sapendo che non lo era, come i giocattoli costosi nelle vetrine a Natale. Era una buonanotte dolce e malinconica quando scendeva il buio e mi rintanavo come un topo nell’unico letto che mi era concesso.
Più avanti si sposò, con un ragazzo sordomuto come lei, l’unico rimasto in paese perché scartato dall’esercito per la sua menomazione. Ed ebbero anche dei bimbi, che salutavo dal parapetto quando li conducevano a fare i primi passi lungo il molo. Non ero geloso di quella loro felicità, al contrario provavo una gioia dolente e matura nella mia rinuncia, e mi sentivo quasi un saggio custode di quelle giovani vite.

(continua)

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L’albatro – 2 di 4

Maxim mi insegnò la lingua. Una donna con tanti figli piccoli accettò di lavarmi e rammendarmi i panni in cambio di coperte, e le diedi tutte quelle dell’equipaggio, infeltrite. Ricambiavo l’assistenza alimentare come potevo, calando dalla murata ciocchi di legno presi dalla stiva carica o piccoli oggetti di uso comune trovati in cambusa, donando pastrani e cerate lasciati dai marinai la notte della fuga precipitosa. Trascorremmo l’inverno combattendo il freddo ciascuno come poteva: una parte del legname scaldò le casupole più povere del paese, con poco mi arrangiai anche io e ne rimase abbastanza per affrontare almeno un altro anno. A qualche vecchio pescatore donai stivali di gomma e acciarini, e ne fui ripagato addirittura con del vino. Quel giorno mi dissero che era Natale, e che tutti dovevano festeggiare, e oltre al vino mi portarono una ciambella con la glassa di quelle che mangiavano loro. La sorella del prete mi mandò un maglione pesante fatto da lei, ma non si fece vedere perché era donna pia e timidissima.
Tutti questi traffici, i doni reciproci, entravano e uscivano da bordo per un’unica via: attraverso un cesto appeso a un pezzo di fune e calato dalla murata, perché né io né loro mai e poi mai contravvenimmo alla regola del primo giorno. Eravamo due Paesi sovrani e confinanti, con la sbarra abbassata fra di noi. Questo diceva la Legge, e noi ci limitammo a passarci i nostri scambi attraverso il filo spinato virtuale che ci teneva divisi. Per dire le cose come stanno, le nostre mani non si toccarono mai.

Finiva l’inverno e io cominciavo a smaniare. La mia prigione mi stava stretta quando annusavo gli odori della terraferma e la brezza mi portava profumo di erba. Mi tenevo attivo ripulendo parti della nave che nessuno aveva mai curato, liberandomi di ciarpame che cominciava a puzzare di stantio, inventariando quanto di utile restava a bordo e che ormai consideravo tutto il mio avere. Ma non bastava a farmi dormire, e le notti senza altra luce che quella della luna, quando c’era, erano sempre più lunghe e febbrili.
Scrissi un biglietto per Maxim. Lo scrissi perché sapevo che certe cose non avrei mai saputo dirle a voce, con quel nodo in gola che mi soffocava. Glielo calai nel cesto senza una parola, e poi rientrai subito sotto coperta lasciandolo lì sul molo con la faccia accigliata e quel ridicolo pezzo di carta in mano.
Mi chiamò forte, due, tre, quattro volte, finché mi decisi a tornare fuori. Mi sentivo malissimo, mi rendevo conto di essere sul punto di perdere ogni dignità, tutto il mio coraggio, qualunque motivo di vivere.
Avevo scritto:
Maxim ti supplico, fammi fuggire. Una di queste notti io scappo, e tu non cercarmi. Scusa ma non ce la faccio più. Il tuo povero amico Viktor“.
Maxim aveva un’espressione severa, durissima. Agitò il foglio e gridò:
“Cos’è questa idiozia?”
Poi fece una cosa stupefacente: a passi rabbiosi raggiunse l’estremità del molo, scardinò il capanno dei pescatori e ne estrasse una scaletta di legno, che si trascinò dietro col viso paonazzo, e la appoggiò alla fiancata.
“No, cosa fai? – urlai io agitando le braccia.
“Cosa faccio? – ruggì mentre già saliva i primi pioli – Adesso vengo su lì da te e ti do un pugno in mezzo al naso, ecco cosa faccio!”
Era serissimo, deciso e furibondo, lo avrebbe fatto senz’altro, e io ero troppo inerme per reagire.
Non fuggii. Né quella volta né mai.

