Acqua, acqua… ancora acqua

A proposito che oggi è la Giornata mondiale dell’Acqua.
Che l’ho saputo dalla Donna Camèl che glielo ha detto feisbuc.
Che ieri ho letto l’ennesimo di questi pronostici che non ci crede più nessuno.
Che io il 4 novembre del ’66 ero proprio lì, con mia sorella, bloccate per quattro ore su un pontile e circondate da una marea che non decresceva più e che è arrivato a salvarci un cugino con stivaloni da pesca.
Che a me mi starebbe benissimo che Venessia mia se la riprendesse l’acqua prima che ce la portino via i cinesi.
Che su questo del cala, cala ci ho scritto una cosa su un romanzo che non mi pubblicheranno mai.
Che adesso ve la faccio leggere che a me mi piace abastansa, e così spero di voi.

 

“Inutile, Venezia appartiene all’acqua. Ci sta sospesa, mezza dentro e mezza fuori.
Un giorno spero che l’acqua se la riprenda del tutto, magari pian piano, un po’ alla volta, prima i bordi delle fondamenta, poi le soglie delle case, poi le scale dentro; e la gente che si sposta di sopra coi letti e le pentole e esce di casa dalle finestre e si abitua a girare solo in barca dato che non ci sono più strade. E poi ancora l’acqua che sale su per i muri delle chiese e si va in barca anche tra i banchi e gli altari e le sacrestie dove uno dopo l’altro annegheranno placidamente i santi i cristi le madonne dipinte; o dentro le sale dei palazzi dove galleggeranno a pancia in su i tavolini antichi, i quadri delle pinacoteche. E più avanti raggiungerà le cupole e i campanili, e le campane suoneranno rallentate e smorzate sotto il pelo dell’acqua, campane sommerse, mosse appena dalla corrente ritmica che alza e abbassa la laguna… no aspetta, la laguna ridiventata mare, perché anche il Lido non c’è dubbio che sarà dolcemente inghiottito, forse per un po’ si vedranno ancora emergere le cime di certi alberi o i tetti degli alberghi più alti, poi sotto anche quelli.
E la gente ormai sarà tutta in terraferma, coi sacchetti delle cose, con le valigie, tutti sul bordo come su un molo (no, tutti tranne uno, un vecchio centenario e lietamente rimbecillito – io – rimasto al timone della sua zattera a forma di altana dove avrà messo in salvo qualche libro e qualche bottiglia di buon pinot), tutti lì sbigottiti a guardare il naufragio, il lentissimo armoniosissimo commoventissimo naufragio.
Che te ne pare della visione?
Li vedi sotto il pelo dell’acqua – acqua verde, acqua con ancora un po’ la densità dei canali – li vedi i mosaici, gli ori, le bautte, li vedi i bei lampadari di Murano adagiati di fianco sul fondo come le anfore dei fenici, li vedi i leoni di San Marco, le statue dei santi delle chiese, le insegne dei barbieri e dei librai, le macchine per scrivere degli scrittori, gli arnesi dei falegnami, i trincetti dei calzolai, il leggio del direttore d’orchestra della Fenice, i lampioni della riva degli Schiavoni, i vasi da notte e i ventagli e le tazze da cioccolata e tutte le sante e profane reliquie delle nostre vite? Li vedi?

Massì, son visioni, non badarci: lo sai che sono un visionario, sempre stato, uno che da tutta una vita si inventa storie e se le racconta, un visionario di professione addirittura. Professione visionario. Professione scrittore. E son più le storie che mi sono raccontato e ancora mi racconto che quelle che ho scritto, come puoi ben immaginare.”

(L’immagine è tratta da http://www.atmos.washington.edu/~bitz/PSC/modern_options.html)

ps: che mi dimenticavo che ieri 22 marzo è stato l’anniversario della Repubblica di San Marco, non so se avete presente Daniele Manin, Niccolò Tommaseo, il morbo infuria il pan ci manca eccè eccè eccè.

Venerdì pesce

frittura

No, non l’ho preparato io: è un piatto di frittura di scampi e moleche dalla leggerezza e sapidità sublimi, come lo si può trovare solo nel mio ristorante preferito di Venezia. Perché oggi è lì che ho passato la giornata: pura evasione, e sacrosanta. Clima giusto, itinerari appartati, nessuna fretta: insomma, una botta di relax, per disintossicarmi dallo stress prolungato delle ultime settimane. Ma che dico settimane: mesi. Una giornata non basta, ma aiuta, se non altro a recuperare un minimo di di fiducia e di senso della realtà.

