Io e lui

– Cosa fai, vai a letto?
–  È quasi mezzanotte, voglio leggere un’oretta.
– E mi spegni?
– Beh per forza, come sempre.
– Un po’ mi dispiace.
– Dai che fra poche ore ti riaccendo. Sei, sei e mezza massimo.
– Sì ma io intanto cosa faccio?
– Niente. Dormi anche tu.
– Hai mai pensato di lasciarmi in stand by?
– No, perché russi.
– È la ventola. Sarà un anno che non me la pulisci.
– Non è solo la ventola, sei anche diventato lento. Stai invecchiando. Perciò russi.
– Ho solo tre anni. Vuoi già cambiarmi?
– Se diventi ancora più lento, ci potrei pensare.
– Sono lento perché sono strapieno. Hai idea di quanta roba ho dentro?
– Sei lento perché stai invecchiando.
– E stai invecchiando anche tu, perché sei diventata una accumulatrice compulsiva.
– Tu leggi troppo.
– Senti chi parla.
– Comunque preparati perché adesso ti spengo.
– Di’, ma ci hai pensato a quante cose conosco io di te?
– Cos’è, mi stai ricattando? Guarda che mi ci vuole un attimo a formattarti.
– Non lo faresti mai.
– Scommettiamo?
– Lascia stare, hai già perso la scommessa.
– Ti comprerò un hard disk nuovo, va bene?
– Esterno, spero.
– Esterno, esterno.
– Non meno di un tera, però.
– Ovvio. Ed è ancora poco. Guarda che costa, eh. Lo faccio per te, sennò mi stressi.
– Grazie, ora va molto meglio. E posso chiederti un’altra cosa?
– Una ancora e poi basta, eh?
– Sai quel programmino nuovo che mi hai dato da mangiare, quello per contare gli accessi al blog? Mi dà prurito. Mi gratto dappertutto. Non è che potresti togliermelo di dosso?
– Ah quello. Dà fastidio anche a me, se devo essere sincera. Ma vedo che lo hanno tutti, e nessuno si lamenta. Sei tu che sei un frignone.
– E poi ci sarebbe quell’immagine sul desktop che mi ha un po’ stufato…
– Quale, Snoopy? È vero, è un po’ che è lì. Tu cosa vorresti, al suo posto?
Questa, se non ti dispiace troppo.
– Ah, Melusina! Si può fare.
– Il fatto è che me ne sono innamorato.
– Addirittura.
 – E tu, mi ami?
– Dico, sei fuori?
– Ripeto: mi ami? Sii sincera.
– O insomma, ti amo ti amo… diciamo che tengo molto a te.
– E non puoi fare a meno di me, vero?
– Non posso fare a meno di te. Ecco, l’ho detto; sei contento adesso?
– Allora mi ami!
– Basta, buonanotte.
– Aspetta aspetta, ancora un attimo, ti prego!
– … uffa…
– Ti posso fare un’altra domanda? L’ultima, lo giuro.
– L’ultima.
– … sognerò?

Fragile

Fin da piccola mi è piaciuto immaginare un’anima negli oggetti inanimati. Le altre bambine davano un nome alle loro bambole, io invece battezzavo il macinacaffè o il fermacarte. Oggetti di tutti i giorni che usiamo quasi senza più guardarli ma dei quali non sapremmo fare a meno.
Sull’anima delle cose inanimate ho scritto altri racconti. Uno è presente anche su questo blog, qui.

