Contro il mio interesse

Se avessi non dico il bernoccolo degli affari, ma almeno un microgrammo di autostima, non ve lo direi. Invece per scarsità dell’uno e dell’altra ve lo dico: voi (due o tre che siate) che per qualche imperscrutabile motivo state leggendo il mio ebook, lasciatelo perdere e leggete piuttosto qualcosa che vale sul serio.
Vi consiglio un romanzo (meglio, un racconto lungo; meglio ancora, un racconto fatto di racconti) affascinante: La corte del diavolo, di Ivo Andric (1892-1975, premio Nobel per la letteratura nel 1961).
Vi si narra l’esperienza di un frate bosniaco in un carcere turco dove era stato rinchiuso benché innocente, e gli incontri con altri detenuti, ciascuno carico di un proprio vissuto spesso bizzarro, a volte tragico. L’ambiente, anzi gli ambienti, e la varietà di personaggi e di storie hanno qualcosa di fiabesco. Lo stile è pulito eppure affabulatorio, ricco com’è di immagini, di sensazioni. Ne sono stata catturata fin dall’incipit e ho deciso di presentarlo al Gruppo Lettori della mia biblioteca quando, il 20 settembre prossimo, ci riuniremo per raccontarci cosa abbiamo letto di bello quest’estate.
Chi viene è benvenuto, non se ne pentirà e avrà voglia di tornare.

Noi siamo sempre più o meno propensi a condannare quelli che parlano molto, specie se di cose che non li riguardano direttamente, e a giudicarli con disprezzo, considerandoli chiacchieroni e parolai, gente noiosa. E non ci rendiamo conto che questo difetto, così umano e così frequente, ha pure i suoi lati buoni. Che cosa, infatti, sapremmo noi dell’animo e dei pensieri altrui, dell’altra gente, e quindi anche di noi stessi, di ambienti e paesi che non abbiamo mai visto né avremmo occasione di vedere, se non ci fossero questi individui che hanno bisogno di raccontare a voce o per iscritto le cose che hanno visto e udito, le emozioni e i pensieri che esse hanno fatto nascere in loro? Poco, molto poco. E anche se i loro racconti sono incompleti, coloriti di passioni e di esigenze personali, o magari inesatti, noi, che appunto abbiamo giudizio ed esperienza, possiamo valutarli e confrontarli tra loro, accettarli o respingerli, in tutto o in parte. Sicché, qualcosa dell’umana verità sopravvive pur sempre per coloro che li ascoltano o che li leggono con pazienza.”

Questo è per te, Dave

Sì, lo so, non sei mai stato tipo da celebrazioni né da salotti. Tuttavia quella di ieri sera non è stata una celebrazione, bensì un incontro fra amici, e non si è tenuta in un salotto, ma nella sala mensa di una scuola, dove ti saresti sentito a tuo agio anche tu, te lo assicuro. Lascia che ti racconti come è andata, perché io c’ero.

