Diari da Magdenbad, cap. 3

Manet_spiaggia

Mi sono svegliata tardi, e forse proprio a causa dell’insolito silenzio. Nella mia casa di viale Granduca Teodoro, la mattina si sentono passare per tempo le prime carrozze che fanno risuonare il selciato; d’inverno, mi è familiare il raschiare dei badili degli spalatori municipali, che liberano la strada dal ghiaccio quando è ancora buio.
Qui, nulla di tutto ciò.
Mi sono svegliata quando il mio corpo pesto dal viaggio si è sentito sufficientemente riposato, anzi disposto a riaccostarsi al cibo, a una colazione confortante. Ho tirato il campanello accanto al letto e Lilia è arrivata quasi subito, come fosse in attesa nel corridoio. Sono rimasta sotto le coperte finché ha aperto le imposte, e subito dopo mi sono alzata per guardare fuori, ben avvolta nella vestaglia pesante dato che la stufa si era spenta. La giornata era grigia, con un cielo denso e basso; grigio e quasi immobile anche il mare, ma così grande, così immenso e deserto oltre la spiaggia grigia anch’essa. La balconata impedisce di vedere di sotto, dove so esservi un cortile con panche e tavolini in pietra; si vedono tuttavia le cime spoglie di alcuni alberi e il cancello che dà sulla strada, sul lungomare. Un carretto è giunto ed è entrato, forse di provviste; alcune voci mi sono arrivate indistinte dal pianterreno.
Avevo fretta di scendere anche io; ho dato sommarie istruzioni a Lilia circa il mio guardaroba (mi aveva preparato un abito inadatto, ma non conosce ancora le mie preferenze) e appena possibile ho lasciato la mia stanza, non prima però di aver preso nota dell’azzurro dei suoi occhi, piccoli e puntuti al di sopra di forti zigomi di campagna. Ieri sera, nella scarsa luce del corridoio, mi ero fatta del suo aspetto un’idea gradevole ma approssimativa. Sulla soglia, mi sono girata per una domanda che mi è venuta spontanea:
“Ma quel Vlad, è forse tuo padre?”
No, non è suo padre, né sono in alcun modo consanguinei, anzi provengono da due paesi diversi del circondario.
Le ho voluto chiedere – mi è sembrato essenziale – anche l’età, e ho appreso che ha diciassette anni, più o meno quelli che mi auguravo; né bambina né donna, cioè sufficientemente plasmabile senza il rischio di esaurire le mie poche energie. Mi aspetto, da questa figliola, una certa luce di intelligenza, pari almeno alla buona volontà che già sembra dimostrare. Credo che avrò tutto il tempo per conoscerla ed eventualmente spronarla a migliorarsi.
Di sotto mi aspettava già Dimitri, rivestito in abiti da città ma con certe borse sotto gli occhi, certe borse… Mi ha baciato la mano con sollievo nel rivedermi, e gli ho fatto confessare le sue difficoltà ad addormentarsi e il molesto indolenzimento che gli tormenta ancora le ossa. Il mio povero amico non dispone di grandi risorse di adattamento, in questo periodo, e gran parte del mio affanno consiste nel vegliare sulle sue fragilità con materna premura, che lui del resto ricambia con una commovente devozione. La saletta era invasa da una luminosità lattiginosa, e le nostre voci parevano echeggiare nello spazio fra i tavoli vuoti; se vi siano altri ospiti, nella locanda, non ho ancora avuto modo di appurare, anche se ritengo che la stagione non sia matura per altri villeggianti. La colazione ci è stata servita dallo stesso Vlad, quell’uomo grande e indecifrabile, con gesti sorprendentemente esperti e delicati; Rubin e sua moglie non erano nei paraggi, forse occupati a dirigere gli inservienti nelle faccende quotidiane, eppure il nostro assistente non ce ne ha fatto sentire la mancanza. Comincio a pensare che abbia almeno un paio di ottime qualità, una delle quali è la riservatezza e l’altra, indubbiamente, l’efficienza. Per esempio, sa quando rendersi invisibile e quando invece intervenire: non ha interrotto la nostra conversazione ma nemmeno ha mancato di tenere d’occhio le nostre tazze e i nostri piattini, rifornendo entrambi di latte e burro prima che ne chiedessimo dell’altro e facendosi da parte subito dopo. Quando ci siamo sentiti sazi, ci ha colti lo smarrimento di programmare il seguito della giornata, e ci guardavamo l’un l’altro sperando in qualche incoraggiante suggerimento; è stato allora che Vlad è ricomparso rispettosamente, annunciando con voce sommessa che il calesse per una visita in città era a nostra disposizione, se lo desideravamo. Io avrei preferito una passeggiata a piedi, seppure breve, ma per riguardo alle rotte ossa di Dimitri ho accettato di buon grado.
