Chiamatemi Brian – 3a puntata

In quasi mille anni il mondo è cambiato. Villaggi sono mutati in città, ai cavalli hanno messo il vapore, le candele sono retrocesse a cerei simulacri devozionali, le parole viaggiano su fili, e infinite altre ingegnosità hanno preso il nome di progresso. Quello che non è cambiato affatto è l’Uomo, che continua a nascere e affannarsi esattamente con lo spirito caotico e inconcludente dei vari Poggio di Malaterra e Orso di Montegiuda che conobbi da vivo; morti, quelli, di peste, veleno, gotta o  lama di spada. I loro discendenti muoiono tuttora di malattie o morte violenta. E le guerre, continuano anche quelle, per gli stessi motivi e con lo stessa demente furore di sempre. Cambiano tutt’al più gli strumenti, in nome del progresso ovviamente, ma non fa gran differenza morire per un fendente in una battaglia campale oppure abbattuto con il tuo caccia in un duello aereo. Per Susan, di certo, non faceva alcuna differenza. La differenza la faceva il fatto che a essere abbattuto negli ultimi giorni di guerra fosse stato il suo unico figlio Gareth.

Conobbi Susan e suo marito grazie alla loro giardinetta. Mi ero congedato da una biblioteca universitaria in una storica cittadina e mi avviavo a una nuova residenza presso un circuito bibliotecario rurale dove pensavo di trascorrere un’estate rilassante in letture umoristiche o sentimentali, giusto per alternare i generi dopo una secolare scorpacciata di codici e cronache medievali, di filosofia presocratica e astrologia fenicia, di biografie dinastiche e feuilleton ottocenteschi – che a dirla tutta ormai non mi dicevano più niente. Progettavo un periodo di semplici delizie agresti all’ombra di un presbiterio, cose del genere. Per l’ultimo tratto di strada colsi l’occasione di un passaggio su un macchinino modesto e vecchiotto, una giardinetta verde smorto che si intonava perfettamente con il mio sogno di villeggiatura in campagna. Alla guida, un uomo di mezza età, e accanto sua moglie, dignitosissima nella sua mestizia. Susan. Tornavano dalla visita giornaliera al camposanto dove la settimana prima avevano sepolto il figlio, e nei loro volti si era già insediata l’irreversibile dolce pazienza dei genitori rimasti orfani. Non li avrei osservati con particolare interesse, come non osservavo granché i miei occasionali compagni di viaggio con i quali in nessun caso avrei potuto comunicare, se non fosse stato che l’argomento della loro sobria conversazione si rivelò riguardare i libri, quelli preferiti dal figlio, che stavano pensando di donare alla bibliotechina locale in sua memoria. Susan per la verità, dopo aver riflettuto mentre si toglieva il fazzoletto dai capelli grigi, si mostrava ancora impreparata a quella donazione, che per lei avrebbe rappresentato un distacco troppo concreto dalla presenza di Gareth che ancora aleggiava fra le mura della loro casetta. E così suggeriva al marito di aspettare ancora un po’, di lasciarli al loro posto sullo scaffale accanto al caminetto, magari per rileggerli lei stessa un’ultima volta prima di cederli a estranei insieme al ricordo del figlio e a quanto restava, forse, dell’odore delle sue mani.

