Priscilla Hoffercourt-Bohle, nata Rotterwald

Nella casa-museo di Priscilla Hoffercourt-Bohle, nata Rotterwald, a Neuilly, vi è una amenissima sala da musica, le cui due ampie finestre ai lati del camino affacciano su quell’ala particolarmente ombrosa e segreta del giardino in cui sorge, su una piccola e verde altura artificiale, la riproduzione di un tempietto neo-ellenistico a pianta deliziosamente circolare e – ça va sans dire – circondato da un fossatello dove ninfee, cigni e sciami stagionali di effemeridi convenientemente allignano.
In detta sala (ombreggiata in mauve e contrassegnata dal numero 8 nella piantina del dépliant), sono raccolte numerosissime le testimonianze della passione della dama Priscilla per la musica (e i musicisti), che la portò a frequentare con instancabile piacere i ridotti dei maggiori teatri di Francia, Italia, Austria e perfino Argentina e Singapore. Fra i ritratti fotografici degli artisti – la massima parte in abiti di scena – figura più volte quello particolarmente adorno del mezzosoprano Odile Tallion, con la quale la H.B. intrattenne una scandalosa e notoria relazione negli anni delle rispettive menopause.
Nell’angolo sud-est, è stato ricollocato, in tempi recenti e a cura di alcuni premurosi eredi, lo Steinway intorno al quale amici, amanti e amatori si raccoglievano all’ascolto e alla conversazione nel corso degli ispirati pomeriggi musicali tenuti dalla baronessa Hoffercourt-Bohle, nata Rotterwald, in particolare nelle settimane quaresimali del decennio 1909-1920, e cioè prima che un imprevisto dissesto finanziario imponesse l’alienazione del pianoforte e con esso di altri oggetti e arredi della casa, che al contrario di esso non furono più riscattati. È a quel periodo, oscuro ma passeggero, che risale la presenza del grammofono a tromba e del tavolino di bambù laccato in testa di moro che lo sostiene: dozzinali nella fattura, entrambi furono dono di un anonimo inelegante, ma ricco e pratico, ammiratore personale della baronessa, il quale nel biglietto di accompagnamento si definiva “un viaggiatore irriducibile e un devoto alla Bellezza”.
Degne di menzione le quattro seggioline Luigi Filippo, scompagnate e superstiti di un totale di diciassette, i due sofà simmetrici a sorprendenti fiorami cinesi blu e oro e la coppa di opale a striature sanguigne che, al centro della mensola del camino, contiene alcuni pezzi unici di una collezione di bigiotteria di lusso appositamente disegnata e realizzata dalla manifattura Bondi&Castle su ordinazione del barone Hoffercourt-Bohle all’indomani della clamorosa fuga di lei – per motivi mai dichiarati – durante il viaggio di nozze a Buenos Aires, e recapitata a tempo di record come dono d’addio e costosa lapide a quel brevissimo matrimonio.
Ma l’interesse principale di questa sala da musica, come sanno i visitatori meno sprovveduti, risiede nella presenza, sulla parete di faccia alla porta, sopra il corrucciato camino e fra le due finestre prospicienti il malinconico boschetto, di due dipinti a olio raffiguranti il Professor Xavier Rotterwald, illustre psichiatra e criminologo nonché Decano dell’Hôtel Dieu, e la sua intrigante sposa Lavinia Bergeron, ritratti in occasione del decennale delle nozze dal Maestro marsigliese Marcel Filippi e che, nelle intenzioni, avrebbero dovuto coronare la storica galleria di famiglia esposta lungo lo scalone e il corridoio del primo piano.
La storia di quei dipinti è risaputa: si trattava in origine di una tela unica, di notevoli dimensioni, sulla quale i due coniugi, di profilo e uno di fronte all’altra, erano fissati nell’atto di porgersi le mani in un gesto di reciproco omaggio e promessa di fedeltà. Tuttavia, proprio nei mesi successivi al completamento dell’opera avvenne la tragedia che tanto brutalmente segnò la vita dell’unicogenita Priscilla, allorché la madre gettò lo scandalo sulla famiglia fuggendo con un giovane e inaffidabile assistente del marito, di estrazione vandeana e plebea. La società benpensante non ne fu particolarmente sorpresa, poiché il vergognoso episodio non faceva che confermare la già espressa e unanime disapprovazione per quell’azzardata unione fra un esponente del mondo della cultura e la fin troppo bella figlia di una portinaia di rue Mouffetard, le cui origini maldestramente si era cercato di camuffare ai tempi del fidanzamento e dell’affrettato matrimonio riparatore. Il Professore, colpito due volte nell’orgoglio e – si disse – una volta ma più che sufficiente anche nelle finanze, ne fu sopraffatto al punto che pose fine ai suoi giorni con un colpo di pistola alla testa sul bordo del letto della sua camera privata al secondo piano (non ombreggiata né numerata nella piantina del dépliant, in quanto non aperta al pubblico) lasciando la figlia sola, libera e comunque soddisfacentemente ricca. Di lei allora quindicenne si presero temporaneamente  cura due zie, le eccentriche gemelle Rotterwald, che la condussero in viaggio in Nord Africa e in Asia Minore per oltre un anno, e al ritorno aprirono un salotto letterario nella loro casa di rue du Temple adorna di scadenti souvenirs.
Priscilla, animo indipendente, da quel momento prese in mano le redini della propria vita, e iniziò la disordinata frequentazione degli ambienti più pittoreschi della Parigi di allora, spendendo dapprima gli anni della sua avvenenza presso taverne e atelier di pittori spiantati (tra i quali l’efebico Bonhiver e l’allucinato Radzinski al cui successo provvide generosamente) e più avanti quelli della maturità in un andirivieni tra camerini di teatro e sale da gioco, dove alternativamente aumentò d’emblé le sue fortune ma anche incontrò fulminei tracolli di milioni di vecchi franchi. A copertura di uno di tali imbarazzanti incidenti, accettò la proposta di matrimonio del lussemburghese baffuto barone Hoffercourt-Bohle, che tuttavia non seppe renderla felice e fu liquidato spietatamente in tempi brevi, come più sopra ricordato. È a quest’ultimo traumatizzante avvenimento che viene fatta risalire la repentina decisione di tagliare in due il dipinto dei genitori, che Priscilla (come si intuisce da farneticanti e frammentarie confessioni riportate nel suo diario) ormai vedeva come i primi artefici del suo stesso squilibrio e cui non sapeva perdonare l’espressione di perpetuo amore con la quale parevano, da lassù, fissarsi negli occhi. In seguito raccontò con un certo orgoglio di avere provveduto alla bisogna con le proprie mani, armate di cesoie da giardino, e di avere lo stesso giorno commissionato due nuove cornici a un ebanista di rue de la Reine, il quale appese i due mezzi oli sulla stessa parete di prima, uno accanto all’altro ma in ordine inverso, talché i due deplorati personaggi si volgessero per sempre la schiena e indicassero così, per il resto del tempo a venire, l’ineluttabilità del loro addio. 

