Diari da Magdenbad, cap. 6

Manet_spiaggia

Dice Dimitri che ieri sera mi sono persa un tramonto bellissimo. Anzi, lo ha definito eccellente, come uno chef che dalla prima portata pregusti il seguito di un pranzo di sopraffina qualità. E in effetti stamani il cielo si è presentato soleggiato fin dal primo mattino, tanto che dai terreni in altura si è suscitato il vapore luminoso della brina in disgelo. In calma di vento e aria serena ci siamo avviati a piedi lungo la litoranea, in direzione dei grandi alberghi ancora chiusi; Lilia ci seguiva nel suo scialle qualche passo indietro, portando una coperta nel caso avessimo voluto sedere su una panchina. Sul lungomare non c’è ancora passeggio, poiché è una strada occupata quasi soltanto da costruzioni residenziali destinate alla villeggiatura estiva; ogni pochi passi, cespi di oleandri imbruniti dall’inverno danno i primi segni del risveglio, e alcuni giardinieri erano intenti a rincalzarne le radici e a spazzare il seccume.
Vlad è sparito da ieri pomeriggio, per via di quegli stivali. Si è recato a un piccolissimo paese a qualche ora di cammino, oltre le colline, là dove si estende una boscaglia impervia e priva di buone strade, poiché non ci va mai nessuno. Sono poche casupole di stampo molto antico, a pianta circolare: un unico locale tutto attorno a un camino, coperto da un tetto spiovente di fango e frasche, molto caratteristico. Gli abitanti, pochi ma tutti indistintamente, si dedicano notte e giorno alla lavorazione di pellami, e ne sono espertissimi; confezionano a mano, con grossi aghi e affilati taglierini, ogni sorta possibile e immaginabile di calzature. Gli uomini ritagliano tomaie e sagomano suole e tacchi, le donne imbottiscono di pelo i modelli invernali e sono famose per le rifiniture a ricamo o a nappine. Dal paese-laboratorio escono zoccoli da cortile, stivali da caccia o da viaggio, polacchine da passeggio, babbucce foderate di calda lana, quali in pelle lucida e quali opaca o rovesciata, morbidi oppure robusti secondo la destinazione, decorati con nastri per le signore e i fanciulli o con semplici lacci per gli uomini; non seguono la moda, che lassù è del tutto ignorata, bensì il criterio della praticità, della solidità e della durevolezza, ma, se prevenuti da un cliente venuto apposta da lontano, sanno estrarre dalle loro mani anche stupefacenti stravaganze, modelli unici, piccoli gioielli d’arte. Quando hanno ultimato una certa quota di lavoro, uno di loro, che sa leggere e far di conto, si incarica di portare i prodotti finiti ai mercati della regione, in sacchi da granaglie e su un carretto tirato da un asino che non si lascia scoraggiare dall’ostilità dei tratturi; questi viaggi non hanno cadenza regolare, sono legati al caso, cosicché non si è mai certi di quando le famose scarpe cucite dagli artisti dei boschi saranno disponibili nelle piazze dei paesi. Ma quando, la mattina presto, dopo un trasferimento notturno fra le pietraie, compare mantellato il venditore, ecco che ogni massaia, ogni dama, ogni madre e nonna e i loro uomini contadini oppure signori, pescatori e notai, artigiani e speziali, financo i monaci dei monasteri o gli attendenti degli ufficiali di guarnigione, ecco che tutti si affollano attorno a quelle stuoie, quei sacchi rovesciati, quel ben di Dio di scarpe e pantofole per tutti i gusti e le necessità, e alla fine della mattinata nulla rimane invenduto e nuove commissioni vengono intascate dall’uomo dei boschi, per accontentare nuovi compratori la volta successiva.

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