L’indomani mi sentivo convalescente, ma accadde qualcosa che mi fece guarire del tutto.
Maxim si presentò sul molo nel primo pomeriggio, stavolta seguito da cinque o sei dei suoi scolari: ragazzetti goffi di famiglie povere, con le guance rosse e i piedi irrequieti.
“Ti dispiace – mi chiese tranquillamente, come se il giorno prima non fosse successo nulla – ti dispiace se mi metto qui a fare un po’ di doposcuola a questi piccoli asini?”
Si era portato uno sgabellino, e i discepoli si sedettero per terra come gli indiani, aprendo sulle gambe i loro quadernetti ciancicati. Io assistetti a quell’ora di doposcuola con la commozione e la gratitudine di un figliol prodigo, e imparai anche qualcosa.
Quella notte fu l’ultima inutilmente insonne: la passai a cercare i pezzi di legno adatti e a inchiodarli col martello fino a costruire seggiolini per tutti, e una sedia più grande per il maestro. Alle due del pomeriggio, quando tornarono, li calai uno per uno con la corda e i ragazzi fecero un baccano da non credere. Maxim si pulì gli occhiali con il fazzoletto, o forse gli bruciavano un pochino gli occhi, non so.

(continua)

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L’albatro – 1 di 4

La ruggine sta avanzando tutto intorno, e dentro di me.
I primi tempi la contrastavo con tutte le mie energie; ero giovane, avevo tempo da buttare e rabbia da sfogare, avevo ideali confusi e bisogno di tenermi attivo per non dare di matto. Ogni giorno pulivo, grattavo, lucidavo, fino a farmi sanguinare le mani. Percorrevo la nave da poppa a prua e in tutti i suoi cunicoli, alla caccia dei segni del degrado che sapevo inevitabili. Tenere vivo e sano questo piccolo mercantile che è tutta la mia casa e la mia prigione era un punto d’orgoglio, era lo scopo del mio tempo interminabile e l’unica buona ragione per alzarmi ogni mattina dalla branda. Per anni, per decine e decine di stagioni, contro l’ossidazione, il salso, il marciume, il disfacimento. Con pochi arnesi, alcuni inventati, e con le unghie e la collera che coltivavo per tenere indietro la disperazione.

Attraccammo una notte senza luna, con le luci spente e i motori al minimo, in un porto nemico che non era la nostra reale destinazione. Era però il più vicino da raggiungere quando il marconista ricevette il messaggio dell’entrata in guerra. Eravamo in alto mare, trasportavamo legname, e nei giorni precedenti una burrasca ci aveva rivelato quanto poco fosse affidabile il nostro piccolo cargo. Il capitano forse perdette la testa quando decise di staccare la radio e di prendere terra ovunque fosse, purché il prima possibile.
Nessuno ci udì ormeggiare. Il paese disteso lungo il porticciolo era chiuso nel buio del coprifuoco. Gli uomini dell’equipaggio sgattaiolarono giù dalla passerella e si dileguarono alla spicciolata, ognuno verso una sorte diversa che li portava comunque a sparire nelle tenebre, come topi o ladri, come disertori o prigionieri evasi, inseguiti dal demone della Paura.
Io, clandestino su questa nave, non vidi nulla di tutto questo, ma dal mio nascondiglio dietro una paratia sentivo le voci e i rumori, e il resto lo immaginai e l’alba me lo confermò, quando finalmente riuscii a spostare i cassoni che mi incastravano e ad abbattere la porticina a furia di calci e spallate. Sul molo si era raccolta un po’ di gente, e osservavano la nave straniera arrivata di notte, chiaramente abbandonata.
Ma a poppa alitava appena nell’aria fredda la bandiera di un Paese neutrale (una scelta di comodo che mai come ora si rivelava opportuna), e ciò conferiva alla nave fantasma il privilegio dell’extraterritorialità, rendendola intoccabile con tutto il suo contenuto. Me compreso. Questo me lo spiegò il maestro della scuola, chiamato a fare da interprete perché loro e io parlavamo due lingue diverse.
“Come ti chiami?”
“Viktor!”
Gridavamo, lui dal molo e io dall’alto della murata, non ancora ben consapevole dell’effetto sconcertante che faceva il mio aspetto denutrito, straccione e allucinato.
“Io Maxim. Dove sono gli altri?”
“Scappati”.
“Lo sai dove sei?”
“No. Ma posso immaginare che i nostri due Paesi siano in guerra uno contro l’altro”.
“È così. Perciò ascoltami bene: qui il comandante dei gendarmi dice che se scendi a terra ha il dovere di farti prigioniero. Questo è quello che mi ha ordinato di dirti. Io però aggiungo che se invece resti a bordo nessuno potrà toccarti, perché il cargo è registrato presso un Paese neutrale e quindi è come se tu fossi in un’ambasciata, cioè al riparo. Finché resti lì godi una specie di immunità. Hai capito bene?”
“Sì, ho capito bene.”
“E allora, cosa pensi di fare?”
“Se resto a bordo non mi succederà niente?”
“Non ti succederà niente. Certo, dovrai cavartela da solo, perché nessuno potrà salire… ne hai da mangiare?”
“Provviste? Penso di sì…”
“Acqua? Da scaldarti? Hai una radio?”
“Credo che l’abbiano messa fuori uso prima di lasciare la nave, e anche tutta la strumentazione”.
“Beh, pensaci. Se hai qualcosa da comunicare, fammi chiamare. Ti ricordi come mi chiamo?”
“Maxim”.

