Diari da Magdenbad, cap. 4

Manet_spiaggia

“Mitija!”
Il richiamo, soffocato, mi è uscito intrattenibile nel vedere il mio amico allontanarsi verso la riva con goffi saltelli che gli rendevano instabile il colbacco; laggiù in fondo, dove ormai con l’aria del mare nelle orecchie non poteva sentirmi, si è messo a braccia larghe quasi ad afferrare la vastità, ed è veramente vastità ininterrotta, niente a che fare nemmeno con i maggiori slarghi del nostro fiume, del quale solo la nebbia più fitta impedisce a giorni di vedere la sponda opposta.
Vlad ha colto tutta la mia preoccupazione e mi ha lanciato uno sguardo rassicurante, poi si è diretto con passi posati verso il suo protetto per tenerlo d’occhio più da vicino, ma senza interferire con quel suo momento di beatitudine; si è fermato a metà strada fra me e lui, le gambe ben piantate, le braccia conserte, ed è rimasto a sorvegliarlo mentre lo guardavamo entrambi (e io trasecolavo) passeggiare agitato in su e in giù giusto sulla linea di risacca, e talora chinare la sua dolorosa schiena per raccogliere qualcosa dalla rena molle. C’era qualcosa di miracoloso in quell’improvvisa vitalità, una folata d’aria forte che snebbiava le paure e i vincoli. Se non ricordo male, è stato proprio in quel momento, mentre i miei piedi cominciavano a intirizzire negli scarpini lucidi e le mani si intrecciavano più nervose sotto il manicotto, che la luce ha cominciato a cambiare, a schiarire, a disperdere il tono uniforme del grigio mare e a infondergli l’inizio di qualche incerto baluginio. Alle mie spalle, la densità nuvolosa del cielo si stava smagliando lungo l’arco delle colline, e qualcosa – vetro o metallo – dava i primi scintillii sui tetti della guarnigione. I raggi di un sole modesto ma franco mi hanno raggiunta, e il senso del tepore si è impadronito di me in pochi istanti, sciogliendo un altro po’ del gelo che mi porto dentro.
Quando si è deciso a tornare, Dimitri aveva le guance più rosee e un sorriso beato, ma le scarpe, Dio mio le sue scarpe! Infangate come quelle di un contadino, e quel che è peggio bagnate. E lui, buffo e quasi inorgoglito, si è appoggiato a Vlad per mostrarmi, una dopo l’altra, le suole fradice come un trofeo.
“Dovresti procurarmi qualcosa di più adatto – ha dichiarato al suo attendente – Un paio di stivali come i tuoi, robusti, che tengano caldo. Non importa che siano belli; mi basta che siano comodi”
“Imbottiti, allora. So dove trovarli – Vlad ha assentito con fare molto serio. Senz’altro approva che un cittadino esprima un po’ di buon senso.
Poi, rientrando in calesse, Dimitri continuava a parlare (“Ah, Aglae, sapessi!…”), a descrivermi l’ebbrezza provata, il fruscio dell’acqua, il suo buon odore, e cercava di convincermi della vitalità trasmessa dalla mollezza della rena sotto i passi, come di una creatura vivente, come di creta plasmabile per diventare forma e movimento. La sua era una piacevole eccitazione. Si è sporto in avanti più volte  a tirare Vlad per la giacca e fargli domande, impartirgli disposizioni:
“Una volta mi devi accompagnare al porto, a vedere i pescherecci, intesi? Voglio vedere i pescherecci, voglio provare a dipingerli”
Vlad annuiva senza voltarsi, conducendo il cavallo con andatura regolare.
“Sai, io il mare – mi ha confidato – l’ho visto una volta sola, da bambino. Ho visto un porto militare, pieno di navi da guerra e marinai. Tutto molto cupo, molto allarmante. Il mio padrino, mi ci ha portato; lui era in Marina, ma gli piaceva più il ferro, l’acciaio, i cannoni, che non i colori del mare. Io invece voglio vedere le barche da pesca e voglio dipingerle. Anche i gabbiani, voglio dipingere; e il pesce nelle casse e le reti stese. E i pontili di legno. E conchiglie, molte conchiglie!”
Quando è di buon umore, è adorabile come un fanciullo, il mio instabile Dimitri. E di nuovo ricordava a Vlad la commissione:
“Gli stivali, eh, mi raccomando, ragazzo”.
Gli ho fatto notare che ragazzo proprio non è, avrà almeno l’età del professor Leittner; ma Mitija era così contento, così gioioso:
“E con questo? E’ un bravo ragazzo, lo sento”.
Devo dire che è vero, Mitija certe cose le sente, e sulle persone raramente si inganna. Forse mai.