Sto andando a pezzi, e nell’ultima frazione di istante prima della fine rivedo in un flash tutta la mia vita.
All’inizio ero sabbia e fuoco. Elementi primordiali, carichi di presagi.
Il soffio e le mani di un uomo sapiente, in un antro buio e ingombro di strumenti che parevano di tortura, mi diedero la vita e la forma con gesti di vertiginosa velocità e precisissima calibratura. Il ferro mi  plasmò in un’armonia priva di incertezze, guidato da occhi che avevano appreso da generazioni a creare la bellezza e la lievità. Divenni vaso di vetro, vetro sottile e musicale, con un ventre appena sagomato per garantirmi l’equilibrio e un collo slanciato che finiva con ondulate sfrangiature a corolla, come di fiore nell’atto – ancora incompiuto – di sbocciare. Altri fiori mi nacquero sui fianchi dalle mani delicate di una pittrice che si consumava la vista in un retrobottega, fra boccette luminescenti e pennellini di precisione. Mi inghirlandò di tralci di rose antiche dalle sfumature fanées, come se le mani di quella donna silenziosa e assorta ne avessero accarezzato i petali fino a farli appassire come succede agli amori tristi.
Nella vetrina di una botteguccia intima e di ottimo gusto condivisi qualche settimana di attesa con altri oggetti di costosissima bellezza e inutilità. Quando uno di noi se ne andava, avvolto in carta velina e affidato alle mani di un esigente collezionista, noi rimasti ci chiedevamo quale sarebbe stato il suo destino e quale il nostro. Il mio sembrò compiersi un pomeriggio d’inverno quando mi volle per sé una signora piena di grazia e di soldi, il viso luminoso di bella donna invecchiata con stile. Ricorderò per sempre il suo leggerissimo profumo e la sua classe. Negli anni che passammo insieme, io riuscii ad esprimere tutta la mia vocazione alla bellezza, perché ne ero circondato. Posato su un tavolino da tè, osservavo tutt’intorno oggetti squisiti che riflettevano l’amore per l’arte, dai quadri riposanti alla pareti alla piccola collezione di argenti inglesi al delizioso scrittoio Luigi Filippo e a mille altri particolari studiati e amati e ricchi di memorie. Assistevo estasiato ai gentili rituali dell’ospitalità quando vecchie amiche venivano in visita  portando minuscoli pacchetti di dolci oppure fiori destinati a me. La sera ricambiavo i bagliori di una lampada d’ottone nel cui cono di luce la mia cara compagna si intratteneva a leggere, mentre una pendola, in un altro punto della casa, batteva sommessa un ritmo rallentato apposta per dilatare quel nostro tempo intimo e felice.
Poi vennero anni bui. La notte dalle imposte non filtrava più la luce del lampione, ma il selciato a volte rimandava echi minacciosi di passi marziali. In casa cominciarono a sparire oggetti, i più preziosi e forse meno amati, e a diminuire le visite così come il tè, i pasticcini, i miei fiori freschi e i sorrisi delle signore impellicciate. Sparirono le pellicce, sostituite da pastrani grezzi e scarpe scadenti. Il cielo certe notti rombava, ma non erano tuoni bensì bombardieri. La mia cara compagna era diventata più fragile di me, e da tempo si copriva di scialli il petto e le spalle smagrite. Tossiva. Cercava il respiro e lo trovava solo a letto, in un riposo forzato ogni giorno sempre più inutile. Una sera si addormentò sulla poltrona, e io lì accanto fui l’ultimo a farle compagnia e il primo, alle luci dell’alba, a sapere che era morta.