Al ritorno, i miei gatti hanno riconosciuto il rumore della macchina e si sono fatti sul cancello per accogliermi, mentre il cane, sul retro, si è messo a saltare di gioia come se non mi vedesse da Natale. Poco dopo è rientrata anche la figlia laureanda con le copie della tesi fresche di rilegatura: una goduria toccare e annusare quelle copertine color crema con il suo nome e il logo dell’Università. Infine, nella posta ho trovato alcune belle notizie che hanno contribuito a rinfrancarmi, a farmi intravedere migliore il domani.
Già, domani. Domani espierò con mocio, folletto, lavatrici, fornelli e ferro da stiro, ma forse ripartirò con un po’ più di carica. Ora doccia e nanna, come reclamano le mie caviglie, che oggi hanno dato il massimo dato che, quando torno nella mia città, disdegno meticolosamente qualsivoglia mezzo di trasporto e me la giro in lungo e in largo sempre e solo a piedi. Avete un’idea di quanti giapponesi riescono a stiparsi su un vaporetto? E se rimane ancora posto, ci pensano i tedeschi, i francesi, i polacchi e perfino gli italiani. E allora, in quella calca, schiacciare una buccia come me è un attimo.
Dunque, buonanotte.
E buon domani.

Il Lido a febbraio

Alle dieci papà ci aspetta in fondo al binario 8. La parola d’ordine, oggi, è farlo contento in tutto e per tutto, mettergli a disposizione la giornata perché se ne ricordi a lungo, dopo a lungo averla sperata: siamo qua tutti e tre, i figli sparsi e divisi, ex-bambini in perenne infelice soggezione, ora cinquantenni ancora parzialmente infelici e ancora sufficientemente succubi, ma ormai più che altro della compassionevole tenerezza verso un padre che ci ha messo troppo ad accorgersi di noi e adesso ha pochi mezzi per recuperare gli anni perduti. Ma basta la salute, e se poi ci aggiungiamo un tanto di superiore ironia la cosa si può fare: si può fingere che vada tutto bene e che nulla di ciò che è successo nelle nostre vite abbia lasciato i segni irrimediabili che solo noi sappiamo, nel silenzio sincero dei ricordi spietati.
Con sorrisi leggeri – leggeri come la luce azzurra di questa mattina di incerto febbraio – ci avviamo in una Venezia smobilitata dai turisti e non ancora aggredita dal carnevale; le donne ben coperte portano sacchetti di spesa, gli uomini escono dai caffè col giornale sotto braccio, i vecchi si fanno guidare da cagnetti remissivi, ragazzi niente – sono a scuola – ma bimbi piccoli sepolti da sciarpe nei passeggini trasportati a braccia su e giù dai ponti. La pietra d’Istria rimanda echi di passi, i fornai profumano gli angoli di pane fresco e vaniglia di frittelle. Ho voglia di caffè, un caffè perfetto, di quelli che non si dimenticano, ma sono sola contro tre e rinuncio precipitosamente per non doverlo precipitosamente inghiottire sotto occhi impazienti.
Si passa un attimo da casa (in fondo a un campiello, alcuni gatti di una colonia felina riconoscono in nostro padre un loro quotidiano benefattore e mi concedono uno scatto)

gattiVE

per lasciare giù dei piccoli pacchi e dare a papà un giudizio collegiale sulla sistemazione a muro di alcuni quadretti che gli stanno a cuore: la mozione è presto approvata all’unanimità e con unanime soddisfazione. L’appartamento è una delizia di luce e serenità su tetti frequentati da gabbiani saggi e sedentari; ogni cosa è in ordine e splende come se quella casa fosse il paradiso finalmente raggiunto, e so che per mio padre lo è. Un po’ tardi, ma finché dura.

gabbiano

Il programma, azzardato lì per lì, ma proprio per questo destinato a esito felice, è una gita al Lido, per rivederlo com’è in inverno e come ce lo ricordiamo dal nostro passato, da altri inverni isolani senza il chiasso dei turisti che si appropria dei silenziosi viali e giardini, degli stridi dei gabbiani fra le terrazze, della quiete delle villette liberty ombreggiate da magnolie. Il vaporetto della linea 1 impiega un buon tre quarti d’ora, percorrendo prima tutto il canal grande dove si incrociano rare gondole con famiglie asiatiche, e poi il bacino che si allarga scintillando fino all’approdo di santa Maria Elisabetta; come giapponesi, mio fratello e io scattiamo foto convenzionali di palazzi, di gomene, di pontili, quasi per riscattare le nostre proprietà perdute.

