Io e/o lei

Mary Cassatt, Bambine che giocano sulla spiaggia

Stamattina all’alba

No, quale alba. Sole non ce n’era. C’era nebbiolina e piovigginava, quella nostra bella umidità padana che si esprime in una familiare gamma di grigi dal perla all’antracite, un tempo da piena quaresima; e in effetti, oibò, è venerdì santo, il giorno del pianto.
Alle sette entriamo, io e mia sorella, nel reparto al terzo piano. Di fuori, il Centro è grigio come tutto il resto, grigio da quando era un sanatorio con gli stanzoni grigi e le terrazze grigie per il pallore grigio dei tisici cronici. Dentro invece adesso è una specie di scuola materna con ampi corridoi ben illuminati e stanze al massimo a due letti con arredi colorati. Fuori il grigio, qui il pervinca, l’albicocca, colori da nuvole nei disegni dei bambini.
Il personale (tutta gente giovane e spontaneamente ben disposta) indossa uniformi azzurro cielo o verde foglia fresca; il bianco è meno rappresentato, non ha più – nell’immaginario collettivo – quella valenza taumaturgica.
Bianca però è la canonica camicia aperta dietro. Consegnate le carte e fatte un paio di firme, ci viene inflitta un’attesa troppo breve perché faccia in tempo a montare l’apprensione. Poi in ogni caso non c’è traccia di apprensione nell’aria, anche perché è del tutto assente quell’olezzo di disinfettanti che – sempre nell’immaginario collettivo – impregna gli ospedali e incute infausti presagi ai pazienti.
Oltre la porta della piastra operatoria, interdetta ai non addetti, l’atmosfera è la stessa di fuori: sorrisi, premure, buon umore contagioso, leggerezza. La differenza è che oltre quella soglia tutti portano cuffia e calzari. Altro non è dato osservare perché nel tubicino comincia a scendere saltellando una misericordiosa soluzione anestetica dall’effetto pressoché immediato e totale.
Al risveglio – dopo un’oretta trascorsa come un istante – la coscienza è limpida e senza zavorre, e percepisce subito il cambiamento meteorologico: in concomitanza con l’uscita dalla sala operatoria, alle finestre si affaccia una luce diafana sì, ma color del sole che finalmente sta bucando il grigio. Di là dalla porta c’è mia sorella. Non ci siamo mai staccate: una dentro, l’altra fuori. Ci siamo strette tutte e due le mani e abbiamo sorriso di gioia. Forse più che sorridere dovrei dire addirittura ridere, perché stavamo così bene ma così bene che sorridere era troppo poco.
Il tè ospedaliero è una ciofeca, lo sanno tutti. Non infieriamo. Però quando esci da una sala operatoria e te ne portano una tazza significa che tutto è andato bene e che puoi finalmente rompere il digiuno e tornare alle abitudini normali. Mia sorella, che per motivi suoi è mezza inglese, mi fa notare che quella brodaglia è anni luce lontana dal tè come lo intende e lo sa preparare lei. Io di tè non me ne intendo, ma le ricordo solo che quando ti trovano così in forma da poter bere il loro tè vuol dire che sei pronto per essere dimesso.
E infatti alle due ci mandano a casa, con tanti auguri di buona Pasqua. Si sono trattenuti giusto qualche grammo di roba, roba che dava fastidio e che non ne darà più.
Fuori c’era il sole, sole vero, e qualche bel grado di tepore in più della mattina. Per strada abbiamo parlato di libri e di menu di Pasqua, e ci siamo perfino fermate al supermercato per un po’ di spesa. Tutto come un giorno normale, anche se era venerdì santo e avevamo passato sette ore in day surgery.

