Occhi azzurri

Dieci anni, un carattere timido ma estroso, la fantasia dei cani nordici e la caparbietà dei pastori tedeschi. Veniva da un canile, una gabbia da un metro per un metro, dove abbaiava impazzita come tutti i cani lì raccolti. Era stato immediato sceglierla, liberarla, portarla via con me. Era già quasi adulta, ma non cresciuta, ed era tardi per educarla; al più siamo riusciti a rimuovere qualche lontano terrore, e con noi spesso pareva ridesse quando rincorreva palline da tennis o pezzi di legno e poi si faceva inseguire a rotta di collo con la sua incredibile agilità.
Era alata, lo vedevi nei salti.
Era emotiva e casinara, bastava un niente per eccitarla, e partiva l’abbaio. I rumori la incupivano: i tuoni, le campane, i petardi. Allora cercava noi, lei così muscolosa e potente, e diventava un cucciolo da proteggere dietro il divano.
Nella neve affondava e sbuffava di gioia: le ricordava la Siberia dei suoi avi selvatici. Con i gatti giocava timidamente, ne era succuba, temeva le loro unghiette sfacciate, lei che era esuberante sì, ma fondamentalmente mite.
E ci amava, tutti ci amava. Ce lo dicevano i suoi occhi, gli unici occhi azzurri della famiglia.
Per quegli occhi e per quell’amore oggi l’abbiamo lasciata andare.