Imbocchiamo il Gran Viale degli alberghi chiusi e dei negozi in ferie; il poco passeggio è quello delle famiglie del sabato, e anche qui cani al guinzaglio e bimbi in carrozzine impellicciate, ma il sole è più franco e batte sulle palazzine bianche, sui vetri degli abbaini, sulle aiole di sempreverdi che spartiscono un traffico di poche auto. Al posto del circolo degli scacchi in cui nostro padre ci tradiva con la sua meticolosa passione, un grande magazzino; al posto del raffinato negozietto di sciarpe e cappelli, videogiochi e gadget; proliferano agenzie bancarie e bar mordi e fuggi, e all’angolo con la nostra vecchia strada lo storico negozio di ferramenta, ristrutturato a vetri e cromature, espone cellulari e nient’altro. E’ invece rimasta tale e quale, ossia si è lasciata dolcemente contagiare dal degrado carezzante del tempo, la villa del dottore, a due passi da dove abbiamo abitato noi: cancellata verde ormai vocata a una quieta ruggine, stratificazioni felpate di foglie secche sui vialetti, l’ocra della facciata, fra le imposte sbucciate, stinta a tiepido rosa dal sole che le sorge di fronte. Di casa nostra, al contrario, non resta più niente. Era una palazzina liberty di grande sobrietà, con linee irregolari che cingevano un giardino di palme e cedri; cigolava, il cancello, e chiudeva male. Dall’altana dove raramente si saliva – per una scaletta di legno e di fortuna – si vedeva da un lato la laguna e dall’altro il mare.

Passiamo il ponte che non rimbomba più, da quando lastroni di pietra hanno sostituito le assi di legno che facevamo risuonare coi passi. Più avanti, il fornaio che ci forniva spartane merendine sulla strada per la scuola, poi un altro ponte su un canale quietissimo dove il sole entra d’infilata e scalda vecchi legni di barche a riposo. L’istituto delle suore dove ho imparato a leggere e a scrivere è invecchiato signorilmente e soprattutto non è più una scuola, ma un pensionato intristito: mancano le nostre voci bambine tra quei rosai e l’impeccabilità del cortile ben spazzato, mancano i disegni alle finestre e i paltoncini buttati in un angolo per giocare.
Di là dalla strada, però, c’è il mare, le spiagge recintate per l’inverno. Troviamo un varco giù da una scalinata di cemento che poi permette anche di accedere a una terrazza sopraelevata, ma la meta sicura per tutti – anche per un padre sbigottito che teme di sporcarsi le scarpe sulla sabbia – è la spiaggia libera e possibilmente – anzi, per quel che mi riguarda, irrinunciabilmente – la battigia. Li lascio indietro e prendo il mio passo, quello ventoso e esaltato che sempre mi porta verso l’acqua, qui e ovunque.
Marea bassissima e moria di granchi e conchiglie; i moli deserti, la spiaggia estesa dove si contano poche figure in passeggio meditativo, come in certi dipinti di Boudin e come fuori dal tempo. Due petroliere sfumano all’orizzonte; il faro è lontanissimo, meta di coraggiose camminate da cui si tornava con le spalle scottate e l’urgenza di un tuffo nelle acque sicure sotto riva. Alle spalle, dorme nel suo biancore primo novecento il grand hotel Des Bains, l’albergo fiabesco delle nostre fantasticherie di bambini, l’albergo del professor Aschenbach e del suo Tadzio.

DesBains

Ma è l’acqua, è l’acqua che cerco, e mentre i miei fratelli raccolgono conchiglie come mai li ho visti fare da piccoli, io è l’acqua che raccolgo, tra le mani non osando togliermi scarpe e calze per non turbare un padre tardivamente apprensivo per la salute della progenie, ma lo farei, oh se lo farei, non sarebbe la prima volta che mi arrotolo i jeans per entrare in acqua a piedi scalzi in pieno inverno, e per trovarla più tiepida, più dolce, più materna e affine a me dell’aria fredda che mi taglia il viso.

Tra me e l’acqua c’è qualcosa di infinitamente saldo, un patto naturale che mi accompagna dalla nascita, io che son nata in una stanza affacciata sul canal grande, e quella sera anche il cielo pioveva, ed è perciò che è nell’acqua che sono venuta al mondo e che per sempre poi l’acqua mi è stata madre.

All’una si torna nel mondo, nelle strade, sui marciapiedi lastricati fra vetrine semideserte e rari locali in attività; in uno offrono pizze e primi piatti, quel che manca del tutto è qualsiasi traccia di pesce, ma dei quattro sono l’unica a prediligerlo, e mi adeguo a una margherita su una cerata verde e gialla, dove i nostri bicchieri di vino lasciano cerchi rossastri. I vicini di tavolo, ce ne sono di slavi e di giapponesi, pasteggiano a lasagne e cappuccino, Dio li perdoni. Papà riesce a mangiare la sua pizza dall’interno, lasciando la crosta intatta come una corona circolare; mio fratello la divora tutta, mia sorella e io a tre quarti ci sentiamo spacciate e rinunciamo alla crostata, rinviando il dolce a una buona pasticceria dove anche il caffè abbia un aspetto e un aroma più convincente. Progetto che poi cade nel nulla, perché è ora di tornare a Venezia, e il motoscafo – stavolta la linea 52 che gira dietro l’Arsenale – è già al pontile. Mio padre fa strada col suo famoso berretto da Corto Maltese che lo fa sentire tanto uomo di marineria.