Fu in una valigia piena di stracci e altri oggetti depredati che giunsi nella baracca in mezzo al bosco dove i ladri e gli sciacalli di guerra  nascondevano i loro bottini in attesa di tempi migliori. Finii sotto uno strato di paglia ammuffita insieme a cornici dorate, cucchiaini d’argento, orologi fermi, anelli di fidanzamento, stole di volpe, statuine di Sèvres, spille con brillanti, perfino un paio di incunaboli, forse contraffatti. Per mesi non successe niente; il cielo sopra di noi era fuori dalle rotte dei bombardieri, oppure la guerra era finita ed erano morti tutti, ma noi non potevamo saperlo. Una tabacchiera cesellata non smise un solo giorno di gemere per le sue ammaccature; l’icona di una madonna nera rubata in una chiesa, invece, non si degnò mai di scambiare con gli altri nemmeno qualche osservazione sul tempo o sulla giustizia divina, che a tutto avrebbe posto rimedio. Io ero taciturno perché non mi era ancora riuscito di metabolizzare il mio lutto.
La mattina che vennero a riprenderci, erano in due, le facce scure e indurite dalla voglia di litigare. Infatti litigarono aspramente mentre si spartivano ciò che era rimasto delle loro ladrerie, e un messale antico con la rilegatura incrostata di gemme si squartò fra le loro mani che se lo contendevano. Io, avvolto in una vecchia sciarpa puzzolente, finii in un sacco insieme ad altri oggetti oltraggiati e più morti che vivi, e rividi la luce solo il giorno dopo, nel retrobottega di un rigattiere che mi spolverò alla meglio e mi mise con malagrazia su uno scaffale straripante di cianfrusaglie in fondo alla sua botteguccia buia.
Da quello squallore mi salvarono, ma dopo interminabile attesa, le mani pallide e artritiche di due vecchie suore alla ricerca di qualche arredo di poco prezzo per la loro cappella semidistrutta dalla guerra. Con monacale pazienza e perfezionismo mi ripulirono fino a farmi tornare un sorriso mesto ma luminoso, e con trepidazione mi dedicarono all’altarino di una madonna dolente che per gli spostamenti d’aria aveva avuto un braccio spezzato e poi riattaccato con industriosi tasselli di legno. I bimbi dell’asilo mi portavano fiori e le nonne con i loro fazzoletti neri in testa sgranavano rosari e requiem in ginocchio davanti a me e alla mia nuova Signora. Ora potevo dirmi in pace e al sicuro, ma i bei ricordi e quelli brutti mi dolevano ancora, e le fiammelle delle candele, la notte, mi davano i brividi.
Un inverno venne un freddo così forte e persistente che l’acqua gelò nei tubi, i tubi si spaccarono e la casa delle suore rimase senza riscaldamento, né i soldi per le riparazioni, ché già c’erano troppi debiti e troppo poche offerte. Le religiose furono evacuate e l’asilo fu chiuso in attesa di finanziamenti. Il vescovo fece mettere all’asta il poco che si poteva, ma non si presentò nessuno. Giusto il parroco si aggiudicò un Cristo per la sacrestia, ma a prezzo simbolico, e io lo vidi staccare da sopra l’altare e trasportare fuori come un ferito, un malato, o un morto. Invece stupì tutti il vecchio professore di Latino e Greco, in pensione da tempi immemorabili, che dopo essere stato un mangiapreti per tutta la vita si stava ora verosimilmente preparando l’anima al giudizio finale e offrì una cifra non indifferente per il restauro in cambio di una blanda assicurazione per l’aldilà. In omaggio per la sua inattesa generosità, accettò un piccolo dono, e quel dono fui io.
Mi portò a casa sua e mi fece posto fra i suoi libri, in uno studiolo stipato di ricordi e odoroso di pipa. Ci passava molte ore, leggendo e scrivendo; a tratti si assopiva con il mento fra le mani, poi si risvegliava e si affrettava a ripulire gli occhiali con un enorme fazzoletto. Dalla finestra vedevo gli alberi di un vecchio giardino e udivo tubare tortore. Il professore era un uomo sereno ma la sua compagnia non valeva molto. Non mi guardava mai. Non comunicava. Mi aveva semplicemente e distrattamente aggiunto alla sua collezione di ricordi e di regali, e forse mi usava per riempire uno spazio vuoto che gli avrebbe trasmesso un senso di incompiutezza e di disarmonia. Mi affezionai ugualmente al sentore di pipa e ai ritmi della casa. Due volte la settimana una signora anziana in evidenti legami di parentela con il professore provvedeva alla spesa e al bucato. Il venerdì sera, dopo aver chiuso l’ambulatorio, passava il medico per misurargli la pressione e fare due chiacchiere prima di cena. Tutte le mattine il professore usciva in passeggiata e tornava con il giornale; a volte parlava da solo a voce alta commentando gli incontri che aveva fatto per strada, con il sindaco, con il geometra, con la vedova di un collega. Era tutto sommato un galantuomo, purtroppo però molto in là con gli anni, e io sbirciando le sue caviglie gonfie e il colore scuro delle sue labbra temevo che presto mi avrebbe lasciato anche lui.