Kim, 2002-2012

Affresco

Non ho mai mentito sulla mia età, anzi ne vado fiera. Perché non conosco nessun altro che possa vantare una vita varia e longeva come la mia.
Sono nata a Venezia nel 1735, lo stesso giorno dell’incoronazione di Alvise Pisani a Doge. Mio padre era tipografo, aveva una stamperia in Barbarìa dele Tole, vicino a Campo Ss. Giovanni e Paolo; era molto apprezzato in città, e fra i suoi clienti vi erano diversi artisti, che gli portavano a bottega poesie, libretti d’opera e spartiti musicali. Noi la sera, a casa, facevamo musica prima di cena, soprattutto d’inverno quando fuori la notte e le nebbie ingoiavano il canale della fondamenta Brian. Mi accadde di conoscere di striscio Antonio Vivaldi, che doveva dei soldi a mio padre ma era stretto di manica come di petto e tirava sempre sul prezzo. Giacomo Casanova lo conobbi l’inverno in cui gelò la laguna e tutti andammo a vedere dalla riva i buontemponi che ci pattinavano sopra. Ero al tempo bella come tutte le veneziane del settecento, e non nascondo di aver ricevuto da lui delle avances piuttosto pressanti, che però respinsi con fermezza perché mi ero segretamente innamorata di Giambattista Tiepolo, allora cinquantenne, per averlo visto lavorare all’Incoronazione di Maria Immacolata sulla volta della navata della chiesa della Pietà.
Andavamo anche a teatro, per lo più di carnevale (ma ricordiamoci a Venezia, nel settecento, il carnevale andava da ottobre a primavera inoltrata), e fu così che conoscemmo Carlo Goldoni. Fu ospite ai nostri salotti musicali almeno due o tre volte, ma la musica lo annoiava un po’ e preferiva fare quattro chiacchiere davanti a un bricco di cioccolata fumante. Prima di lasciare Venezia per Parigi, passò a salutarci e promise di tornare entro un paio d’anni; invece sappiamo come è andata, che lui a Venezia non ci tornò più.
Una primavera mi incantai, con tutta la città, ammirando l’ascesa di un pallone aerostatico nel cielo sopra piazza San Marco; era l’aprile del 1784, e l’ammiraglio Angelo Emo aveva cominciato le sue azioni militari contro i pirati barbareschi. In città arrivavano, e suscitavano tripudio, le notizie dei suoi bombardamenti contro i porti di Tunisi e Biserta.
Vidi Goethe estatico su una gondola mentre si riempiva gli occhi di immagini che in patria non avrebbe mai dimenticato. Tornai a vedere la laguna gelata durante il carnevale del 1788, e pochi anni dopo ci capitò di passare la notte di Natale in cima alle scale per salvarci da un’eccezionale acqua alta. Ma ci attendevano prove ben peggiori. Dovetti udire i cannoneggiamenti del porto del Lido contro una nave napoleonica che veniva a prendere prigioniera la città, e in capo a poche settimane cademmo in mano francese. Quei ladri. Ci derubavano dei nostri tesori più sacri con la più empia arroganza. Poi vendettero anche noi, tutti noi, agli odiati austriaci, che oltre al resto fecero la loro parte di razzie. Giacomo Casanova era lontano, vecchio e piegato; seppi solo dopo mesi che era morto oscuramente in Boemia.
Gli austriaci rimasero un bel pezzo. Non che ci trattassero male, anzi erano innamorati di noi e di Venezia, non avendo, a casa loro, niente di così bello. Tuttavia erano stranieri, e noi non abbiamo mai sopportato padroni: nemmeno i nostri dogi lo sono mai stati, erano anzi uomini come noi al servizio del popolo e del Maggior Consiglio. Fastosi ornamenti ma senza potere. Siamo stati sempre, e sottolineo sempre, una Repubblica, e per di più laica, sganciata dalla Chiesa e spesso, perciò, in odore di eresia.
Ecco perché c’ero anche io, in Piazza, nei giorni della liberazione di Manin e Tommaseo e della proclamazione della Repubblica Veneta Democratica (e non leghista), in mezzo alla folla esultante e piena di orgogliose speranze. E per il motivo opposto, l’umiliazione e lo sconforto, scesi in calle ad assistere alla caduta dell’anno successivo, tra la fame e il colera che ci assediavano peggio degli austriaci e che ci sconfissero vigliaccamente. Ma c’ero, e commossa, anche il giorno in cui le ceneri di Manin, morto esule a Parigi, tornarono a Venezia dopo l’unificazione al Regno d’Italia, che alla fin fine non si rivelò poi tanto migliore dell’impero astro-ungarico, va detto.
Nel 1902 accorsi affranta a contemplare le macerie del crollo del campanile di San Marco. Con gli altri giurai a me stessa e alla città e all’intero mondo che sarebbe rinato com’era e dov’era, e così fu.
Gli austriaci, poi, non se l’erano messa via del tutto. Tornarono a desiderarci e portarono nuovi cannoni fino al Piave. Una notte ci bombardarono per otto ore di fila, che io passai in cantina tra odor di salmastro e spolverio di calcinacci ma nessuna preghiera nel cuore, a nessun Dio, tutt’al più a San Marco e al suo Leone.
Dopo la guerra, la Grande Guerra, credetti di incontrare D’Annunzio un pomeriggio lungo le Zattere. Aveva i suoi stessi baffi, il suo stesso charme, il suo stesso naso altezzoso e una bella donna sognante appesa al braccio. C’era un sacco di bella gente, ricca e famosa, che girava per Venezia in quegli anni; scrittori, musicisti, celebri amanti, teste coronate, attrici di teatro. Anche oggi, verrebbe da dire, ma di tutt’altra qualità, molto più modesta; più che altro una mise en scène da dilettanti.
Di guerra ce ne fu un’altra, come si sa. Di notte si vedevano i traccianti sopra il cielo nero della terraferma, e si udivano gli schianti delle bombe su Treviso. Noi, ci risparmiavano, perché volevano la città intatta come trofeo. Ma si presero comunque qualche martire, come i sette i cui cadaveri restarono legati per giorni ai lampioni sulla Riva che poi avrebbe preso il loro nome; io li vidi mentre li fucilavano per motivi futili, vi fui portata a viva forza con gli abitanti della zona per assistere a uno dei fin troppi atti esecrabili di rappresaglia. Ora a quella riva attraccano navi da crociera, e ne sbarcano i discendenti di quello straniero e di molti altri; poi scusate se qualche ristoratore o qualche gondoliere gli rifila conti da capogiro. E scusate anche se, quando ogni anno quegli scalmanati della lega vengono a piantare lì le loro tende, sono io quella donna che si affaccia alla finestra e espone il tricolore. Non perché mi senta particolarmente italiana, in quanto veneziana non ne ho bisogno; ma perché di invasori invasati e barbari di campagna ne abbiamo già avuti abbastanza, ora poi che stiamo combattendo all’ultimo sangue contro i cinesi.

Ultimamente incontro spesso il sindaco Orsoni in vaporetto. Come stiamo, sindaco? gli chiedo. Come va la guerra contro i cinesi? Mah, risponde lui col suo sorriso placido da piccolo orefice vagamente pronipote di Dogi e Capitani del Mare. Poi mi offre uno spritz, mentre da San Marco arriva e si scioglie sopra i tetti il mezzogiorno largo, solenne e inconfondibile della Marangona.