Non so come mi spinse a deviare dal mio itinerario; probabilmente qualche arcaico sentimento della mia natura umana che non si era del tutto scollato dalla mia forma incorporea, e che aveva a che fare, che ne so, con la mia infanzia, con mia madre morta di parto e mai conosciuta, vai a sapere. Io per la verità non ho ancora ben capito a fondo come funzionino i fantasmi, quelli normali, ed essendo palesemente un fantasma anomalo (malriuscito, direbbe il Decano), meno ancora posso esprimermi sulla logica del funzionamento di me medesimo.
In ogni caso li seguii, Susan e Jasper, nel loro lindo cottage; era  come se avessi in qualche modo percepito una specie di spinta sulle mie spalle evanescenti che mi incoraggiava vai, vai, e insieme una voce dolce che mi invitava entra, entra.
Susan era pensierosa, e cominciò ad aggirarsi nel salottino riordinando con gesti assorti piccole cose già in ordine, mentre Jasper preparava silenziosamente il tè, forse per dare un senso a quell’ora così desolata.
I libri erano su una piccola libreria di legno accanto al caminetto.  Mi avvicinai per guardare qualche titolo, e Susan, rivolta al marito, parlò:
“Ti ricordi Jasper, quando tornava a casa la sera si fermava sempre lì davanti a scegliersi un libro. Leggeva i titoli come se si aspettasse di trovarne di nuovi, non ancora letti…”
Io in quel momento mi ero proprio fermato davanti alla libreria, leggevo i titoli, ne cercavo qualcuno di sconosciuto.
“Poi allungava la mano e ne prendeva uno, come se cogliesse il frutto migliore da un albero – rievocava Susan.
Proprio quello stavo facendo: avevo individuato un Cronin che non conoscevo e stavo allungando una mano trasparente, non tanto per prenderlo ora ma quasi per prenotarlo per la notte, quando fossi rimasto solo.
Ritirai di colpo non solo la mano ma anche l’intenzione, e mi spostai di lato, appoggiandomi allo schienale di una poltrona a fiori.
“E poi si metteva lì, lo apriva sopra la spalliera e cominciava a leggere le prime righe, perché non poteva aspettare. Ma dopo lo richiudeva e lo lasciava da parte per la notte”.
Mi spostai nuovamente per sfuggire la molesta sensazione di essere osservato. Nell’angolo c’era una grossa radio su un tavolino e, sopra, la foto incorniciata di un ragazzotto in giubbino della Raf, col sorriso della vittoria sul volto solo poche settimane prima di inabissarsi sulla Manica. Lo guardai con un brivido turbato.
“Prima di cena, però, accendeva sempre la radio. Vero Jasper? Quanto gli piaceva, la radio! – sospirava Susan, ma il ricordo ora sembrava rivestirsi di una strana triste allegrezza, forse perché le risuonavano nella mente le canzonette che il figlio ascoltava, magari accennando qualche passo dei nuovi balli.
E io dov’ero, se non accanto alla radio? E anche quando mi avvicinai alla finestra aperta con una mezza idea di scavalcarla e fuggire da quella casa stregata, Susan rivide in quel gesto invisibile il suo Gareth che da bambino usava quella via di fuga per scappare a giocare oltre l’orario, e lei lo richiamava da quel davanzale prima che facesse buio.
Così quando il mio sguardo si posava su un quadro o sull’orologio o sul piattino dei biscotti, ecco che Susan pareva raccogliere un invito dall’Aldilà – dal mio aldilà – e subito la sua attenzione si posava su quegli oggetti ed essi diventavano il fugace filo conduttore di un ricordo sorridente del suo Gareth.
Jasper portò il vassoio del tè, e Susan gli disse:
“Oh caro, hai sbagliato di nuovo: hai preparato tre tazze!”
E fu un caso se Jasper, confuso, tolse la tazza di Gareth dal vassoio e la posò sull’angolo del tavolo dove mi ero seduto io? E se, un momento dopo, per consolarlo – per consolare entrambi – Susan dichiarò: “In fondo hai fatto bene, è come se lui fosse ancora qui con noi” prima di versare con un lieve sorriso il tè per tutti?

Da qualche mese vivo con loro. Peccato che non lo sappiano, ma io so che a modo loro lo sentono, e li fa stare meglio. Leggo i libri di Gareth, sfioro gli oggetti della sua stanza prima che Susan passi a spolverarli, mi siedo accanto a loro davanti alla tazza da tè col suo nome. Sono diventato l’utile fantasma di Gareth, visto che non ero mai riuscito a essere altro che l’inutile fantasma di Brian. Li seguo nell’orto, al mercato, in chiesa, perfino in biblioteca. Quando vanno al camposanto, li precedo e mi faccio trovare accoccolato sulla tomba di Gareth. Portano fiori, poi parlano con me, ed è come se parlassero con lui.
E io rispondo a nome suo.

fine

(qui la1a puntata e qui la 2a puntata)