La data: venerdì 3 febbraio 2012, ore 20:45. Poi naturalmente si è iniziato dopo il solito quarto d’ora accademico, e sempre come al solito si è fatto tardino, perché chi viene a queste serate in biblioteca alla fine non ha mai voglia di andar via, e tra una chiacchiera, un progetto, un prosecco e una torta fatta in casa ecco che viene mezzanotte come niente.
Il posto: come ti dicevo, la sala mensa della scuola media, del cui edificio la biblioteca occupa (standoci stretta) il seminterrato. La suddetta sala mensa, basicamente già dotata di spifferi congeniti, era allestita con un fondale di drappi neri, una pedana di moquette blu con tavolo per il notaio (Lorena verde di occhi e rossa di capelli), tre leggii con microfono e un dannatissimo faretto dritto negli occhi di chi doveva rivolgersi al pubblico (forti di precedenti esperienze, i lettori più che leggere si erano imparati il copione a memoria oppure avevano preso lezioni di Braille). Di lato, la postazione per Luca e Gabriele, che hanno inframmezzato gli interventi con musica dal vivo a base di chitarra, tastiere e amplificatori (scusa, non sono molto esperta).
L’occasione: proporre al voto dei più affezionati frequentatori della biblioteca una rosa di candidati al premio Nobel per la letteratura fra quelli che non lo hanno mai ricevuto. Insomma un gioco, una sfida fra amici per scaldare una serata di pieno inverno così fredda che non poteva nemmeno nevicare.
Funzionava così: cinque i candidati e cinque i proponenti, ciascuno coadiuvato da uno o più voci recitanti per la lettura di brani originali degli autori in lizza. Al termine, voto popolare mediante biglie di vetro da collocare nelle ciotole sistemate sotto la foto di ciascun candidato.
Come vedi, di una semplicità non so se casalinga o goliardica. Una specie di tombola in famiglia, ma senza null’altro in palio che il riconoscimento – e se possibile la condivisione – di una passione convinta. Io la mia passione l’avevo, ed era più che convinta. La mia passione porta il tuo nome, e nel tuo nome l’ho espressa, come ha fatto Elisa – con l’aiuto di Alessia e Daniela – in nome di Marguerite Yourcenar, Andrea con Liliana per Sandor Marai, Beatrice con Enrico per Philip Roth, Cristina, con Daniele e Marisa, per Anita Nair.
Non puoi lamentarti della qualità dei tuoi antagonisti, direi. Forse avrai trovato un po’ beffardo essere costretto a uno scontro alla pari con quel Philip Roth con il quale hai sempre avuto rapporti  un po’ ruvidi. Lo so: troppo bravi tutti e due, una rivalità sul filo del rasoio che però mette generalmente d’accordo i lettori di entrambi. Due voci diverse, due diverse mediazioni, tutto qua; poi sul genio non si discute, la scelta può essere anche solo questione di pelle.
Non ti annoi, vero? Perché il bello deve ancora venire, e viene quando tocca a me salire sulla pedana di moquette blu per farmi accecare dal faretto e ciononostante fare la mia parte nel migliore dei modi davanti alla pozza buia del pubblico che, per quel che vedevo, poteva anche essere composto di persone già addormentate o al contrario di mostri assetati di sangue. Ma avevo al mio fianco un compagno esperto e rassicurante, Mirko, che non loderò mai abbastanza e che si era talmente calato nel contesto da cercare di somigliarti anche nel modo di vestire, di sorridere con ironia, perfino nell’ombra di barba che si era lasciata crescere apposta per due giorni.
Io ho raccontato certe cose che sapevo sul suo conto, ma in tre occasioni mi sono interrotta per cedere la parola direttamente e legittimamente a te attraverso la voce di Mirko, che ha offerto al pubblico tre brevi passaggi dalle tue opere. Avrai senz’altro presente: là dove, in Infinite jest, spieghi che per un depresso il suicidio è la scelta obbligata di una soluzione, la morte, che lo terrorizza meno dell’orrore della vita; poi l’incipit di quello stravagante racconto dove c’è quel tipo che accompagna dall’avvocato la madre col viso ridotto a una maschera di terrore indelebile dopo due interventi di chirurgia estetica; e infine i punti di forza della tua descrizione della vita a bordo della Nadir, dove il divertimento, più che relax, è un obbligo stressante.
Il pubblico ha riso, ha pianto, ha drizzato le orecchie e soprattutto ha riflettuto. Guardate, gli ho detto, che Dave non scrive cose incomprensibili: se dite di non capirle, è perché probabilmente sono capitate anche a voi o vicino a voi ma non vi va di ammetterlo. E credo che alla fine mi abbiano dato ragione, perché alla conta dei voti si è visto che avevano creduto in te. Già, perché è così che è andata: David Foster Wallace ha vinto alla grande il premio Nobel per la letteratura dei lettori della biblioteca, distaccando i nomi celebri e meritevoli che si erano battuti con onore, ma forse senza riuscire a cogliere il bersaglio più segreto nel cuore di chi ascoltava.
Sei curioso di conoscere la motivazione? L’ho redatta io, in qualità di proponente, perciò se non ti soddisfa prenditela solo con me. Eccola: “per la sua capacità di drammatizzare e sdrammatizzare la condizione umana del nostro tempo” (mi avevano imposto di essere brevissima!!)
E dopo, come si suol dire, gioia e incredulità, abbracci e baci, diplomi e foto, brindisi e scherzi. E per me, missione compiuta: quella di contribuire a far scoprire ad altri il dono della tua comunicatività, dei tuoi messaggi, delle tue analisi e dei tuoi perdoni. Tu dicevi: “Vorrei riuscire a scrivere libri che la gente leggerà fra cento anni”. Non dubito che ciò accadrà, ma è meglio cominciare da subito, non trovi?

Come dici?
No, no, non se ne parla neanche: per me è stato un onore e un atto d’amore.
Grazie a te, piuttosto. Grazie di tutto.
Hi, Dave.

Se una sera d’inverno il premio Nobel…

Così comincia la breve relazione che leggerò il 3 febbraio davanti al pubblico di lettori e amici della biblioteca, in una serata di cultura e intrattenimento in cui cercheremo di riscrivere il premio Nobel per la letteratura a modo nostro. Ci sarà chi presenterà la candidatura di Sandor Marai, chi quella di Philip Roth, di Marguerite Yourcenar e di Anita Nair. Io presento David Foster Wallace, per il quale ho un debito di gratitudine per avermi prima scossa, poi innamorata e deliziata con il suo mondo così allucinato eppure così umano. E siccome ognuno di noi ha a disposizione solo 14 minuti e l’impresa di condensare è ardua, sono previste altrettante serate monotematiche di approfondimento nei prossimi mesi; un impegno al quale  mi sto già preparando con rispetto e con amore.