Ci sarà pure un senso

Dovresti vedere. I bambini nuovi nelle carrozzine, gli danno dei nomi come Emanuele, Irene, Sofia, e non sanno cosa significa; i cani senza casa che pensano un istante alla volta, frugano fiori di argine e cartacce di merendine; le donne che appendono le tende nei cortili e sbattono cuscini e tappeti; i merli che rubano vermi alla terra smossa dai nidi delle talpe miti e misteriose; i ragazzi con gli zaini e la fretta infilano le sette di mattina, gli occhi gonfi della musica della notte; le vecchie in ciabatte che mettono in un angolo una carta oleata con gli avanzi e un cerchio di gatti inselvatichiti gli si fa intorno, mangiano circospetti poi si disperdono scavalcando reti; i tir uno dietro l’altro si incrociano e si salutano coi fari lungo l’asfalto che taglia le campagne fra il Nord e il mare; i campanili che si alzano all’alba e si stirano al cielo da borghi di foschia; gli uomini col giornale nuovo piegato sotto il braccio e l’ansia di vincere gli pesa nelle tasche e gli conta il tempo; un garage spalancato e un’auto che luccica silenziosa col muso rivolto al cancello; vedove che stringono al manubrio fiori incartati nei ricordi indifferenti, e poi quando tornano dietro le finestre scostano una tendina e guardano in strada la vita passata che ripassa uguale; un vecchio sapiente che ferma il traffico con una paletta rossa e verde per far attraversare una corsa di grembiulini celesti. E le tortore accovacciate invisibili dentro i pini marittimi chiamano a caso, e sembra un lamento lugubre ma è come voce di donna che cantilena tra sé e le ore del giorno.
Ma non me li posso nascondere, non posso, io li ho visti e non li dimentico. Una madre giovane nella chiesa a tre navate, un vecchio che si aggirava come un topo intorno ai gigli immobili dell’altare, fuori il sole e dentro larghe strisce di freddo. Pregava quella donna, un bimbo senza capelli e la sua morte accanto; lo avrebbe tirato giù, quel cristo coi piedi e il cuore inchiodati, ucciso e già morto, lui, già lontano al sicuro, muto e cieco… una cosa, credimi, da non poter reggere, nascondersi e farsi pietra, non trovare il fondo dell’angoscia e scappare via dai dèmoni e le loro maledette maledizioni.

96%

Non sto a spiegare. È un numero. Per me, un numero molto importante. Mi si è stampato in testa, nel cuore, dentro, dappertutto. È il numero.
Lo scrivo anche qui come fosse un promemoria, un post-it, o meglio ancora un monito, o una promessa della sorte. Vorrei dire: una speranza.
Una speranza cui manca un misero ma indispensabile 4% per essere una certezza.

(scusate, sono solo di passaggio questa sera, dopo una domenica che non porta da nessuna parte eppure non finisce mai).

E festa sia

La terza domenica di luglio, a Venezia si svolge l’antica e sentitissima festa del Redentore, che ricorda la fine della tragica pestilenza che decimò la città nel 1577.