Chiamatemi Brian – 2a puntata

qui la puntata precedente e qui la terza e ultima

Il Decano di zona lo rividi ancora diverse volte, nel corso dei secoli. Era suo compito passare periodicamente a verificare i progressi dei fantasmi di nuova nomina, ma quando veniva da me faceva una smorfia di desolazione:
“Muri? Catene? Ancora niente?” 
E se ne andava.
Io come fantasma mi arrabattai. L’unica facoltà che possedevo era l’invisibilità, che mi permetteva però di prendermi qualche soddisfazione. Potevo parlare ad alta voce, cantare, imprecare, senza che nessuno mi sentisse. Potevo entrare dappertutto purché qualcuno lasciasse aperta la porta, e nessuno mi vedeva. Non sapevo volare ma mi spostavo a piedi, oppure su un carro o in groppa a un cavallo senza che né il carrettiere né il cavaliere dietro cui salivo in sella se ne accorgessero. Non avendo più la necessità di dormire, potevo aggirarmi ovunque di notte come di giorno senza disturbare o spaventare le anime sensibili. Che poi ero rimasto lo stesso di prima, ossia troppo sensibile io stesso per fare di questi macabri scherzi.
Per lunghissimo tempo soggiornai nella quiete dell’Abbazia. I monaci leggevano, scrivevano e salmodiavano, e io ebbi tutto il tempo per imparare a fare altrettanto. Il loro gregoriano era un’onda di misticismo così sublime che mi commoveva, e ancor più quando partecipavo al coro io stesso, accoccolato ai piedi del priore con le lacrime agli occhi. Lacrime di fantasma, e occhi pure, si intende.
Dai monaci imparai anche a leggere e a scrivere. Loro lo facevano solo di giorno, ma io potevo continuare anche la notte, perché non avevo bisogno di candele né avvertivo il freddo pungente d’inverno. Lessi l’intera biblioteca, imparai il latino, il greco, l’ebraico e il sanscrito. Conobbi anno dopo anno tutta la cultura disponibile in quel periodo di amanuensi che si sarebbe chiamato Medioevo, e fu un modo straordinariamente dolce ed esaltante di far passare un infinitesimale frammento dell’eternità che mi era stata predetta. La lunghezza infinita della mia pena mi concedeva se non altro un incommensurabile vantaggio sul Tempo: ne avevo quanto ne volevo e potevo farne uso e abuso senza temere di restarne sprovvisto. Lo investii dunque in un’attività che sembrava promettere molte gratificazioni allo spirito, e io cos’ero infatti se non uno spirito?
Così mi specializzai in biblioteche.

Non c’è posto al mondo più quieto, raccolto e suggestivo di una biblioteca. Nemmeno una chiesa è così vicina alla purezza, perché in essa, poco o spesso tanto, circolano denaro e favori, ipocriti e farisei, falsi pentiti non ne parliamo. In biblioteca invece si entra a cuore umile e disposto alla conoscenza, si depongono fuori armi e vanagloria e ci si accosta alla grazia suprema del Sapere con l’animo assetato di pace.
Non si contano, le biblioteche che ho visitato. In ognuna mi fu facile ambientarmi e dissimularmi, vi era sempre qualche pertugio o magazzino o nicchia in cui stabilire il bivacco preferito delle mie scarne membra virtuali. Il silenzio e la devozione rendevano uguali tutti i frequentatori indistintamente, si trattasse di canonici o di studiosi, di aristocratici o di umili studenti. Per ognuno, una sedia, un tavolo, un libro e l’obbligo di chinare il capo alla Regola del Rispetto per la Concentrazione altrui, cosicché l’ignorante può permettersi di fulminare con lo sguardo il sapiente cui è sfuggito un colpo di tosse. Dai finestroni ho visto mutare le stagioni, e ho colto i segni del Tempo in ogni crepa nuova, nuovo sgretolamento. Ho assistito impotente a crolli, incendi, saccheggi, disperati tentativi di salvataggio dei tesori cartacei, abbandoni, esodi. Quando una biblioteca moriva, mi mettevo in viaggio – a piedi, a dorso di mulo, sui carri dei mercanti – per raggiungerne un’altra e riprendere le mie letture interrotte. Nel corso dei secoli non ho fatto che inseguire libri, o forse erano loro a inseguire me, ma in ogni caso ci si arrendeva l’uno agli altri con profondo trasporto. Sono stati i libri e gli scaffali delle biblioteche, i muri sublimi della mia prigione di fantasma, le mie amatissime sbarre. Io, il piccolo Brian senz’arte né parte, troppo brevemente in vita per capirne il senso, nella mia non richiesta condizione di entità invisibile avevo trovato l’unico dialogo possibile, quello con la parola scritta tramandata da chi della vita aveva cercato di cogliere il nocciolo e ne aveva lasciato la possibile soluzione a quanti, venuti dopo, si tormentassero ancora a inseguirla. Ero circondato da voci vive di uomini morti, il passato e il futuro si intrecciavano insieme tra quelle pagine di tentativi, sogni e bestemmie cui l’Uomo ha affidato la memoria di sé e di tutti.
A cosa servisse tutto questo, ecco la mia domanda. Ad arricchire me stesso, non v’è dubbio, e dacché ero solo e smarrito nel Mondo di Mezzo poteva e doveva anche bastare. Ma qualcosa della mia solitudine da vivo mi era rimasta nelle pallide vene, e mi faceva continuamente rimpiangere il dono non concesso di dividere con qualcuno il patrimonio della mia anima. Non mi era sufficiente assistere alle dispute dei sapienti, che nelle biblioteche confrontavano le loro tesi discutendone con fervore e aggiungendo insospettati e fruttuosissimi argomenti. Erano momenti di grande interesse, non lo nego, ma non mi procuravano il calore e la commozione di una condivisione diretta, di un rapporto personale, occhi negli occhi, cuore in mano. Avrei voluto la parola, la materia, per poter alimentare la mia febbre di sapere con quella di un altro, per scambiare con lui a viva voce emozioni, domande, scoperte.
Questo non mi era dato. Fra me e il mondo dei viventi esisteva un velario invalicabile, che continuava a rendere oscura e inutile la mia esistenza anche nella inconsistente dimensione degli spiriti. 