Al termine della visita a questa suggestiva dimora, in cui tutto ancora parla della vita ardente e disordinata di una straordinaria protagonista della Belle Époque, ci sentiamo di indicare ai visitatori più smaliziati un ambiente altrettanto affascinante ed esclusivo nelle vicinanze, dove gustare splendide huîtres dell’atlantico e pâtisserie maison: La Coupole dorée, 213 rue Monjuif, M.° Sablons. Réservation conseillée. À partir de 40 euros.

Le donne

Sargent_uscita di chiesa

Le donne ficcano le tazzine della colazione nella lavastoviglie, si tirano una riga di rimmel sugli occhi attenti, si specchiano il rossetto nel retrovisore, rovistano un cellulare in borsa e mandano sms ai semafori.
Aprono porte con sorrisi seri e gambe decise, accavallano collant nerofumo sotto le scrivanie, appoggiano piccoli stretti occhiali in fondo al naso, giocano con le dita e i braccialetti.
Portano a casa sacchetti di lattine e insalata, stappano le bottiglie con cautela poi fanno scorrere molta acqua fredda sulle mani e ci mettono su un cerotto.
Raddrizzano i quadri e gli angoli del copriletto, e intanto gli si smaglia una calza e camminano a piedi nudi.
Accarezzano irresistibili oggetti di poco conto e fiori quasi aperti, ma con la punta delle dita come sanno fare loro.
Si riscaldano con una tazza in mano appoggiate al termosifone e aspettano pensando vago.
Con le amiche si raccontano bugie molto belle da inventare e da ascoltare, storie di uomini che le hanno lasciate e di molti altri venuti dopo. Si baciano con le guance, si tengono sotto braccio se piove, si aspettano davanti alle vetrine, poi non sempre entrano.
Con i bambini stanno attente, vorrebbero toccarli e prenderli in braccio, ma le madri non sono d’accordo perché poi piangono.
Comprano giornali da buttare sul sedile posteriore e più avanti nel cestino, sospirando di noia, ed esosi gioielli falsi agli ambulanti perché hanno un senso materno da esprimere, e come sovrapprezzo un sorriso di amicizia.
Inciampano in tacchi da sera con bocche splendenti per far contento chi le guarda, che si ricordi di loro per un attimo, anche se molto in là nel tempo.
Mentono innocenti o sviano le parole, ansiose di non far troppo male se non vengono comprese.
Ingoiano di nascosto pasticche per dormire o per dimagrire, vergognandosi un po’ di essere fatte così, diverse da quegli uomini che le vorrebbero diverse.
A quelli, agli uomini che attraversano le loro strade piene di sole e di voglie aggrovigliate, promettono di mantenere promesse non loro, e ci mettono il cuore; poi cade una stella e gli scivola di mano un piatto da asciugare e raccolgono cocci dimenticando di desiderare.