Redentore

Per la mia festa stavolta organizzo stabilisco programmo insomma ordino tutto io. Che sia esattamente quella che voglio io, perché penso di meritarmelo, anzi: ci ho messo una vita per meritarmelo.
Intanto decido il giorno. Sono stufa di essere nata in febbraio, tra il carnevale e la quaresima; che a guardar bene è uno sproposito che invece non sia nata in estate nel caldo.
Scelgo luglio che è bello, il cielo è blu il sole è giallo poi c’è il mare che scintilla eccetera. Scelgo la notte fra il terzo sabato e la terza domenica, la metà giusta della notte, quando scoppiano i fiori del Redentore sulla mia città.
E allora la festa la farò su una barca in laguna, con i lampioncini che dondolano e fluttuano disegni arancione sui visi degli invitati. L’aria mi sta bene un po’ afosa e con odore forte di canale fermo, ma non rinuncio a qualche refolo più azzurro se riesce a infilarsi tra San Giorgio e la Giudecca. Ci saranno vino e angurie al fresco dentro un secchio, e sarde in saòr che pizzicano e insalata di molluschi con tanto limone. E gelato al cocco, coi pezzetti dentro.
Inviterò gente a posto, che sa godere queste cose come me o in alternativa lo farà per me, per amor mio. Non sembri strano se non ci saranno parenti e familiari, tranne una; è che ci conosciamo poco e sarebbero imbarazzati. Ma gli altri, gli altri sì: sarà dura scovarli, là dove sono andati a finire, ma ho sia il tempo sia la tenacia che mi servono.
Mia nonna, l’unica del mio sangue, non occorre neanche chiamarla. È lì vicino, a San Michele, e quando mi sente viene subito. Viene sempre, lei. Ha già pronto il suo vestito nero coi fiorellini provenzali e il giro di granati sul collo magro e tiepido.
La suora della prima elementare, suor Maria Lucia si chiama, ancora adesso che forse è morta. Ma per il bene che ci siamo volute so che verrà. Magari sta solo finendo di invecchiare in qualche linda casa di riposo di quelle che tutte le suore hanno in posti tranquilli di mezza montagna. Magari ha ancora qualcuno dei miei primi quaderni a righe.
La mia compagna di banco del liceo, coi capelli ossigenati che i maschi la annusavano ma poi è rimasta da sola, eppure abbiamo passato dei gran bei pomeriggi a casa mia coi Bignami di storia e le spremute d’arancia e i 45 giri, e arrossivamo insieme di pensieri solo pensati.
Quel ragazzo che mi piaceva tanto perché mi sbirciava sul portone con occhi accesi e un giorno riuscì a tirarmici dentro e mi insegnò a baciare e ancora adesso se lo ricorda e per premio gli ho perfino dato il numero del mio cellulare, e quando lo accendo due o tre volte al mese dentro ci sono sempre messaggi suoi, guarda un po’ come non si cambia.
Quel medico brusco e buono che mi ha messo in mano la prima siringa e mi ha detto “adesso tocca a te, fammi vedere che mano hai”, e per fortuna avevo proprio la mano giusta, così dopo avermi insegnato quella mi ha insegnato un sacco di altre cose più importanti tipo la compassione e la freddezza, che dio solo sa se mi sono servite e mi servono tuttora.
Quell’amica molto più vecchia di me che aveva più pazienza di mia madre, e con lei parlavo davanti al caffè in cucina e mi raccontava di suo marito che l’aveva tradita e lei lo aveva messo fuori di casa senza pensarci due volte e poi aveva cominciato a preparare pastiere per le figlie sposate e anche ad andare in palestra perché era, sì insomma, era grassa e un po’ mi invidiava.
Quel prete che mi perdonava sempre e la faceva corta perché si finiva a discorrere di musica, e mi avvisava ogni volta che c’erano le prove dell’organista e mi faceva entrare dalla sacrestia e ci sedevamo sui gradini dell’altare con le spalle a Nostro Signore e ascoltavamo come fosse pregare, o forse meglio.
Quella bambina che conosco solo io.
Quell’uomo che mi capisce al volo.
Quel cane che mi ricambia gli sguardi.
Quel libro che mi insegna a scrivere.
Gente così, voglio invitare. Gente che all’ultimo minuto non fa lo scherzo di non venire, che non gli interessa di ballare e far rumore, ma solo stare vicini, quasi uguali, senza tante storie e tanti perché. Le domande se le fanno gli sconosciuti, e le risposte non sempre sono sufficienti.
Voglio una festa del cuore, e festa sia.

In memoria

È MORTO
PIER MARIA PASINETTI
VENEZIANO, SCRITTORE E MIO MAESTRO

Poco più di un anno fa ho avuto la fortuna di conoscerlo di persona: un desiderio che coltivavo da decenni, da quando ho scoperto i suoi romanzi così straordinari e così veneziani, ai tempi del ginnasio.
E poco fa il telegiornale regionale ha annunciato la sua morte, alla venerabile età di 93 anni.
Stasera sono triste per lui, che mi mancherà. Così gli dedico questa pagina del mio blog ripostando la cronaca di quell’unico incontro, del quale manterrò il più affettuoso e riconoscente dei ricordi.
Se qualcuno desidera conoscere meglio questo Autore eccellente ma schivo e per nulla presenzialista, sul mio sito, nella sezione libri letti, troverà alcune recensioni che lo riguardano.

14 giugno 2005, Venezia, Aula Magna dell’Ateneo Veneto: alle ore 18, presentazione dell’ultimo romanzo di Pier Maria Pasinetti, “A proposito di Astolfo”, edito da Helvetia e nelle librerie in questi giorni.