Maxim è stato il mio primo amico. Non fosse stato per lui, forse avrei aspettato il buio e avrei tentato di lasciare il mio riparo la notte seguente, buttandomi alla cieca verso i boschi, le montagne, incontro a un ignoto inimmaginabile.
Maxim i primi tempi veniva al molo tutti i giorni a sentire come me la cavavo e a portarmi qualche notizia, anche se ne arrivavano poche. La guerra era cominciata, ma era lontana. Gli unici effetti erano una certa paralisi nei trasporti e un iniziale isolamento, ma in qualche modo la secondarietà del porticciolo e la sua insignificanza strategica lo tenevano fuori dagli eventi bellici. A volte, in quel primo inverno, nelle giornate più limpide si vedevano lampi e colonne di fumo dietro le vette delle montagne, ma lontanissimo. In paese la vita continuava i suoi gesti arcaici, spartiti fra le donne e i vecchi. Gli uomini validi erano stati in gran parte richiamati, e restavano il prete, il medico, i pescatori anziani.
A bordo provviste ne avevo; non grandi cose, le cose che si mangiano sulle navi da trasporto, cose conservate, secche, insapori e monotone. Non mi feci molti scrupoli a servirmene, anche se sentivo la mancanza di cibi freschi.
Dopo i primi giorni, cominciai a pensare al baratto: alla gente che veniva sul molo incuriosita facevo vedere le mie scatolette e a gesti proponevo di scambiarle con altro. Ebbi latte fresco e pane di casa in cambio di lattine di zuppa e di carne. E quando terminai le provviste di bordo, il pane continuò ad arrivare, insieme a qualche ortaggio fresco, qualche quarto di pollo la domenica, e soprattutto fiaschi di acqua pulita, di pozzo. L’acqua non me la fecero mai mancare: si creò presto fra me e il paese un semplice legame di solidarietà, un rapporto di reciproca adozione. Erano persone pacifiche e oneste, risolvevano i loro casi al modo di una volta, col buon senso e con lo spirito della comunità. Non fummo mai in guerra, loro e io. La guerra ci sfiorava senza vederci né interessarsi a noi, dimenticati in quel lembo di terra di nessun valore né importanza, rimasto quasi estraneo al tempo che passava e cambiava sconvolgendo ogni cosa.

(continua)

l’immagine, come le altre che illustrano questo racconto, proviene da QUI

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I cavalieri che fecero l’impresa

I cavalieri siamo noi, tutti blogger, ed eccoci qua nome/cognome/indirizzo:
*ClaCielosopramilanoDario D’Angelo, Fulvia, Hombre, La Donna Camèl, Lillina,   MaiMaturo, Melusina, Pendolante, Singlemama.

La condottiera, in groppa a un cammello dall’espressione vagamente sardonica tipo tiprendoperilculomaèperchémistaisimpatico, è l’ineffabile Donna Camèl, per la quale non esistono più aggettivi da qui ad Alpha Centhauri. Essa è la nostra editrice e a lei dobbiamo tutto, pure una pizza.