Il tragitto è frequentato quasi solo da indigeni, perché offre delle suggestioni che i non veneziani non saprebbero cogliere, abbacinati da quelle convenzionali e a buon mercato dei percorsi classici; per questo lo preferiamo, e ci lasciamo alle spalle l’isola della nostra infanzia dove sembra – sembra solo – tanto facile tornare quando si voglia, un treno, un vaporetto, che ci vuole? ma che invece è così lontana, così fuggita via da essere ormai per noi irraggiungibile e aliena. Anche se sono certa che certi angoli, certi cancelli, certi vecchi muri, qualche albero e qualche ponte ci sapranno riconoscere sempre, almeno loro, e ci chiamerebbero per nome con tenero stupore.

L’ultima immagine del Lido a febbraio è un controluce, un controluce d’amore. Si torna all’asfalto e ai fumi plebei della terraferma. Ma nostro padre, che ci saluta dal terrazzino dei gabbiani, lui è felice. L’ultima impressione che mi segue al treno è che lui oggi sia ringiovanito, mentre io mi sento di colpo più vecchia.

Ma non è colpa sua. È Venezia che mi frega sempre.

Odori

(ho vissuto l’infanzia a Lido di Venezia)

Tazio

Il fumo di legna che stria la nebbia.
Il latte bruciacchiato sul fornello.
Lo zolfo persistente di un cerino.
Crema solare, plastica calda di sole.
Nafta di ferry-boat.
Salmastro di gomene attorcigliate.
Cipressi al cimitero ebraico, e gabbiani.
Gelsomino fuori da un cancello liberty.
Alito fondo dall’antro di un vinaio.
L’inchiostro e i libri nuovi, la gomma-pane.
I gigli a una madonna patrona di un’aiola.
Pane e burro nel cestino dei bambini,
all’asilo.

Che senso ha?

M.Marieschi - Ss. Giovanni e Paolo

Festeggiare un anno che finisce, dico. Da pochi minuti, un 5 è diventato un 6, e con ciò? Sono convenzioni, niente di più; come i buoni propositi e gli auguri. Convenzioni. Non atti di fede né certezze né conquiste.
Poche ore fa, ieri, ultimo giorno dell’ultima settimana dell’ultimo mese di questo anno, sono stata a un funerale. Scusatemi l’argomento, so che potrà dar fastidio metterlo in tavola accanto a ostriche o zamponi, ma poi tanto finiscono anche quelli: finiscono mangiati, divorati, ingozzati, e le tracce che lasciano non sono ‘sto granché.
Un funerale a Venezia. Bisogna averne visto uno per capire il senso. La chiesa è tra le maggiori della città, ospita tombe di Dogi, mica cazzi. Poca gente, e in età. Fiori, no. Non so perché. Solo un mazzo sulla cassa, chiara. Neanche organo o canti, niente. Un celebrante svogliato, quattro frasi fatte, lesinato perfino l’incenso. Poco impegno, mi è parso; nessuna intensità.
Solo dopo, fuori, in campo, è successo ciò che sempre succede nei funerali a Venezia e che sempre attanaglia il cuore di chi assiste, anche dei passanti; e ce n’erano, turisti invernali, ce n’erano, e sbigottivano nel vedere le manovre complesse per issare la bara su una motolancia e poi farvi salire i pochi familiari. La vita in campo si è fermata per qualche minuto intorno a quei gesti, fino al disormeggio, quando l’imbarcazione si è staccata dalla riva del canale e ha puntato verso la laguna, sparendo sotto l’arco del ponte. Io, rimasta a terra, congelata dentro e fuori, ho cercato di trattenerla negli occhi fino all’ultimo, e anche dopo ho immaginato ogni metro compiuto nelle acque freddissime della laguna, nel tratto da percorrere verso l’isola del cimitero, San Michele dalle mura rosate. Non c’è niente che renda meglio il senso del definitivo distacco che un funerale a Venezia: i nostri morti vengono portati laggiù, su un’altra isola, lontani dalla vita della città. Andarli a trovare è un viaggio, un vero viaggio, il più malinconico che si possa immaginare.
Ecco una cosa che, ieri, è finita davvero.
E la nevicata che è cominciata proprio quando stava iniziando anche l’ultima notte dell’anno ora avrà coperto, più che non potrebbe una lastra di marmo, quella poca terra smossa la mattina, a dare il segno più struggente di una vera fine.