Il portone monumentale dell’Ateneo Veneto è scrostato e sprangato, sembrerebbe da secoli. Un caffè lì vicino ha accampato davanti due file di tavolini e sedie impagliate, oggi deserti perché pioviggina. L’ingresso, allora, è in calle; giro l’angolo, abbandono la luminosità plumbea di campo san Fantin e percorro alcuni metri in una luce bassa, da corridoio di teatro. La porticina a vetri è stretta e anonima, illuminata dall’interno da luci altrettanto basse e discrete, come quando vengono calate per segnalare l’inizio di uno spettacolo. Spazio angusto, quasi domestico; sembra l’ingresso di una casa veneziana, con una scala lunga e stretta che sale ripida verso un pianerottolo, poi gira e si perde. Ma subito a destra un’altra porta, più ampia e spalancata: la sala dell’Aula Magna, col rosso delle poltroncine (semplici sedie severamente allineate) e gli affreschi sulle alte pareti attorno ai finestroni opachi. Soffitto a cassettoni altrettanto affrescato, inserti di marmo in giro, senso di una solennità equilibrata, non invadente. Bellezza, insomma, ma non autoreferenziale, in una città in cui la bellezza è tratto di natura e non tronfia ricerca.
Non c’è ancora nessuno. Mi sembra di essere entrata in una chiesa prima di un rito. Al posto del sacrestano, Daniela si aggira festosa ma in ritardo con locandine e dépliants da distribuire; un abbraccio – siamo emozionate entrambe – e poi le do una mano come si trattasse di imbandire una festa scolastica. Arriva il libraio con una sacca delle copie del nuovo libro che tra poco verrà celebrato; lo conosco, il libraio, titolare della più veneziana delle librerie veneziane, antro stretto e vivissimo dove i volumi sono ammucchiati dappertutto, ospiti o protagonisti – amici, meglio – e non merce senza nome né calore.
Arrivano altri, ora più rapidamente e a gruppi. L’atmosfera aumenta di tono e temperatura, persone che si conoscono oppure si riconoscono solo per il fatto di essere comunque in questo posto significativo, simbolo della storia e della cultura veneziana e non solo da qualcosa come duecento anni. Per lo più donne e non giovani, espressione di quello che più tardi qualcuno, sulla pedana, annuncerà come “l’harem di Pasinetti”: scopro anche io che è sul pubblico femminile che hanno avuto da sempre più presa le storie e lo stile di questo Autore, che in effetti a molte splendide figure femminili ha dedicato ritratti leggeri, ironici e innamorati in ognuno dei suoi romanzi. Giovani, pochissimi. Non frequentano questo genere di incontri oppure non frequentano questo genere di letteratura, il romanzo, che in Italia oggi come oggi è del resto così scarsamente e mediocremente interpretato. Oppure ancora non conoscono Pasinetti, scrittore di razza ma da sempre indifferente alla pubblicità, osservatore distratto e incidentale della sua stessa fama, araba fenice nel mondo letterario della sua patria, dalla quale ha vissuto lontano la maggior parte dell’anno nella maggior parte degli ultimi 40 o 50 anni.
C’è un minimo di ritardo. Annunciano che il Maestro è arrivato in Ateneo e ora sta riposando qualche minuto prima di presentarsi. Corrono i sussurri, le confidenze, le informazioni locali: ultranovantenne, da tempo malandato in salute, il femore in tempi recenti, stato più di là che di qua, ma lucido sapesse: lu-ci-dis-si-mo. E scrive ancora, le sue memorie adesso; c’è già un titolo (un titolo di coda) che a pelle intuisco come la struggente anteprima del suo addio, “Fatepartire le immagini”. Io intanto con la mia macchinina digitale faccio alcune prove, neanche a dirlo fallimentari.
Poi entra. Entra in scena da una porticina laterale, sorretto da persone amorose e compiaciute, mettendo avanti prima delle gambe impacciate un curioso bastone verde chiaro, cui si appoggia con curiosità lui stesso, quasi a non riconoscergli altra identità che quella di un giocattolo di gusto improbabile che qualcuno ha insistito per giudicare confacente alla sua inferma età. È alto e diritto malgrado ciò, conserva il portamento del bell’uomo che è stato e che ci restituiscono le rare fotografie pubbliche. Indossa una camicia aperta e un cardigan di lana grigio scuro: indossa cioè il suo ruolo di vecchio e familiare pensionato veneziano, e insieme l’aria domestica di un padre o di un nonno strappato per un’ora alla sua sedia di cucina, alla radio accesa, al giornale spiegato sul tavolo con accanto una scatolina di mentine, o pasticche per il cuore. Nel sedersi con teatrale sollievo sulla poltroncina centrale, emette un sospiro teatrale anch’esso nella sua autoironia: “Semo qua!”, cioè siamo qua, finalmente; seduti comodi dopo la stancata, la camminata, questa fatica di arrivare fino a noi che è una delle quotidiane sue fatiche necessarie, in una città dove si invecchia a piedi arrancando senza misericordia, se non si vuole restare fermi del tutto dietro una finestra.