A pranzo abbiamo conosciuto un altro ospite. Soli al nostro tavolo, stavamo dispiegando i tovaglioli quando, preceduti da un prolungato trapestio e abbaiar di cani, hanno fatto ingresso alla “Nordsee” Rubin e un nuovo personaggio, evidentemente di ritorno da una partita di caccia: ho intravisto il padrone consegnare della selvaggina a uno sguattero prima di raggiungerci per fare le presentazioni. L’ospite – un uomo di mezza età piuttosto rumoroso e dal ventre sporgente – si chiama Alois Jarov, e nel fare la nostra conoscenza ha disperso molte entusiastiche energie in un discorsetto fiorito di complimenti. Sembrava giubilante per il nostro arrivo, forse perché gli forniva l’occasione per parlare anzitutto di sé, e con goloso sussiego; la parola più ricorrente, tra un “Signora Baronessa” e l’altro, è stata “poeta”, perché come tale ha tenuto a presentarsi, e ha ribadito il concetto fino a farsi ben certo che lo avessimo debitamente assimilato. Ho notato con imbarazzo lo sguardo lievemente canzonatorio che Dimitri non gli ha staccato di dosso, e più ancora ho provato disagio quando, tornati soli, gli ho sentito sibilare “Cialtrone…” mentre, a testa bassa, attaccava il suo piatto.
“Ma Mitija, come puoi…”
“Scusami, Aglae, ma so quel che dico. Quello è un cialtrone. Lo conosco di fama, fidati”.
Non ha sprecato molte parole, ma quelle poche sono state illuminanti; pare che il soggetto in questione sia più che altro un ozioso e un millantatore – due atteggiamenti che Dimitri ha sempre condannato con inusitato furore – noto in alcuni ambienti culturali del nord per una sgradevole diatriba con intellettuali di rango circa il valore di quelle che boriosamente definisce “le sue poesie”. La sua presenza qua, all’estrema periferia del Regno, praticamente in esilio, sarebbe motivata non tanto da un suo desiderio di raccoglimento per meglio seguire la sua ispirazione, quanto invece dall’opportunità di sottrarsi al feroce dileggio di cui lo avevano fatto bersaglio i critici più autorevoli, con i quali Dimitri, che di letteratura ne sa, si ritrova intimamente schierato.
“Credimi, Aglae: quello, la poesia non sa neanche dove stia di casa. Non farti incantare da un vanaglorioso senza talento”.
Ah, Dimitri, Dimitri… quante volte, amabilmente, mi ha messo in guardia contro la mia ingenuità! Il fatto è che, quando sento solo nominare la Poesia, il mio cuore, che sempre spera nella Bellezza, si intenerisce. Ma darò retta al mio amico, e farò attenzione a imprimere un educato distacco ai miei modi, in occasione dei prossimi inevitabili incontri con quell’uomo.
Durante il pasto, dai vasti vetri ci ha scaldato un sole fattosi ormai saldo nel cielo ripulito. Siamo usciti a scrutarlo, l’azzurro colmo di promesse, prima di salire a riposare; Vlad stava finendo di mangiare da una ciotola – e ne spartiva con alcune galline – seduto su una panca lungo il lato della casa, e intanto Lilia, da dietro una finestra della cucina, ci ha scorti e si è affrettata a mettersi a disposizione. Le ho chiesto il necessario per scrivere, poiché è mia intenzione tenere regolari contatti con la città, con alcuni conoscenti cui tengo ma soprattutto con il professor Leittner, cui devo puntuali resoconti. Mi ha procurato dei fogli di buona qualità, candidi quanto basta e con uno stemma rosso e blu che riporta il motto reale e, sotto, il nome della locanda, “Nordsee”. Qua la posta viene recapitata due volte la settimana, e mi sembra una frequenza soddisfacente; basterà consegnare la corrispondenza a Lilia che la consegnerà a Rubin che a sua volta la consegnerà a persona fidata perché la avvii al treno postale. Il servizio funziona, dicono, ed è possibile ricevere risposta, salvo contrattempi, nel giro di una settimana o poco più.
Ho cominciato a scrivere, ma dal salottino accanto ascoltavo con qualche punta di piacere il delicato tramestio di Dimitri, intento a passare in rassegna le sue cassette di colori; poi, un piacevole torpore mi ha invitata a trasferirmi sulla poltrona, dove mi sono assopita. Non ho sentito il passare discreto di Lilia, che ha accostato le tende e mi ha posato uno scialle sopra le ginocchia. Angelica bambina.

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