Il secchio bucato # 4

Precisazione importante: questo testo NON è un diario, bensì pura invenzione, sebbene qua e là ispirata a piccole esperienze personali. Ho scelto la forma del “diario” solo perché, quando l’ho scritto, mi ha facilitato il superamento di uno di quei molesti blocchi che capitano periodicamente a chi scrive.

Che poi scrivere è una cosa che faccio comunque, va detto, una cosa che ho sempre fatto anche in periodi migliori. Ho scritto storie che qualcuno ha letto, romanzi intendo, e un piccolo numero di persone mi conosce; ciò significa che perlomeno la mia identità di scrittrice, seppure di nicchia, è ben definita anche mio malgrado, e questa è la realtà dei fatti, quella che comunque resterà a sopravvivermi.
Tuttavia credo che una scrittrice vera dovrebbe avere più rispetto per se stessa, e sentirsi tale e comportarsi come tale – e in tutta naturalezza – dalla mattina alla sera: tutte quelle che ho conosciuto, perlomeno, si regolano così. E dubito che sia solo apparenza, anzi sono portata a credere che lo facciano davvero, che sappiano farlo perché sono, semplicemente, molto più brave di me: sicure, indipendenti, presenzialiste. Deve essere un mio errore interno, quello che mi impedisce di sentirmi come loro; oppure, sono loro che possedevano già in partenza la necessaria dose di spavalderia. O autostima, tasto dolente.
Io invece sono una donna che scrive e pubblica, sì, ma – come dire – in nero.
L’ho detto anche a qualcuno che me ne chiedeva: scrivere è il mio secondo lavoro, quello in nero. Addirittura pubblico sotto pseudonimo, per difendermi da qualsiasi forma di visibilità che non sia strettamente necessaria, tanto è vero che moltissimi miei conoscenti, inclusi i vicini, la sarta e la stessa Dorotea, ignorano del tutto che io scriva, e mi pensano esclusivamente per quel che appaio: una casalinga piuttosto riservata, tutt’al più con un background culturale lievemente superiore alla media della categoria.
Il mio lavoro ufficiale, l’occupazione che ho sottoscritto per matrimonio, è pressoché a tempo pieno, e tuttora, malgrado i decenni di allenamento e un sostanziale allentamento dei legami affettivi, riesce a riempirmi di preoccupazioni e responsabilità buona parte della mente e della giornata.
Però io, a questa cosa dello scrivere, ci penso continuamente; mi sveglio di notte, e ci penso. Penso che devo scrivere come altri devono stendere relazioni o costruire case o guidare autobus. Meglio ancora, come i ragazzini che devono fare i compiti di scuola ogni giorno per il giorno dopo. Quest’ultima è la similitudine più azzeccata. Dentro di me c’è un’inquisitrice che controlla se sto ai patti con me stessa, e il patto di scrivere l’ho stretto talmente tanti anni fa che posso ben dire che sia nato con me, con la mia coscienza; ma è un patto in nero, senza salario né assicurazione né sindacati né un pezzo di carta che mi legittimi quando rubo a me stessa del tempo per cercare di onorarlo.
Ma tornando a come sto, e al fatto assodato che sto tutt’altro che bene se non addirittura piuttosto male, negli ultimi giorni ho creduto di toccare davvero il fondo o almeno di vederlo vicino come non mai, e per questo ho deciso di salvare il salvabile ributtandomi nella scrittura. Mi sono detta: dai ragazza, organizzati un attimo, ristabilisci le priorità una volta tanto a tuo vantaggio, molla qualcosa e vedrai che magari neanche se ne accorgono. Mentre mi maceravo nell’afflizione del senso di colpa, la soluzione si è presentata sul calendario, che in verità seguo poco, sotto forma di festività infrasettimanale accompagnata da tempo uggioso – e uggiose anche le intenzioni in generale. Un Ognissanti plumbeo da starsene chiusi in casa senza grilli per il capo, senza picnic tardivi nei giardini, senza clacson di gitanti né niente altro, solo vetri grigi, davanzali piovosi e vuoti, plaid sul divano e lunga sonnolenza per tutti.
Ma non per me.
Infatti sono qui e scrivo, o almeno ho di fronte questa inaspettata opportunità, un pomeriggio senza interruzioni. Quindi scrivo, o meglio scriverò. Devo solo cercare di chi e di cosa scrivere, un po’ come ho fatto fin qui parlando della Dorotea o della signora Livia che fa la sarta.
Il problema adesso è individuare di che altro mi farebbe bene scrivere, per oppormi al mio insistente disagio di vivere, per riallineare quelle due identità in urto dentro di me. I loro profili aggrottati sono il segno di un vuoto di armonia, la condizione peggiore per qualunque creatività.

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