Se mai l’austera Accademia di Svezia gli avesse assegnato il Nobel per la letteratura, mi piace immaginare che David Foster Wallace si sarebbe presentato a ritirare il premio nella sua tenuta abituale – capelli raccolti in un codino, bandana sulla fronte, guance non rasate, felpa con il logo dell’università, scarpe da ginnastica – e accompagnato dai suoi due cani, che adorava al punto da affermare di aver bisogno di averli tra i piedi quando scriveva.
Mi piace immaginare che, dopo la cerimonia, si sarebbe concesso – per rilassarsi – una masticatina di tabacco che poi avrebbe sputato nella vecchia tazza da caffè che si portava spesso dietro; un vizio che lo faceva sentire in colpa e dal quale si era quasi del tutto svezzato, ma l’occasione eccezionale avrebbe giustificato uno strappo alla regola.
Mi piace immaginare che avrebbe devoluto l’assegno del premio a una di quelle strutture che si occupano del recupero di soggetti con dipendenza da alcol, farmaci o sostanze stupefacenti, come quelle descritte con straziante precisione in quel capolavoro che è il suo Infinite jest.
Mi piace immaginare che il prestigioso e compitissimo parterre non si sarebbe scandalizzato per il suo aspetto trasandato, non lo avrebbe censurato come un eccentrico, irriverente anticonformista, ma avrebbe visto in lui l’espressione di un’anima trasparente e leale al punto da apparire quasi indifesa, e comunque assolutamente libera e autentica.
Mi piace immaginare.
Ma la realtà è che David Foster Wallace non riceverà più alcun premio se non alla memoria, perché si è tolto la vita nel 2008 a soli quarantasei anni, impiccandosi nella sua casa in California. Un atto estremo che familiari e amici da anni paventavano, perché quanti lo conoscevano bene conoscevano anche il tormento che devastava questo ragazzone prestante, sportivo, brillante e scanzonato, e ormai giunto alla notorietà internazionale e al successo di pubblico come scrittore: la depressione. Una depressione evidentemente endogena, una malattia bastarda che lo accompagnava fin dall’adolescenza e che gli aveva fatto conoscere i reparti psichiatrici e la schiavitù degli psicofarmaci. Negli ultimi anni, l’assuefazione ai farmaci antidepressivi e il fallimento di ogni ulteriore tentativo terapeutico aveva fatto di lui un depresso incurabile. E la sua scelta così drastica fra la vita (o meglio la non-vita, perché tale è la vita di un depresso a quello stadio) e la morte è un suicidio annunciato, forse già previsto in questo brano tratto da Infinite jest, il suo romanzo-fiume e il più acclamato, uscito nel 1996, in cui viene descritta la depressione con toni asciutti ma tragicamente rispondenti a verità:

La persona che ha una così detta “depressione psicotica” e cerca di uccidersi non lo fa aperte le virgolette “per sfiducia” o per qualche altra convinzione astratta che il dare e avere nella vita non sono in pari. E sicuramente non lo fa perché improvvisamente la morte comincia a sembrarle attraente. La persona in cui l’invisibile agonia della Cosa raggiunge un livello insopportabile si ucciderà proprio come una persona intrappolata si butterà da un palazzo in fiamme. Non vi sbagliate sulle persone che si buttano dalle finestre in fiamme. Il loro terrore di cadere da una grande altezza è lo stesso che proveremmo voi o io se ci trovassimo davanti alla finestra per dare un’occhiata al paesaggio; cioè la paura di cadere rimane una costante. Qui la variabile è l’altro terrore, le fiamme del fuoco: quando le fiamme sono vicine, morire per una caduta diventa il meno terribile dei due terrori. Non è il desiderio di buttarsi; è il terrore delle fiamme. Eppure nessuno di quelli in strada che guardano in su e urlano “No!” e “Aspetta!” riesce a capire il salto. Dovresti essere stato intrappolato anche tu e aver sentito le fiamme per capire davvero un terrore molto peggiore di quello della caduta.

Una bella gatta da pelare

Per il 3 febbraio ho accettato di partecipare alla nuova (velleitaria?? nooo!) iniziativa della Biblioteca: Il Nobel secondo noi, una serata di cultura e intrattenimento sulla scia del già collaudato Campiello? Remake! che si svolge da due anni poco dopo l’assegnazione del premio-Campiello-quello-vero, e che entrambe le volte ha completamente sovvertito la classifica. In pratica, utenti volonterosi della Biblioteca presentano libri e autori in lizza e li sottopongono al giudizio del pubblico, che ha dimostrato di gradire queste competizioni e finora ha partecipato numeroso e caloroso.
Allora ‘sto Nobel: saremo in cinque e ciascuno proporrà il suo candidato, con il supporto di un partner che leggerà dei brani originali.
Io non potevo dire di no, anche perché non ho mai avuto dubbi sul mio candidato. Ed è qui che dovrò mettermi a pelare la gatta, perché non è uno qualunque ma un personaggio complesso e forse per il grande pubblico anche alquanto indigesto.
Eccolo qua: David Foster Wallace.David Foster Wallace Hai detto niente.
Oh certo, su di lui c’è così tanto da dire da essere solo in imbarazzo, ma appunto in imbarazzo lo sono eccome, dato che dovrò condensare tutto in 14 minuti netti.
Fa niente, per DFW val la pena impegnarsi al massimo. E poi con la mia esperienza di gattofila una gatta da pelare in più o una in meno a me mi fa un baffo.