Poi, qualche mese fa, conobbi Susan.

Chiamatemi Brian – 1a puntata

Perché questo è il mio nome, Brian, anche se nessuno lo ricorda.
E questa è la mia storia, la storia di quella sensazione di appagamento, di realizzazione, di avere svelato il significato della propria esistenza e di avere quindi conquistato la propria univoca identità – cosa tanto rara, in questa vita –  che io non ho raggiunto in questo mondo, e neppure nell’Altro, bensì nel mondo che sta in mezzo fra i due: il mondo delle anime smarrite, intrappolate a metà strada sotto la forma imperfetta e miserevole di Fantasmi.

Sì, per essere morto sono morto. Sono morto nei primi anni bui del secondo millennio, dopo una vita breve e insignificante.
Già di mio pezzente di nascita (e per di più mingherlino, scialbo e di salute cagionevole), ero l’ultimo degli stallieri del barone Poggio di Malaterra e passavo le mie giornate occupandomi del più umiliante dei lavori: raccogliere lo sterco nelle stalle. Inutile, oltre che umiliante, poiché appena avevo finito con l’ultima vacca della fila era già ora di ricominciare con la prima. Inutile, umiliante e anche alienante, al punto che nessuno ricordava nemmeno più il mio nome, e tutti mi si rivolgevano con uno sferzante e generico “Ehi tu”, cui seguivano invariabilmente ordini, legnate o entrambe le cose insieme. E così ero un invisibile, destinato a restare tale per sempre.
Di certo non mi vedeva Guendalina, la figlia del barone, né sospettava che mi fossi storditamente innamorato di lei e avessi deciso di mettere in gioco la mia vita per vincere la sua indifferenza. L’unico modo era distinguermi in un’impresa virile, e all’epoca non era così difficile imbattersi in qualche fatto d’arme. Il barone Poggio era giusto in sempiterna tenzone con il duca Orso di Montegiuda, e a ogni minima scusa i loro armigeri si scontravano nella piana e se le davano di santa ragione. Avevo vent’anni e il cuore gonfio di disperata voglia di rivalsa – nonché d’amore – quando mi gettai anche io in una di quelle mischie, e fui travolto dai cozzi delle mazze ferrate, dai sibili degli spadoni, dai nitriti terrorizzati dei cavalli, dal clangore dei ferri e dagli apocalittici incoraggiamenti delle trombe di guerra. Paralizzato sulle mie gambe tremanti e con uno spadino ridicolo in mano, tutto quello scenario sanguinoso e brutale mi si dispiegò davanti agli occhi per un solo istante, quello sufficiente a crollare per terra senza colpo ferire né averne inferti, morto semplicemente e incruentamente di spavento.
Intorno a me continuarono a squartarsi ululando per un bel po’, mentre nel cielo sopra il mio corpo esanime navigavano le nubi del mattino, poi quelle del pomeriggio e alla fine quelle viola del crepuscolo, quando gli echi della battaglia pian piano si spensero e ciò che restava dei suoi protagonisti si trascinava a casa, lasciando sul campo il dubbio che nemmeno stavolta ci fosse stato un vincitore e la certezza che il numero di caduti fosse gloriosamente alto per entrambi gli schieramenti.
Passarono a recuperare i feriti, ma io non ero fra quelli.