Nell’uscire sul cortile, mi ha colpito il confronto fra le impressioni di misteriosa ampiezza che avevo riportato ieri sera nel buio del nostro arrivo e le dimensioni più limitate degli spazi che circondano l’edificio; il cortile permette un certo movimento di carrozze e comprende una zona appartata fornita di sedili, ma è chiuso fra piccole costruzioni basse con tutta l’aria di essere magazzini di attrezzi o di provviste. L’insieme, ai primi di marzo e per di più in una giornata in cui il sole stenta, ha un’apparenza brulla e provvisoria, seppure mitigata dalla vivace presenza di tende ricamate di rosso e di ricchi vasi di ciclamini di fuoco alle finestre.
Con una coperta sulle ginocchia, abbiamo imboccato il lungomare in direzione del centro, presto raggiunto; il viale è affiancato da ville chiuse per l’inverno, dai giardini folti e pietrificati nell’abbandono stagionale. La piazza principale è invece animata e molto festosa, delimitata da palazzine affrescate a colori vivi e decorate da cornicioni fantasiosi; vi circolavano alcune piccole carrozze e dei carri di merci, e un certo passeggio di persone prese dalle loro consuete occupazioni o da incontri di svago. Vlad, senza dilungarsi in eccessive spiegazioni non richieste, ci ha indicato il Municipio imbandierato, più simile a una scuola, e la Cattedrale di Sant’Ermagora, pregevole per biancore e proporzioni, cinta da una cancellata di ferro un po’ funereo con lucide punte dorate su ogni asta. Sulla facciata, una semiluna a mosaico tutto verde, azzurro e oro, che dovrebbe rappresentare un pescatore alle prese con i flutti del mare e gli abitanti delle sue profondità. Di fianco, mi sono compiaciuta nell’individuare la sede della biblioteca, che ho appreso talmente fornita da essere disposta su due piani, più un vasto sottotetto che funge da deposito.
La gente del posto ha un suo modo di vestire che si fa notare; le donne portano fazzolettoni di grossa lana ricamata sul capo – laddove gli uomini si proteggono con giri di sciarpa a turbante – e prediligono fitti disegni orientali per le loro sottane bordate curiosamente di frange. Due signore di ceto superiore, abbigliate invece secondo la moda della capitale che mi è familiare, si sono infilate frettolosamente in una sala da tè, fuori dalla quale si sono disposti, forse avendole occhieggiate, due smilzi ufficiali dell’oziosa guarnigione situata in collina, che, appoggiandosi alle else dei loro ornamentali spadini, parevano esibire il piacere della loro spavalda giovinezza e dell’eleganza delle loro uniformi. Ho pensato con pena al mio lontano fratello Tomasz, e alla corpulenza che ha preso il posto del fascino longilineo e spirituale della sua giovane età; temo da tempo che le sue compagnie femminili siano frutto di scelte sconvenienti, per non dire insalubri, ma non ho alcuna presa su di lui per ridurlo a riflettere sulla piega mortificante che ha impresso alla sua vita.
Esattamente di fronte alla Cattedrale, dall’altro lato della piazza, si apre larga la strada di negozi e ristoranti che sbocca sul mare; in fondo si intravede un portentoso arco di ferro battuto sul quale, in estate, si avvolgono e ampiamente fioriscono – ho saputo – rigogliose piante rampicanti efficientemente curate da giardinieri municipali. Ci siamo fatti accompagnare fin là, preparandoci in ispirito a vedere da vicino il mare che ci è stato promesso come fonte del nostro benessere; laggiù l’aria si è fatta più aperta e lievemente mossa, ma di una temperatura mitigata e soprattutto pervasa di un profumo stimolante, come di cose vive, di fresca novità. Dimitri sembrava aver dimenticato le sue ruggini nello scendere di buon grado, e con passi sghembi ma felici si è avviato verso la spiaggia, lasciandomi indietro al limitare della sabbia nell’imbarazzo di scoprire che le mie scarpe da città non erano il meglio per avanzare su quel terreno friabile e umido. Ho dovuto ammettere con me stessa che Lilia aveva ragione, stamattina, nel propormi un completo più adeguato alle necessità del posto. Sì, penso a lei con gratitudine e meraviglia; penso a lei come a una persona che mi sarà molto utile e vicina. E osservando l’intensità dello sguardo col quale Vlad, in disparte ma vigile, teneva d’occhio la maldestra performance dell’entusiasta Dimitri, ho provato anche per lui un moto confortante di affetto e fiducia.

4 thoughts on “Diari da Magdenbad, cap. 3

  1. la prosa di questi diari mi fa venire in mente l’atmosfera di alcuni romanzi di Edith Wharton. ciao, brava scrittrice

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