Dalla mia sedia subito sotto la pedana, piccola io e insaccato lui in una poltrona fonda, e per di più con un microfono davanti, vedo e guardo e non me ne stacco fino alla fine solo il suo viso, vagamente sconcertato mentre ascolta dubbioso i colti panegirici dei suoi due ospiti. Sembra colto di sorpresa e poco convinto che le loro ordinate analisi riguardino lui; sembra chiedersi se non stiano esagerando per quella pelosa cortesia che si deve ai vecchi, per di più malandati. Infatti, invitato, commenta: “Beh, ciò, se è tutto vero allora vuol dire che son proprio bravo!”. La platea si estasia e lo adora.
Altre cose, dice, poche e un po’ slegate, col tono di smitizzare, di prendere le distanze dalla celebrazione, di indicare la strada sensata e più congeniale dell’ironia, del ridimensionamento affettuoso. A chi cerca di attribuirgli metafore e di ottenere da lui spiegazioni, chiavi, messaggi, non dà molta corda, avvertendo – ma come dovesse essere evidente a tutti – che le sue storie, nomi/cognomi/località/amori & lutti compresi, sono inventate, tutte inventate. Dal suo sornione incanto si scuote un attimo per intervenire su una parola che non gli è sfuggita e che trova fuori luogo: il termine laico, cui – citando se stesso – assegna il valore di parola-zero. Sul tema della morale e del trascendente, che qualcuno invoca con un certo azzardo, ha un monito saldissimo da affermare, e ce lo trasmette con un improvviso destarsi del tono di voce, che ora è serissimo e fermo davanti a questa semplice immensa verità: “Bisogna sempre agire in modo da rendersi minimamente presentabili a se stessi”. Rifiuta il confronto col soprannaturale, la morale di Pasinetti, e ribadisce la centralità della coscienza, del qui, dell’oggi. La platea incamera, riflette, tende a condividere. Io, nel mio piccolo, mi alzerei in piedi, ma non mi vedrebbe nessuno. Neanche lui che all’inizio ci ha informati esilarato di avere con sé solo gli occhiali per vicino.
I discorsi, applauditi, si esauriscono, le domande dalla sala ottengono risposte ormai per lo più umoristiche ed evasive: il Vecchio non ci sta, ai confronti animati e dottorali, persiste nella sua tattica naturale, quella di ridurre il rito alle dimensioni di un incontro familiare, ai toni semplici e pacati che in fondo spiegano meglio e di più.
Prima del commiato, gli si fanno attorno molti con l’offerta di auguri e la richiesta di dediche. Ho la mia copia in mano e sento il viso che mi si scalda, che brilla credo, mentre lo avvicino anche io. Senza sgomitare, trovo un pertugio: lo trovo perché si è girato e ha incontrato i miei occhi, facendomi un cenno. Mi faccio avanti, lo saluto “Maestro”, vorrei dirgli che lo amo, ma lui lo sa, perché mi prende una mano fra le sue e mi guarda fisso e mi comunica che noi due ci conosciamo. Non è vero, ma ci credo. Mi chiede il mio nome, e mi conferma che ci conosciamo, anzi mi esorta a cercare con lui nel passato l’anello di congiunzione. Mi soggioga. Sto al gioco: elenchiamo incerti ma speranzosi alcuni omonimi, collocandoli nel tempo, nello spazio, nelle parentele, nelle professioni. Risaliamo – ma per me è un viaggio ormai sublunare – a certe conoscenze veneziane di suo padre, remotamente medico in questa città, e questa pare la chiave che chiarisce e conforta entrambi. Non è vero, ma ci credo. Ora qualcuno dietro preme e sbuffa, ma la mia mano è sempre tra le sue in quel modo così naturale e riposato che sembra fare di me una sua parente di sangue, vissuta lontana per tanto tempo e ora tornata, come lui del resto, alla base, alle mura domestiche, al posto giusto. Sono io che devo accomiatarmi, dopo aver raccolto il libro dove ora c’è per sempre una frase di affetto e augurio e la sua firma che per la malfermità della mano – mi spiega – da tempo usa abbreviare. Sguscio via, altri se lo inghiottono, non mi giro neanche più, saluto rapidamente qualcuno ed esco in calle, ancora non è notte, stringendomi dentro già una nostalgia.
Avrei voluto aspettare che se ne andassero tutti, poi porgergli il suo buffo bastone verde e sorreggerlo per un gomito – lui così più alto di me – mentre lo accompagnavo adagio verso casa, alla sua sedia di cucina, alla sua tazza di caffè d’orzo, alle pastiglie per la gamba, per il cuore, per i ricordi. In mezzo a un campiello, lo so, si sarebbe fermato per declamare come al teatrino dei preti qualcosa del Macbeth, ma in inglese, così non lo avrei capito ma ugualmente me lo sarei bevuto di gusto.
Invece avevo un treno in attesa, un interregionale delle venti e qualcosa, semivuoto. Quando è partito imboccando il ponte sulla laguna per approdare in terraferma, ero già a pagina 36.


