Il secchio bucato # 9

Precisazione importante: questo testo NON è un diario, bensì pura invenzione, sebbene qua e là ispirata a piccole esperienze personali. Ho scelto la forma del “diario” solo perché, quando l’ho scritto, mi ha facilitato il superamento di uno di quei molesti blocchi che capitano periodicamente a chi scrive.

Nel giardinetto che fa angolo, su una panchina al sole, una donna più o meno della mia età sta leggendo un libro. Ha capelli ariosi e scomposti, porta occhiali lievemente ombreggiati e tiene accanto una borsa dall’aria molto vissuta. Chissà cosa legge. Deve piacerle molto. Mentre legge, il mondo si è fermato, per lei.
Invece di avvicinarla, proporle di fumare insieme e chiederle di parlarmi del suo libro, come sento che sarebbe nell’ordine naturale delle cose o anzi addirittura indispensabile, mi affretto al parcheggio. Ho finito le mie commissioni. Torno a casa. Adesso ho voglia di scrivere.

Mi chiamo Paola. Ho quarantacinque anni, oppure quarantasette. Bionda naturale, primi capelli bianchi, si notano poco, capelli mossi che non stanno mai a posto, non me ne occupo più di tanto, lascio fare, mi fanno compagnia, li sento muoversi nell’aria intorno alla testa, al viso, alla nuca, sono come un bel cappello, di quelli con fiori e nastri che danzano quando c’è brezza in riva al mare. Da ragazza ho portato gonne larghe, lunghe, svolazzanti e fiorate, e stivali da cowboy e scialli da piccola fiammiferaia. Ho dato una debole partecipazione a scioperi e cortei. Ho preparato esami su una panchina pur di non stare in casa in periodi di insofferenza verso mia madre. Acqua passata. Ora indosso gonne a tubo e spesso nere, e sulle panchine leggo Kerouac, come allora, ma anche Pennac, Saramago e Rosetta Loy.
Mi chiamo Paola, oppure Teresa. Faccio l’insegnante. Italiano e storia alle scuole medie. Non è più come una volta: i ragazzini non fingono nemmeno di impegnarsi sulle cose che non gli interessano, no, se le lasciano semplicemente passare sopra la testa, stanno seduti e annoiati a non pensare mentre io spiego davanti a facce assenti di perfetti sconosciuti, non hanno più il tabù del brutto voto o della brutta figura, sono organizzati secondo un codice non concertato, del tutto spontaneo, uno spirito di corpo, una tacita alleanza che neutralizza il potere virtuale dell’insegnante; hanno scoperto che basta dimostrare di non essere soggetti ad alcuno dei sani timori che si richiedono agli alunni e tutti i tuoi sforzi educativi diventano vani, sembrano patetici tentativi di imporre un ordine e delle regole che non attecchiranno mai. Dopo vent’anni spero ancora nel miracolo, ma quando avviene è perché in quel momento sono io che lo suscito in me stessa, infervorandomi a parlare di poesia – per esempio – come se la stessi scoprendo per la prima volta e con la stessa commozione di allora. Mi illumino io, di immenso. Per loro, lo scialbo riverbero di una lampadina da pochi watt. Difetto di trasmissione, programma inutilizzabile.
Mi chiamo come mi chiamo, e a un certo punto ho anche cambiato nome. Cognome. Ho conosciuto mio marito su un treno. Un incontro fra pendolari. Caffè di fretta al bar della stazione, il giornale che non c’è spazio per aprire a dovere nell’angustia degli scompartimenti affollati, il fiato sui finestrini come la nebbia sui campi fuori. Un sentimento tiepido. Siamo stati sposi tiepidi. E il tepore si è consumato in dieci anni. Siamo rimasti civilmente amici, in un rapporto tiepido anche questo. Lui poi si è trasferito per lavoro, io sono tornata senza rimpianti a vivere con mia madre. Stiamo bene insieme, abbiamo ruoli e affiatamento. Lei tiene la casa lustra e serena come la tana di uno scoiattolo. Io sono puntuale e prevedibile. Ci sorridiamo da due mondi leggermente diversi ma in affettuosa comunicazione: la porta è sempre aperta, la trasmissione è soddisfacente. Il pomeriggio esce spesso, ha impegni che le sono gradevolissimi: amiche vedove, la parrocchia, mio padre al cimitero. Poco prima che rientri mi ricordo di accendere la luce nelle stanze, perché le veda dall’angolo della strada e se ne riscaldi. D’estate va in mezza montagna con altri anziani, io invece mi faccio organizzare brevi viaggi culturali ma spartani. Quest’anno, Lisbona. Molto bella, e molto languida. Avvolgente. Anche a tratti stordente, come una musica araba. Ma l’aria dell’oceano la snebbiava, ne risanava la sottile morbosità.
Quando ho un’ora buca, a volte esco a fare due passi. Il mercoledì c’è mercato, mi capita di fare piccole spese. Porto a casa qualche sorpresa per mia madre, un posapentole, un tappetino nuovo per il bagno. Oppure mi metto a leggere su una panchina dei giardinetti, come oggi. Devo stare attenta perché il tempo mi passa senza accorgermene, ma mi regolo sui rintocchi del campanile. Stamattina suonava mezzogiorno quando è passata una signora con una giacca blu: con la coda dell’occhio mi sono resa conto che aveva rallentato per guardare me e il libro che avevo in mano, e per un attimo ho creduto che stesse per rivolgermi la parola. Invece ha proseguito. Non mi pare di conoscerla. Forse mi ha preso per un’altra persona.
Mi chiamo Paola, insegno italiano e storia. Ma ci sono molte Paola che lo fanno.

Ecco. Questo è quello che ho scritto oggi. E non so cosa voglia dire.

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