Gli uomini guardano come camminano e non sanno dove vanno. O gli contano gli anni negli occhi e poi si chiedono se c’è tempo. Oppure non vedono niente e si infilano in un bar a bere qualcosa da soli.

Eugenia, o il tè’

Prenderò volentieri, cara Eugenia,
una tazza di tè
dal tuo servizio a rose lievi,
trasparenti
Un tè gentile, al tiglio, alla verbena,
un tè latte e limone
e due praline, ma non più di due
(sai la mia età)
una di queste con i ghirigori
di marzapane
e l’altra, se permetti,
fondente alla violetta,
persistente al palato come un buon ricordo.
Da Vienna, vedo, ti hanno scritto
le signorine Hoffman, tue cugine
per parte di tua madre
(che pianista, ai tempi in cui tua nonna
andava a corte, si racconta;
tu fosti più modesta, suonavi dalle suore
un po’ di armonium che stonava,
e non ne avevi colpa)
Un quadrifoglio ti han mandato,
delizioso pensiero,
raccolto nel giardino del presbiterio.
La tovaglia a crochet procede bene,
a trafori e ghirlande,
pronta – suppongo – per Natale
se non ti impicceranno quei lavori
che fai per gli altri,
gli orli ed i rammendi,
colletti nuovi per camicie vecchie,
pagati poco da clienti usurai.
La pendola resiste, non hai cuore
– e fai bene –
di darla via come quei pochi argenti,
me li ricordo sai,
che facevano bello il tuo salotto
prima della guerra,
e i Limoges e i tappeti,
i paralumi a gocce di Boemia,
le volpi, le velette,
le perle in doppio giro,
e gli orecchini di corallo.
Ti resta ancora, e me ne consolo,
il sofà a fiori e frange
il poggiapiedi di velluto verde
il carillon veneziano
e la radio in cucina, là sulla credenza
forse vuota, o con poco.
Io giusto ieri ho venduto
l’ultimo quadro, quello con il faro
ed il naufragio.
Naufrago anch’io, che credi?
Ma sorrido
di questo tè gentile e profumato,
delle tue rughe e delle mie,
dell’artrite alle mani che ci fa sorelle,
delle scarpe da risuolare,
se possibile,
ora che piove spesso.
Io? Niente di speciale.
Sono stata
alla biblioteca,
poi da te per sollevarmi un poco
prima di ritornare,
ché la sera
il custode tarda sempre
a portarmi di sopra la legna per il fuoco.
Se scrivi a Vienna, manda i miei saluti.

Le donne

le donne

Le donne ficcano le tazzine della colazione nella lavastoviglie, si tirano una riga di rimmel sugli occhi attenti, si specchiano il rossetto nel retrovisore, rovistano un cellulare in borsa e mandano sms ai semafori.
Aprono porte con sorrisi seri e gambe decise, accavallano collant nerofumo sotto le scrivanie, appoggiano piccoli stretti occhiali in fondo al naso, giocano con le dita e i braccialetti.
Portano a casa sacchetti di lattine e insalata, stappano le bottiglie con cautela poi fanno scorrere molta acqua fredda sulle mani e ci mettono su un cerotto.
Raddrizzano i quadri e gli angoli del copriletto, e intanto gli si smaglia una calza e camminano a piedi nudi.
Accarezzano irresistibili oggetti di poco conto e fiori quasi aperti, ma con la punta delle dita come sanno fare loro.
Si riscaldano con una tazza in mano appoggiate al termosifone e aspettano pensando vago.
Con le amiche si raccontano bugie molto belle da inventare e da ascoltare, storie di uomini che le hanno lasciate e di molti altri venuti dopo. Si baciano con le guance, si tengono sotto braccio se piove, si aspettano davanti alle vetrine, poi non sempre entrano.
Con i bambini stanno attente, vorrebbero toccarli e prenderli in braccio, ma le madri non sono d’accordo perché poi piangono.
Comprano giornali da buttare sul sedile posteriore e più avanti nel cestino, sospirando di noia, ed esosi gioielli falsi agli ambulanti perché hanno un senso materno da esprimere, e come sovrapprezzo un sorriso di amicizia.
Inciampano in tacchi da sera con bocche splendenti per far contento chi le guarda, che si ricordi di loro per un attimo, anche se molto in là nel tempo.
Mentono innocenti o sviano le parole, ansiose di non far troppo male se non vengono comprese.
Ingoiano di nascosto pasticche per dormire o per dimagrire, vergognandosi un po’ di essere fatte così, diverse da quegli uomini che le vorrebbero diverse.
A quelli, agli uomini che attraversano le loro strade piene di sole e di voglie aggrovigliate, promettono di mantenere promesse non loro, e ci mettono il cuore; poi cade una stella e gli scivola di mano un piatto da asciugare e raccolgono cocci dimenticando di desiderare.

Gli uomini guardano come camminano e non sanno dove vanno. O gli contano gli anni negli occhi e poi si chiedono se c’è tempo. Oppure non vedono niente e si infilano in un bar a bere qualcosa da soli.