Questa è la sua scheda biografica:

P.M. Pasinetti

Veneziano, quindi cosmopolita per nascita, Pasinetti ha diviso la sua vita fra Venezia e gli Stati Uniti, dove ha tenuto corsi di letteratura generale nella sede di Los Angeles della University of California. L’Università di Yale gli ha conferito il dottorato.
Tra i diversi riconoscimenti ricevuti ricordiamo il premio del National Institute of Arts and Letters di New York, il premio Scanno, il premio Amelia, il premio Pisa, il premio Ecureuil. Ha ottenuto per due volte il premio Selezione Campiello.
Ha pubblicato diversi romanzi: il primo, Rosso veneziano (1957) ottiene già un buon successo al punto che ne cura egli stesso la traduzione in inglese per il mercato americano.
La prima versione de La confusione esce nel 1964, ma viene successivamente riveduta e riedita nel 1988 col titolo Il sorriso del Leone.
Con Il ponte dell’Accademia (1968), offre la prima netta e sorprendente indicazione di un nuovo e più efficace uso del linguaggio, di una scelta (geniale) di forme verbali e strutturali basate sì su una straordinaria padronanza del mezzo, ma proprio grazie a essa volte a sfruttarne ancora meglio e per vie prima poco esplorate le potenzialità espressive.
Segue nel 1971 Domani improvvisamente, che rappresenta un ulteriore progresso e una nuova sorpresa nel percorso letterario di PMP, il quale anche qua sperimenta in modo originale e felicissimo una invidiabile libertà di scrittura, magistrale modello per una narrativa – quella italiana – spesso ripetitiva e asfittica.
È del 1979 Il Centro e del 1983 Dorsoduro, che prende il titolo da un sestiere di Venezia amatissimo e legato alle sue molte memorie; poi ancora nel 1993 Melodramma, curiosamente ambientato nell’ottocento, e più recentemente Piccole veneziane complicate nel 1996, anno in cui consegue il prestigioso premio Ecureuil.
Solo quest’anno (2005) viene a pubblicazione, per le Edizioni Helvetia, anche la sua ultima opera, A proposito di Astolfo, ulteriore esempio della sua capacità di innovare e rinnovarsi.
Altri suoi libri sono: L’ira di Dio (tre racconti, 1943); Dall’estrema America (reportage, 1974); Life for Arts (saggio critico, 1985).
Insieme al fratello Francesco, noto cineasta che fu tra i fondatori del Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, in giovane età aveva fondato la rivista “Il Ventuno”. Dopo la morte prematura del fratello è rimasto sempre legato al mondo del cinema, scrivendo diverse sceneggiature e collaborando con grandi registi.
Recentemente rientrato dagli Stati Uniti, si era stabilito in via definitiva nella sua Venezia, dove è nato nel lontano 1913.

