Ho scritto t’amo sulla sabbia

Volevo postare qualcosa prima di andare a cena, dopo una giornata di lavoro intenso, le solite fisime come di chi si sente perduto se non ha lasciato la propria impronta di pensieri nella rete.

Così comincia il post Uno spettro s’aggira per l’Europa pubblicato dall’amico Luca Massaro lunedì scorso. Un blog che non manco mai di leggere, il suo, e che ringrazio perché i suoi spunti sono più che quotidiani. È da lunedì che ci ripenso, che mi trovo pienamente immedesimata in quella urgenza di postare qualcosa la sera, qualsiasi cosa purché tutte le sere o quasi, come a concludere la giornata prima di assolvermi e meritarmi qualche ora di sonno.
Quello che mi chiedevo è perché lui, io e chissà quanti di voi proviamo questa esigenza.
Non tutti i giorni c’è qualcosa di interessante da raccontare o da mettere in discussione; spesso ci soccorre il cazzeggio, che è pratica alquanto terapeutica e rasserenante se entro limiti salutari (altrimenti rischia di tenerti sveglio a sghignazzare tutta la notte; succede, succede).
È il vecchio interrogativo del “perché scriviamo”, esteso al “perché comunichiamo”. Non possiamo farne a meno, verrebbe da rispondere facendo spallucce. Scrivere, scrivono tutti, cani e porci. Comunicare, comunichiamo tutti tutto il giorno, a voce, per telefono, per mail. Anche telepaticamente con chi siamo in particolare empatia.
Ma è “lasciare un segno” il problema. Verba volant, tranne nelle telefonate registrate, e scripta manent, a patto di non bruciare i fogli di carta o di non formattare il computer. Tutto ciò che mettiamo fuori di noi digitando distrattamente o appassionatamente, impulsivamente o compulsivamente, se ne va in giro, in orbita intorno alla Terra, e si stampa negli occhi e nella testa di qualcuno prima che possiamo pentircene e cancellare.
Perché ci permettiamo questo abuso? Richiamare l’attenzione su se stessi è un abuso. È mitomania. O che altro è? Solitudine, forse? Oh sì, spesso. Incompatibilità con la vita reale e ricerca di rifugio in quella virtuale? Sicuro, anche questo.
Per me è scrivere è naturale come bere l’acqua, l’ho sempre fatto. Ho sempre scritto principalmente per me, scrivo le cose che vorrei leggere. Poi non è affatto detto che siano le cose che vorrebbe leggere qualcun altro, ecco perché, prima di internet, le tenevo ben chiuse a chiave. Poi è arrivato internet, così diabolicamente tentatore anche perché ti illudeva di poter restare anonimo, di potertene liberare senza lasciare tracce.
Mica vero. Tutt’al più, è uno strumento attraverso il quale tenti di soddisfare un bisogno ancestrale: quello delle conferme. Scrivo e pubblico, dunque esisto nero su bianco. Qualcuno legge e commenta, dunque esisto anche per lui. Su linee virtuali che misteriosamente si intersecano e a volte misericordiosamente si puntellano a vicenda. Seppure fugacemente, seppure casualmente, seppure perfino ingannevolmente.
Bisogno di sicurezza.
Voglia di tenerezza.
Eccetera eccetera, chiedete agli strizzacervelli che hanno sempre una risposta, solo che sei tu che non la capisci.

Lasciare un segno.
Segni sono le orme di un fossile, impresse nella sabbia che le ère hanno calcificato. Le mie, preferisco siano quelle di due piedi nudi sulla linea di risacca, delle quali, un attimo dopo, non resta che qualche fugace perla di schiuma subito riassorbita dall’onda successiva.
Lasciare un segno a chi? E perché? I segni hanno senso finché sei lì a poterli spiegare, ma se li lasci liberi in orbita chi ti assicura che non verranno letti dalla persona sbagliata o nel modo e nel tempo sbagliato? Non potrai più controllarli, dopo averli liberati. Non ti apparterranno più. Saranno di tutti e di nessuno. Globalizzati e perciò confusi in un gran calderone che non fornisce più indicazioni ma solo borbottii sconclusionati.
I segni che lascio scrivendo sono per me. Vorrei fare in tempo a cancellare tutto, a formattare tutto prima di perdere il controllo su ciò che, comunque e per forza, resterà di me. Non posso assumermi la responsabilità di come verrà letto dopo che non ci sarò più. Dopo che non ci sarò più, non potrò più spiegare a nessuno che, se scrivo, se ho sempre scritto, non è per lasciare un segno ad altri, ma per darne uno a me stessa: il segno che esisto e che sono io, questa qui e non un’altra. Scrivere mi identifica nei confronti di me stessa. Scrivere mi rivela a me stessa. Non penso al futuro, a lasciare un patrimonio di memorie a qualcuno, ma bensì a chiarire ogni giorno il mio presente. Cerco di spiegarmi a me stessa, perché alla resa finale dei conti non ci sarò che io, e in quel momento mi sarà utile poter presentare una giustificazione almeno minimamente plausibile.
Scritta, naturalmente.