“Questo come ti pare?”
“Morto, morto”.
“Allora lo prendiamo su dopo”.
Più tardi ripassarono infatti a recuperare i morti, e tra loro si aggiravano un Angelo e un Diavolo inviati dai loro superiori a spartirsi le anime. Si scambiavano brevi commenti sommessi del genere: “Questo prenditelo pure tu” e “Sì, direi che spetta a me. Tu magari prenditi quest’altro”.
Arrivati accanto a me, litigarono. Ma non perché mi volessero entrambi, bensì per il motivo opposto.
 “Questo proprio non lo conosco: si vede che non era poi così buono. Prendilo tu”.
“Non lo conosco neanche io, si vede che non era nemmeno così cattivo. Prendilo tu”.
“E io che me ne faccio, scusa?”
“E perché dovrei sapere cosa farmene io, allora?”
“Vabbè, intanto lasciamolo qua e andiamo a informarci meglio – conclusero, e poi mi si rivolsero – Tu resta qua, capito? Da qualche parte ti si sistema, vedrai”.
Ma quel tono così poco convinto mi suonò subito come una scusa. Infatti aspetta aspetta, non venne più nessuno.

A notte fonda passò un altro personaggio, uno alto, bianco e diafano, così diafano che i neri cespugli dietro a lui si vedevano in trasparenza. In quel momento avevo già perso di vista il mio corpo, che era stato raccolto e buttato nella calce insieme a decine di altri con un procedimento del tutto indolore. Il nuovo giudice era venuto dunque per occuparsi d’altro, dell’ultima cosa che mi restava: la mia anima, rifiutata dall’Angelo di San Pietro e dal Luogotenente del Diavolo.  
“Guardi che sono morto, sa – lo avvertii per correttezza.
“Lo so che sei morto, per la precisione sei un morto malriuscito; per questo non ti hanno voluto né di qua né di là, quindi ora sono costretto a prenderti in custodia io.”
Così fu lui che mi si prese, lui, il Decano di zona, borbottando un po’ schifato perché già a prima vista non gli avevo fatto una bella impressione, né come morto né come potenziale fantasma.
Mi esaminò subito, e scoprì ciò che temeva: non sapevo attraversare i muri, non sapevo apparire e sparire, non sapevo appollaiarmi sopra le tombe o trascinare catene in soffitta, non avevo la minima idea di cosa dovesse saper fare un fantasma e soprattutto di esserlo diventato io stesso.
“Ho già bell’e capito: come fantasma non servi a nulla”.
Cercai dentro di me un minimo di orgoglio e gli assicurai che ce l’avrei messa tutta per imparare, ma lui la sapeva più lunga.
“Lascia perdere, sei proprio negato. Guarda solo come sei morto: di spavento! Uno che muore di spavento prima ancora che qualcuno lo tocchi non imparerà mai a terrorizzare nessuno”.
“E allora? – chiesi io, umiliatissimo.
“Allora niente. Trovati un posticino tranquillo e rassegnati. Ti aspetta un’eternità di invisibilità e noia, che ti sarebbe convenuto bruciare all’inferno”.
“Beh, grazie tante, eh – replicai piccato – Non mi avrebbe fatto schifo neanche salire a tripudiare in Paradiso, ma se non mi hanno voluto vorrà dire che resterò qui, e cercherò di non dare fastidio a nessuno. Cosa che peraltro quando ero vivo mi riusciva benissimo”.

(qui la seconda puntata e qui la terza e ultima)