Omaggio alle mie figlie

rose

Siete state encomiabili.
Ieri avete dato il meglio di voi, in un’occasione che in genere i ragazzi della vostra età trovano spinosa e stucchevole: un funerale. Un funerale cristiano, voi che come me non credete in queste cose, voi che come me non concepite il culto della morte ma siete appassionate della vita.
Sono arrivata trafelata al seguito di due feretri – perché le nostre due zie hanno scelto di morire a distanza di poche ore una dall’altra, e insieme le abbiamo onorate e sepolte – e voi eravate lì, puntuali e impeccabili, in cima alla scalinata dell’Abbazia, a fiancheggiare come guardie del corpo o angeli custodi (sì, meglio angeli custodi) la zia superstite, novantacinque anni e poche ossa fragili per contenere un dolore che l’età non stempera. Non l’avete lasciata un attimo: era il vostro compito e non lo avete ceduto a nessun altro. E impeccabili, sì, in adidas, jeans, camicia bianca e golfino nero, ma perché il nero è il vostro colore ricorrente, non perché crediate in queste forme di lutto esteriore. In primo banco a vegliare su quella sofferenza contenuta, su quelle spalle da uccellino raccolte intorno a un cuore fatto solo di purezza, di fede, di forza d’animo, quella dei buoni e dei semplici e dei santi. A vegliare sul suo bisogno di raccoglimento e sui suoi gesti faticati, sui piccoli passi rischiosi con i quali si è accostata alla balaustra per la comunione e poi alla bara dell’amatissima sorella per l’ultimo bacio.
Poi, al suo fianco, altri passi, molto coraggiosi, quelli inarrestabili con i quali lei ha voluto seguire a piedi la cassa verso il cimitero di campagna, due chilometri abbondanti di viale tra i campi e sotto il sole, mentre tutti gli altri – tutti, anche vostro padre – ci seguivano sì, ma in macchina. E anche lì, al camposanto, ancora e sempre accanto a lei, a tenerle la mano, a controllare che le gambe la reggessero (e l’hanno retta, come l’ha retta il cuore), a difenderla dalle chiacchiere pelose degli altri, dal loro vischioso cordoglio che non ha saputo fare per lei neanche la milionesima parte della vostra dolcezza silenziosa, della vostra rispettosa assistenza.
L’avete custodita con amore e con gelosia, creandole intorno un’isola di silenzio in cui potesse dilatare – ma nei suoi modi riservati, da umile serva del suo Signore – un dolore privato cui nessuno può avere accesso.
Grazie per questo amore. Siete belle. Siete i miei miracoli, l’unico capolavoro della mia vita, il segno migliore che lascerò di me.
Vi amo quanto non si può dire: solo una madre lo sa.

Imagine

Sono giorni balordi, di difficili equilibri. Vediamo se un po’ di musica aiuta. Tipo questa: Imagine, di John Lennon. Per molti, la canzone più significativa del ‘900. Io dico solo che a me spezza il cuore.

Imagine there’s no heaven
It’s easy if you try
No hell below us
Above us only sky
Imagine all the people
Living for today
Imagine there’s no countries
It isn’t hard to do
Nothing to kill or die for
And no religion too
Imagine all the people
Living life in peace
You may say I’m a dreamer
But I’m not the only one
I hope someday you’ll join us
And the world will be as one
Imagine no possessions
I wonder if you can
No need for greed or hunger
A brotherhood of man
Imagine all the people
Sharing all the world
You may say I’m a dreamer
But I’m not the only one
I hope someday you’ll join us
And the world will live as one

La casa dei miei sogni

cottage

La casa dei miei sogni dovrebbe essere fuori città, perché non amo la promiscuità, il rumore, il traffico, ma il verde della campagna e la quiete dei paesi.
Dovrebbe essere vecchiotta, perché amo ingegnarmi a modificare, trasformare, abbellire, e la adatterei ai miei gusti e alle mie esigenze con il piacere della creazione.
Dovrebbe essere grande, perché amo lo spazio e me ne serve tanto per sistemare le mie cose: i mobili ottocento, gli oggetti semplicemente belli e i molti anche utili, tutti i miei libri senza i quali una casa è vuota.
Dovrebbe essere luminosa, perché dalle mie finestre amo vedere il cielo e gli alberi e non il grigiore di un condominio incombente.
Dovrebbe essere comoda, perché non è detto che la bellezza non possa essere anche funzionale, e non mi tirerei indietro se fosse necessario spostare porte o muri per ottenere il massimo della praticità.
Dovrebbe essere fresca in estate, perché si possa dormirci bene la notte e senza soffocare, ma calda e protettiva d’inverno quando fuori si gela e si rincasa volentieri la sera.
Dovrebbe essere circondata da un giardino, né troppo piccolo né troppo grande, il giusto per contenere un po’ di prato verde, degli alberi ombrosi, degli arbusti da fiore, un pergolato di glicine, un angolo per le mie piantine officinali, un altro per le mie rose, un altro ancora per tutto quello che mi gira per la testa.
Dovrebbe, insomma, assomigliare a me, e starmi addosso come un vestito fatto su misura, che non smetteresti mai perché ti ci senti a posto in ogni momento.

La casa dove abito è esattamente così.
Allora, perché ho tanta voglia di andarmene?