Tutto questo è successo a mia sorella. Io ero quella in corridoio, lei quella dietro la porta della sala operatoria, lei quella con le flebo, il camicione, il cerottone e la fottutissima paura.
Ma è stata la stessa cosa. Io ero me ma ero anche lei. Come sempre, del resto.
E lei lo sa.

nell’immagine: Mary Cassatt – Bambine che giocano sulla spiaggia (1884)

Donne tu tu tu

Giovedì ho passato il pomeriggio su un divano comodissimo, sotto un plaid, in compagnia di mia sorella. Ci siamo raccontate cazzate a macchinetta, una tirava l’altra. Con mia sorella riesco a parlare di cazzate che non mi passa neanche per la testa di condividere con altre donne, perché solo con lei riesco a caricarle di quella ironia che rende sopportabili certi argomenti oziosi. Per esempio, considerazioni sulla moda, le pettinature, gli smalti per unghie, il colore della biancheria intima: tutti argomenti da parrucchiera. Da lì, siamo scivolate a tessere l’idea utopistica di trovarci una parrucchiera per sordomuti, nel cui salone dovrebbe regnare quel confortante silenzio che ci permetterebbe di leggere mentre le nostre capigliature vengono sottoposte a trattamenti chimici di cui ignoriamo la natura e l’utilità. Tra una cazzata e l’altra ci siamo scaldate i piedi a vicenda e abbiamo anche chiacchierato di libri. Fatte le debite proporzioni (lei un miniappartamento, io una casa enorme), credo ne possieda più di me. Se non ricordo male, abbiamo disquisito anche di politica. Ci perplime il nuovo slogan lavorare di più, lavorare in più, lavorare più a lungo. Ci perplime perché non vediamo come si possa allo stesso tempo lavorare in più e anche più a lungo, se lo stesso posto di lavoro deve rimanere occupato fino a un’età più avanzata. Ci perplime perché non capiamo come si possa lavorare di più se non c’è lavoro in generale.
Si stava così bene sotto quel plaid che si è fatta sera in un attimo e ho dovuto rimettermi in strada per casa mia. Sulla porta i soliti saluti: “Cerca di mangiare, che sei magra” e “Senti chi parla”. Ogni volta mi viene in mente quell’aneddoto di P.M.Pasinetti a proposito di due sue vecchie zie:
“Come la fastu, ti, la carne in tecia?”
“Come ti”.
“Anca mi!”

L’indomani mattina, venerdì, abbiamo replicato le quattro ore di chiacchiere ma stavolta in trasferta al pronto soccorso, per motivi che esulano dalle tematiche di questo blog e che comunque restano fortunatamente banali. Di trovare parcheggio in ospedale, neanche a parlarne, perciò ci siamo fatte il nostro quarto d’ora a piedi lasciando comunque la macchina in sosta contromano. Dopo il triage, abbiamo aspettato un’oretta in una sala d’attesa dove una tivù al plasma (non umano, o forse sì? ora che ci penso, forse sì) trasmetteva La storia siamo noi di Minoli. La puntata era dedicata alla Thatcher; i passaggi migliori erano quelli con Meryl Streep. Sui titoli di coda ci hanno chiamate in area verde e lì abbiamo aspettato di nuovo, stavolta senza plasma però stranamente fra molti spifferi. Ci eravamo portate la Domenica quiz per ingannare il tempo, ma non ci è servita perché avevamo ancora tante cazzate da raccontarci, rimaste in sospeso dal giorno prima. Tipo analizzare in quali svariati modi e per quali insondabili motivi noi due siamo così diverse dalla massima parte delle nostre coetanee. Deve essere perché noi, a differenza di loro, siamo scresciute.
E mentre stavamo lì a gelarci il culo su sedie di metallo tutto tranne che ergonomiche abbiamo visto passare la solita corte dei miracoli che si vede ogni giorno in pronto soccorso, in particolare anziani con ematomi in faccia causa cadute su marciapiedi sconnessi o extracomunitari con fazzoletti insanguinati intorno a dita affettate o schiacciate in corso di lavoro nero. Ci ha portato un po’ di distrazione un momentaneo trambusto dentro l’ambulatorio dove un medico stava visitando un detenuto. In un attimo il corridoio si è riempito di agenti della polizia carceraria e del presidio di pubblica sicurezza interno, e si sono visti cipigli, parecchie fondine gonfie e un paio di mitra esibiti in chiaro.
Dopo la visita, i raggi e il responso favorevole, ci hanno rimandate a casa previo pagamento di un ticket che è risultato sensibilmente più caro dell’importo della prestazione in sé.
Fanculo, ci siamo dette, noi stamattina ce la siamo spassata: è anche giusto, in fondo, lasciare una mancia.