La strada di casa

Mi ricordo che c’era qualcosa da cui dovevo scappare, non so bene cosa, e qualcos’altro che dovevo raggiungere, non so bene dove. Così mi sono messa a correre, a correre alla cieca, e come i ciechi all’inizio sbattevo contro tutti gli ostacoli. Erano spigoli taglienti che mi procuravano lividi, era filo spinato che mi faceva sanguinare, erano volgari bucce di banana su cui scivolavo a tradimento, o cristallerie tutt’altro che volgari che cadevano con sinistro fragore di vetro esploso al mio maldestro passaggio. Allora sono uscita all’aperto, pur sapendo di rischiare una crisi di agorafobia, e sono corsa più lontano. Ricordo una pietraia che non finiva più, e probabilmente covava serpenti suscettibili tra i crepacci. Saltavo di qua e di là per evitare gli inciampi, e intanto perdevo ancora di più l’orientamento. Un avanzo primordiale di istinto mi ha permesso di scansare una pozza ribollente di sabbie mobili: ero così stanca che avrei anche accettato di morire, ma non così, non per lento soffocamento. Forse precipitando, ecco, da quel ponte tibetano che ho dovuto imboccare per scavalcare un precipizio al cui fondo scrosciava un fiume infernale. Oppure travolta da una tempesta di sabbia o scorticata viva da sciami di cavallette. O piuttosto facendomi scoppiare il cuore nello sforzo di arrampicare una montagna ripida e irta di rovi traditori. E poi in cima trovare non il cielo aperto e l’aria rarefatta, ma un plotone di lupi sanguinari che mi ha rincorsa giù per una discesa vertiginosa verso la regione dei pantani mefitici. Annaspando nel limo ho guadagnato un lembo di terra appena più solida e ho preso a correre più forte, per lasciarmi indietro una paura ormai fuori controllo. Quello che mi auguravo, allo stremo delle forze, era ormai solo un vuoto, infinito e riposante. Ma c’era ancora un bosco da attraversare, fitto e labirintico, stillante di umidità e resine che mi invischiavano come tentacoli. Lì in basso non arrivava il sole, era sempre notte, e io ho vagato fino a perdere la cognizione del tempo in quel buio fatto anche di sibili, scricchiolii, fruscii minacciosi, un buio abitato da creature buie come i buio.
C’è voluto tanto per uscirne, e ancora non so come ho fatto, quale segnale o istinto ho seguito per individuare il fievole barlume che segnava la fine della boscaglia. Forse tutto è durato una notte sola, e un’alba normale come tutte le albe ha disciolto incubi che a me erano sembrati interminabili. Quell’alba acerba indicava un sentiero appena accennato in quella prigione di tronchi ostili, e nel seguirlo con le gambe molli di sorpresa sono riemersa in una radura verdeazzurra. Al centro, illuminato dalla piena luce del nuovo sole, un Unicorno bianco dai grandi occhi ovali accennava con dolci assensi del muso un incoraggiamento e un invito. Il prato era il suo pascolo, come ai tempi dell’Eden. E lì in fondo, scintillante anch’essa ai raggi di un mattino sempre più sicuro, una vasta casa con porticati, torrette e finestre spalancate. Una casa di marzapane.
Sulla soglia mi sono venuti incontro e mi hanno fatta entrare. Erano sorridenti e ospitali. Erano amici fra loro e con me. Non mi hanno chiesto nulla, perché sapevano già tutto, mi avevano aspettata per tanto tempo. All’interno aleggiava il profumo del caffè e del pane tostato. Finalmente ho potuto lavarmi via di dosso il fango secco, sgrovigliarmi i capelli, indossare panni puliti. La stanchezza si scioglieva nell’acqua tiepida di una tinozza odorosa di vecchio legno. Nella grande cucina, qualcuno stava disponendo sul tavolo la colazione per tutti. Mi hanno fatta sedere con loro offrendomi latte caldo e miele, in un cerchio di sorrisi e premure discrete. L’Unicorno ogni tanto ci osservava dalla finestra con i suoi grandi occhi azzurri sognanti da cerbiatto, e annuiva rassicurante.
E poi è venuto il momento di conoscerci meglio. C’era una poltrona vecchiotta vicino al focolare, e ho capito che era riservata a me. Gli altri si sono disposti intorno, su sgabelli di tutte le forme e dimensioni, qualcuno anche accoccolato sul pavimento con un gatto in braccio. Per un po’ ci siamo guardati senza dirci nulla eppure senza smettere di sorriderci. Sorridevamo di gratitudine, godevamo in silenzio la conferma di una affinità. L’Unicorno era tornato a guardarci dietro i vetri, in attesa come noi.
E io, per non sbagliare, ho chiesto: “E adesso?”
E uno di loro, a nome di tutti, ha risposto:
“Adesso, raccontaci una storia”. 

6 thoughts on “La strada di casa

  1. E come inizia tale storia? Così: «Mi ricordo che c’era qualcosa da cui dovevo scappare, non so bene cosa, e qualcos’altro che dovevo raggiungere, non so bene dove»?

    • No, quella storia la conoscevano già. Perché, vedi, anche loro erano arrivati al prato dell’Unicorno dopo aver guadato il torrente delle incertezze e scalato la montagna delle frustrazioni. L’unica moneta di scambio, fra noi, erano – e sono, e spero saranno – le storie. Storie nuove, inventate apposta al momento. È facile inventarle, perfino viverle, quando ci si incontra in un posto dove le affinità, la condivisione dei desideri, dei sogni e del linguaggio, generano un’armonia capace di difenderci dagli incubi che noi stessi ci costruiamo.

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