L’impresa è la pubblicazione della raccolta dei nostri EDS incentrati sui 5 Sensi + 1.
Il titolo (che prevede altre uscite fino a creare una collana di EDS sui temi più pazzeschi che intelletto umano possa concepire) è Quaderno degli EDS: i sensi. Titolo molto più sobrio e professionale del contenuto, ci teniamo a dirlo.

Lo volete?
Beh, compratevelo, no?
E per non fare discriminazioni vi offriamo sia la versione cartacea che quella digitale. Che poi non si dica che siamo anche snob, oltre al resto che già pensate di noi…:-)

Io vorrei, non vorrei, ma se vuoi

a gentile richiesta, il seguito al maschile del post precedente

Io invece ho un altro ricordo, di un pomeriggio freddissimo che il sole già calava alle quattro, noi in cima alle scalette che scendevano giù in Città Vecchia, la bora al suo terzo giorno che strapazzava i teloni di un piccolo cantiere abbandonato. Io che mi guardavo le scarpe per evitare non il tuo sguardo ma il mio, mentre ti dicevo basta, che ci sto a fare qui, devo partire; e tu che guardavi un bottone del mio cappotto come se la mia voce venisse da lì, come se sotto ci fosse la mia anima ben chiusa perché non scappasse – avrebbe potuto perdersi – poi alzavi la testa verso i miei occhi terribilmente imbarazzati, pentiti quasi, e quietamente mi dicevi solo va bene, vai,  ti aspetterò.
In quel momento mi hai fatto paura. In quel momento ho smesso di credere che l’avrei fatto sul serio. Partire. Andarmi ad arrischiare una vita migliore. Già di per sé era un’impresa formidabile il solo prospettarmelo, ora poi diventava maledettamente più difficile realizzarla perché avrei dovuto assumermi l’ulteriore responsabilità di avere qualcuno che mi avrebbe aspettato.
Eppure tu eri così tranquilla, così ragionevole. Credevi di esserti immedesimata in me, nel mio desiderio, credevi di averlo fatto tuo serenamente, così come in una coppia si cerca di condividere il bene e il male. Ma per me non era così. Io non ero ancora pronto a tanto. Quello che volevo non era una vita migliore ma fuggire da me, lo stavo capendo solo in quell’esatto momento. E se tu mi avessi aspettato, non avrei mai potuto fuggire così lontano.
Dimmi la verità, lo sapevi e lo hai fatto apposta?
Perché, vedi, più tardi ho pensato che tu avessi voluto mettermi alla prova. E se così è stato – magari lo hai fatto inconsapevolmente, in fondo avevi solo diciassette anni ed è questo che poi mi turbò più di tutto – in quel caso io la prova l’ho fallita, restando qui, e nel tempo cambiando poco di me e della mia vita, senza troppa infamia e senza troppa lode, senza troppo rischio né troppa ambizione, qui lungo il sentiero, sempre quello, sempre lo stesso, ma sicuro nella sua mediocrità.
Se fossi partito davvero, avrei dovuto vincere per trovare il coraggio di tornare. Per non temere di affrontare le risatine e lo scherno degli amici del bar, la pallida delusione di mia madre, il silenzioso disgusto di mio padre. Perdendo non avrei potuto tornare. Ma poiché tu mi aspettavi, avrei dovuto farlo comunque. Quindi niente, non ne feci più niente.
Voi donne la fate facile: se qualcosa vi va storto, piangete, tornate dalla mamma, le amiche vi consolano e danno la colpa a qualcos’altro; alla sfortuna, agli uomini. Gli uomini invece non possono permetterselo. Noi dobbiamo competere, essere cinici, essere superiori. Altrimenti ti cancellano, ti annientano, ti ridono dietro le spalle come i barboni ubriachi agli angoli dei giardinetti.
Fai presto, ora, a dirmi “salta”. E cosa trovo, al di là: il ventenne che ero, le ali per volare, il coraggio di cadere? E se cado davvero, e mi faccio male? E se sbaglio? E se combino una figuraccia, una di quelle che ti mettono ridicolo tutto, credibilità, carriera, posizione, identità sessuale perfino? Chi mi recupera, dopo, me lo dici tu, chi mi salva, chi mi rimette in piedi, chi trova una nuova giustificazione alla mia vita?