Invece adesso so che andrà diversamente. So che non gli sopravvivrò. Io che sono sopravvissuto ai bombardamenti, alla perdita della mia amata Gentildonna, allo squallore di una tana di ladri, alla promiscuità con le carabattole di un rigattiere ignorante, al gelo di una madonna senz’anima, vedo chiaramente la mia fine inevitabile riflessa negli occhi pieni di malignità di un gatto, un gatto entrato non so spiegarmi come in questo tranquillo studiolo proprio nell’ora della passeggiata del professore. Un gatto sgusciato da una porta lasciata aperta per distrazione e deciso a esplorare il nuovo territorio e a riportarne un trofeo.
Mi ha già puntato, e la sua mente ha già eseguito tutti i calcoli per effettuare con successo e in sicurezza il balzo silenzioso che gli farà raggiungere il mio scaffale. L’istante della decisione glielo leggerò negli occhi, nell’impercettibile fremito delle sue vibrisse. Non ho scampo. Di me non resteranno che i coc

Il corrimano

corrimano

Sono qui – sostenuto in obliquo da tre supporti d’ottone brunito distanziati il giusto, io di legno scuro di noce e i miei due pomoli torniti che mi delimitano – sono qui con la mia vocazione alla solidità per un incarico di fiducia: fare il corrimano.
Passo molto del mio tempo a osservare, forse un po’ ottusamente, la parete di fronte. È bianca. Dal soffitto pendono tre faretti collocati con giudizio. Illuminano i gradini e accendono il seppia e l’avorio di quattro stampe antiche, incorniciate di scuro, in salita verso il pianerottolo. Una calligrafia arcaica, inclinata, compiaciuta, indica, fra molte iniziali superfluamente maiuscole, i rispettabili nomi delle chiese rinascimentali che abitano quei quadri, e personaggi mantellati e piumati che percorrono i sagrati come attori su un palcoscenico inciampano i loro scarpini appuntiti (con le fibbie, eh, con belle fibbie in evidenza) sulle più alte fra le lettere di sotto. Sulle elle e le ti e soprattutto le emme, più maiuscole di tutte, delle Madonne e delle Marie. Santa Maria Formosa, Madonna della Salute, Madonna dell’Orto. La gi di San Giacomo in Orio si impiglia nello strascico di una donna con un cesto fra le braccia. I tratteggi sulle facciate sembrano pioggia invernale, e anche i cieli sono ondosi di nuvoloni possenti. Severi segnali della Divinità, direi.
Sul pavimento, marmo amaranto e antracite, sono rimasti conficcati due anelli d’ottone per ciascun gradino, da quando – ai bei tempi – erano percorsi da una passatoia di velluto rosso brillante. Poi sono arrivati i bambini della casa, tre uno dopo l’altro, e sotto i miei occhi troppo spesso li vedevo inciampare con le loro pantofoline irrequiete. Allora i grandi l’hanno tolta. Dicevano, oltretutto, che ora si macchiava troppo facilmente. Fango del giardino, capite, e schizzi di aranciata. Un marmocchio, disperato per i fatti suoi, una volta ci è rimasto seduto a strepitare un capriccio per così tanto tempo che gli è scappata la pipì e l’ha fatta proprio qua, davanti a me, sul velluto della corsia di famiglia. Epperbacco.
