Periferia

Da un quadro una storia:
Mario Sironi – Periferia, 1948

In questo quadro non si vede anima viva. Muri ciechi, palazzoni ciechi, finestre cieche, ciminiere cieche. Un cielo, però, che diffonde su tutto una luce grigio-azzurra da prima mattina, quell’ora in cui nei cortili la periferia accende i suoi motorini, le lambrette, le vecchie fiat, e si mette in arrancante movimento verso la città. Operai, commesse, studenti, donne di pulizia, disoccupati in cerca di lavoro. C’è un autobus volonteroso che si spinge fino a quel remoto capolinea e accoglie gli appiedati, assonnati dopo il caffelatte buttato giù già vestiti, già col berretto in testa, già con la testa al giorno da costruire o da subire, sempre uguale fino alla sera, quando i gesti si ripeteranno all’incontrario. Poche parole, più che altro cenni d’intesa tra il fumo delle fiat e dei motorini che si scaldano. I ragazzi con gli zaini dei libri e le mani in tasca sono chiusi nel loro ultimo sogno e non ancora abbastanza svegli per salutarsi, affiancarsi al compagno qualche metro più avanti. Aspettano di svegliarsi in città, nelle sue luci e nei suoi rumori, nella sua fretta che incalza e mette tutti in riga, ciascuno al proprio posto nell’ingranaggio. Senza via di fuga fino a sera. Quando tornano alla spicciolata, un po’ più svegli ma non meno stanchi, un po’ più leggeri ma non meno irrisolti. Alcuni hanno imparato qualcosa in più, o guadagnato qualcosa in meno, o preso un’altra arrabbiatura o incassato un’altra delusione. Tornano per cenare le solite cene e per dormire i soliti sonni, divisi da pareti sottili come in un unico dormitorio. A volte però succedono piccoli miracoli, di quelli che sono possibili ovunque, anche in periferia, a patto di avere vent’anni.

Scendono al capolinea, un piazzale con erbacce e una cerchia di palazzoni popolari, in fondo un tramonto che comincia poi si ferma di nuovo, e resta lì.
“Guarda che cielo…”
Per guardarlo ci vogliono mani in tasca e baveri rialzati, è il modo migliore. E un sorriso assorto.
A lei sembra il cielo di…
“Roma, mi viene in mente Roma. Gli stessi colori. Sei mai stato a Roma?”
“Certo che no, e tu?”
“Certo che no”.

(la fabbrica, la tuta blu, le cuffie. Lui si alza presto per prendere il primo caffè e il primo autobus. Siede dietro il guidatore e lo invidia, lui che non ha mai viaggiato)

“Ma quando arriva ‘sta primavera…”
“Domani”.
“Che bello! Ma dici davvero?”

(oggi al discount le si è inceppato il rotolino di carta della cassa. La gente in coda sbuffava. Lei si è fatta aiutare da una collega perché l’ansia le faceva sudare le mani. Poi ha continuato, ma era arrossita)

“Neanche un bar per bere qualcosa”.
“Vuoi un ice-tea?”
“Eh, grazie. Ma tu?”
“Metà per uno, dai”.

(i ragazzini e un pallone in un cortile. Lui li guarda e intanto si dimentica di bere e si ricorda la fabbrica. Anche lì hanno un pallone per la pausa pranzo, e i ragazzini per giocarci sono uomini cresciuti a stento. È il momento di tirare su un breve fiotto dalla cannuccia e passare la mano)

“Mi stavi guardando?”
“Pensavo che magari ti piacerebbe andare a giocare con loro”.

(visto da dietro lui è così giovane, assomiglia a suo fratello. Giocavano a nascondersi ma nel piccolo appartamento c’erano pochi nascondigli. Di solito la trovava appiattita fra l’armadio e il termosifone, e dopo un po’ non c’era più gusto a fare quel gioco. E dopo un altro po’ avevano smesso di essere bambini, e si parlavano meno)

“Io a scuola ero brava in italiano. Quando ero alle medie hanno messo un mio tema sul giornalino di classe”.
“Ah. Io da grande volevo fare il meccanico”.
“E invece?”
“E invece sì – sorride scalciando un sasso – Tu, cosa volevi fare? – la guarda dritto in faccia.
“E chi lo sa? – abbassa gli occhi sulle scarpe che smuovono adagio il ghiaino – La professoressa. Forse”.
“E invece? – è serio.
“E invece no – lei ride sincera.

Ma quel cielo tra i palazzi e i pochi alberi ancora spogli… quel cielo non cambia ancora. È una lavagna azzurra e grigia con disegni di nuvole nebbiose in orizzontale, e dietro un po’ di arancio soffuso che non si spegne. Un cane rasenta i muri e sparisce dietro un angolo. Una finestra si accende per qualche istante, poi qualcuno spegne la luce.

“Ci vai al cinema?”
“Oh sì, il sabato, quasi sempre”.
“Allora non vai a ballare. O ci vai la domenica?”

(la domenica c’è da fare. Bisogna aiutare in casa, il papà è di cattivo umore e ha sempre quel mal di testa. Le piacerebbe ascoltare musica mentre riordina la sua stanza, ma non si può disturbare. La domenica non le appartiene.
Lui invece si alza tardi, vergognandosi della sua bocca amara. A pranzo i suoi sospirano che devono andare a trovare la nonna. Alle due è già di sotto a smontare il motorino per vedere cosa ne vien fuori, perché alle cinque gli serve per andare al bar con gli amici)

“Quanti anni hai?”
Lei glielo dice. Gli stessi suoi.
Dove abiti, ce l’hai un ragazzo, e soprattutto cosa ci fai qui?
Queste cose no, non gliele chiede, ha un po’ paura di saperle.

Dalla parte opposta del piazzale la strada va in lieve discesa. Si sente un altro autobus che arriva a dare il cambio, e il primo riparte. I pochi che scendono si infilano in cancelli diversi senza guardarsi.
Forse adesso il tramonto ha ricominciato, ma impercettibile.
Tra poco le famiglie si ritroveranno nelle cucine, i bambini con le mani lavate e le ginocchia no, una pentola che fuma in mezzo al tavolo.
Colpa del cielo che sta scendendo, come tutte le sere. Stasera forse un po’ più piano delle altre.

“Da quanto tempo ci conosciamo?”
Con un mezzo sorriso lei guarda l’orologio:
“Da… da adesso, credo”.

Il pomeriggio si è disteso definitivamente su una riga bassa di ardesia. Strani ritmi, quelli del Tempo. A seguirli ci si perde, o a volte ci si trova, da qualche parte di un universo comunque improbabile, di solito alla sua periferia. Odore di diesel e calicanthus appassiti ai bordi della città, mentre insieme alle finestre si accende un lampione incerto.
A lui viene in mente solo una frase, e vorrebbe tanto che fosse sua:
“Sapessi.
Sapessi com’è strano”.

4 thoughts on “Periferia

    • In realtà questo pezzo si giustifica più che altro per la presenza di quel quadro, per me una delle più belle periferie di Sironi. Grazie, SM, sei sempre gentile e sensibile.

  1. io sono perdutamente innamorata di come scrivi.

    (e anche di questi post, per la verità. che mi riportano agli esercizi del corso di scrittura creativa… quanto tempo… ma forse non è tutto perduto. forse…)

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