Perché mi guardi così, adesso? Ho detto le solite fesserie, vero? E tu non dici niente, sorridi tranquilla come quel giorno di bora, e come quel giorno di bora aspetti che ci arrivi da solo, alla risposta.
Tu.

nell’immagine: Henri Matisse, Icarus – 1943

Quadratura del cerchio

L’ultima volta, l’ultima volta… fammi pensare.
Mi ricordo quella sciocchezza che ci ha tanto messo allegria, sai quella macchia di vino stampata dal tuo maglione al mio quando ci siamo abbracciati ridendo, e gli altri di là non se ne sono accorti. Io l’ho coperta col foulard, tu hai tirato su la zip della tuta da ginnastica, ma il luccichio di quel vino rosso ci è rimasto negli occhi anche dopo, tornati in salotto con gli amici. Tu di un’altra, io di un altro, ovviamente, secondo le regole della vita. Forse addirittura tu di molte altre e io di molti altri, oppure, diciamolo onestamente, di nessuno. E poi parlare di musica e delle solite cose, perché dalle tue parti c’è sempre una chitarra e ci sono sempre vecchie canzoni, le nostre, quelle invecchiate ma solo sul calendario, squallido foglio di carta pieno di numeri assurdi che io non so contare.
Di cosa stai ridendo adesso? Della mia faccia strana, che mi viene quando guardo indietro imbambolata e i miei occhi si stringono nella fatica di toccare ricordi?
Ridi, e lo so perché, perché quei ricordi sono anche tuoi, o meglio di quegli altri noi due che in questo stesso momento stai vedendo con me, da un’altra prospettiva, decisamente maschile. Eh sì, maschile. Non hai mai capito le donne, da quando io sono stata la prima e ti ho confuso le idee.  L’assurdo è invece che a me è successo il contrario: conoscendo te, il mio primo, li ho poi conosciuti anzi ri-conosciuti tutti, gli altri, quelli di dopo, fino a oggi. Non te l’immaginavi, scommetto. Di tante cose sbagliate che mi desti allora, questa è il regalo migliore, e l’ho così ben conservato, così ben vissuto e assorbito da riuscire a essere qui anche oggi, dopo una vita; alla metà della vita. Non è per caso.
Vuoi sapere degli altri? I miei amanti? Certo, ti racconto. Se non ti dispiace, li rimescolo un po’, non so fare i conti lo sai, quindi non tengo elenchi. Ma poi non cambia, tanto erano tutti uguali. Ti racconto, sì, se vuoi, ma non fidarti dei loro nomi e delle date, immaginati un continuum, una specie di riga dritta con pochi sussulti, uno o due picchi senza volto.
Delle tue donne, se ci tieni, se ne hai bisogno, parlami pure, e io sorriderò. Le conosco tutte, anche quelle; noi donne ci conosciamo e non ci stupiamo mai. Vediamo subito i contorni delle storie che voi ci proponete, e le viviamo il più possibile al centro, per poi spostarci ai margini a girare attorno fino a trovare l’uscita, dalla parte opposta a dove ci avevate fatte entrare con un mazzo di rose fra le braccia.
Lo so che tu non la vedi così, e non è colpa tua. I tuoi successi virili sono una raccolta di trofei, ossidati ma pur sempre trofei. Sei entrato nel corpo delle tue donne come un generale che si appropria di una città capitolata, ma sfilando narciso fra quelle strade non si è accorto delle persiane che si sbarravano senza cigolare e definitivamente al suo passaggio. Da una città all’altra e da una donna all’altra hai condotto la tua campagna vittoriosa, e solo ora, e solo davanti a me alla fine del cerchio, dove l’inizio incontra nuovamente la fine e vi si fonde, ti accorgi che dietro hai lasciato morti e feriti, e avevano tutti la stessa faccia, la tua.
Questo ti spiego oggi, ti spiego la sconfitta, e non solo la tua.
Ti toccherà credermi, perché tu sei un uomo e la donna sono io, la tua prima e tutte le altre lungo il cerchio che ti imprigiona. Io ti guardo da fuori, col sorriso che già avevo la nostra prima volta, mezza vita fa, e che non so cambiare. E da fuori, da fuori di quel cerchio ininterrotto, ti sfido all’impossibile: salta.

nell’immagine: René Magritte, Les amants – 1928

se ti è piaciuto, puoi leggere il seguito – al maschile – qua