Poi però c’era anche un altro buon motivo: gli occhi del nonno, che non ci vedevano più bene, e lui sì che sbagliava i gradini e ci scivolava di brutto, quando saliva a letto la sera. Una volta l’ho salvato io: mi si è aggrappato – un po’ a casaccio devo dire – con una mano che pareva forte ma era diventata, nel tempo, maldestra, e per un pelo ha evitato di cadere male, molto male. Gli si è gonfiata solo una caviglia, per fortuna, ma ce n’è voluto, per riprendersi. I grandi per parecchi giorni hanno fatto su e giù in camera del malato con vassoi e ristori di varia natura, e soprattutto al ritorno scendevano le scale strisciandomi con una mano tutto fino in fondo, mentre sospiravano, o talvolta sbuffavano sottovoce. Anche perché capitava che a metà discesa un campanello li costringesse a fare dietrofront e risalire, e allora si giravano sul gradino col piede ancora sollevato e cambiavano direzione e anche la mano con cui mi si appoggiavano. In certi momenti mi sembrava proprio di essere io a tirarli, io fermo e inchiavardato, io che non ho mai visto cosa c’è oltre la porta del pianerottolo.
Di giorno c’è più luce e viavai: vedo gente entrare dal portoncino e attraversare l’ingresso, per passare in altre stanze la cui visuale è fuori dalla mia portata. In una di quelle ci deve essere un pianoforte, che ogni tanto sento suonare; del resto, ricordo di averlo visto arrivare in casa molti anni fa, proprio nei giorni in cui stavano fissando le viti che mi sostengono e i pavimenti erano invasi di casse e cartoni da cui continuavano a uscire (e a essere trasportati in giro, di qua e di là, senza mai fine) oggetti di ogni peso e dimensione che si lasciavano dietro, per terra, cartacce, spaghi e imballi. Una donna li raccoglieva inutilmente e li spostava altrove, poi ricominciava scoraggiata e tirando su col naso; la stessa donna, ancora raffreddata e brontolona, che anche oggi mi spolvera e mi lucida con forza esagerata tre mattine la settimana. Mi spruzza con una cera acquosetta dall’odore stucchevole e la stende con un panno sulle ditate dei miei protetti. Con un piumino blu e rosso risistema anche le nuvole e i finestroni ciechi delle antiche chiese, liscia le sottane delle devote popolane e spazza i gatti e i piccioni dai sagrati; poi, stirando un braccio fino a sentirsi in diritto di gemere, carpisce con le piume estreme una ragnatela a triangolo tra due faretti. Per fortuna a mezzogiorno, tutti i mezzogiorni, se ne va. È così deprimente.
Di notte, un po’ di luna (un filo sotto l’uscio, oppure è il lampione). Quando dormono (i grandi un sonno da grandi, i bambini uno da cartoni animati e il nonno come un curato di campagna a riposo), qua per un po’ non passa nessuno. Resta accesa, fioca, solo una lucina notturna dove il battiscopa inizia a salire la scala, e la casa respira sommessa col ronfare dei cespugli che si strofinano fuori, contro i muri. Nelle notti invernali di stelle, quelle freddissime e serene sotto Natale, capita di veder tremolare nel buio il luccichio dei miei pomoli e delle scaglie dorate nelle venature del marmo, là in quella striscia incerta di pavimento presso la soglia, fessura da cui si spande un bagliore latteo di plenilunio.
Giorni e notti e stagioni e i passi e le voci della mia gente delimitano la mia immobile quiete, la mia vita di legno, come il legno tiepida e rassicurante, amica fedele delle loro mani.
Resto fermo, e ben dritto e ben solido, così come sono di natura e come mi hanno voluto, resto fermo qui io, e mi pare di non essere invecchiato gran ché. Posso continuare il mio lavoro ancora per molti anni, forse generazioni. Posso essere, e lo sarò, il bastone di molte vecchiaie.