Questo è per te, Dave

Sì, lo so, non sei mai stato tipo da celebrazioni né da salotti. Tuttavia quella di ieri sera non è stata una celebrazione, bensì un incontro fra amici, e non si è tenuta in un salotto, ma nella sala mensa di una scuola, dove ti saresti sentito a tuo agio anche tu, te lo assicuro. Lascia che ti racconti come è andata, perché io c’ero.

La data: venerdì 3 febbraio 2012, ore 20:45. Poi naturalmente si è iniziato dopo il solito quarto d’ora accademico, e sempre come al solito si è fatto tardino, perché chi viene a queste serate in biblioteca alla fine non ha mai voglia di andar via, e tra una chiacchiera, un progetto, un prosecco e una torta fatta in casa ecco che viene mezzanotte come niente.
Il posto: come ti dicevo, la sala mensa della scuola media, del cui edificio la biblioteca occupa (standoci stretta) il seminterrato. La suddetta sala mensa, basicamente già dotata di spifferi congeniti, era allestita con un fondale di drappi neri, una pedana di moquette blu con tavolo per il notaio (Lorena verde di occhi e rossa di capelli), tre leggii con microfono e un dannatissimo faretto dritto negli occhi di chi doveva rivolgersi al pubblico (forti di precedenti esperienze, i lettori più che leggere si erano imparati il copione a memoria oppure avevano preso lezioni di Braille). Di lato, la postazione per Luca e Gabriele, che hanno inframmezzato gli interventi con musica dal vivo a base di chitarra, tastiere e amplificatori (scusa, non sono molto esperta).
L’occasione: proporre al voto dei più affezionati frequentatori della biblioteca una rosa di candidati al premio Nobel per la letteratura fra quelli che non lo hanno mai ricevuto. Insomma un gioco, una sfida fra amici per scaldare una serata di pieno inverno così fredda che non poteva nemmeno nevicare.
Funzionava così: cinque i candidati e cinque i proponenti, ciascuno coadiuvato da uno o più voci recitanti per la lettura di brani originali degli autori in lizza. Al termine, voto popolare mediante biglie di vetro da collocare nelle ciotole sistemate sotto la foto di ciascun candidato.
Come vedi, di una semplicità non so se casalinga o goliardica. Una specie di tombola in famiglia, ma senza null’altro in palio che il riconoscimento – e se possibile la condivisione – di una passione convinta. Io la mia passione l’avevo, ed era più che convinta. La mia passione porta il tuo nome, e nel tuo nome l’ho espressa, come ha fatto Elisa – con l’aiuto di Alessia e Daniela – in nome di Marguerite Yourcenar, Andrea con Liliana per Sandor Marai, Beatrice con Enrico per Philip Roth, Cristina, con Daniele e Marisa, per Anita Nair.
Non puoi lamentarti della qualità dei tuoi antagonisti, direi. Forse avrai trovato un po’ beffardo essere costretto a uno scontro alla pari con quel Philip Roth con il quale hai sempre avuto rapporti  un po’ ruvidi. Lo so: troppo bravi tutti e due, una rivalità sul filo del rasoio che però mette generalmente d’accordo i lettori di entrambi. Due voci diverse, due diverse mediazioni, tutto qua; poi sul genio non si discute, la scelta può essere anche solo questione di pelle.
Non ti annoi, vero? Perché il bello deve ancora venire, e viene quando tocca a me salire sulla pedana di moquette blu per farmi accecare dal faretto e ciononostante fare la mia parte nel migliore dei modi davanti alla pozza buia del pubblico che, per quel che vedevo, poteva anche essere composto di persone già addormentate o al contrario di mostri assetati di sangue. Ma avevo al mio fianco un compagno esperto e rassicurante, Mirko, che non loderò mai abbastanza e che si era talmente calato nel contesto da cercare di somigliarti anche nel modo di vestire, di sorridere con ironia, perfino nell’ombra di barba che si era lasciata crescere apposta per due giorni.
Io ho raccontato certe cose che sapevo sul suo conto, ma in tre occasioni mi sono interrotta per cedere la parola direttamente e legittimamente a te attraverso la voce di Mirko, che ha offerto al pubblico tre brevi passaggi dalle tue opere. Avrai senz’altro presente: là dove, in Infinite jest, spieghi che per un depresso il suicidio è la scelta obbligata di una soluzione, la morte, che lo terrorizza meno dell’orrore della vita; poi l’incipit di quello stravagante racconto dove c’è quel tipo che accompagna dall’avvocato la madre col viso ridotto a una maschera di terrore indelebile dopo due interventi di chirurgia estetica; e infine i punti di forza della tua descrizione della vita a bordo della Nadir, dove il divertimento, più che relax, è un obbligo stressante.
Il pubblico ha riso, ha pianto, ha drizzato le orecchie e soprattutto ha riflettuto. Guardate, gli ho detto, che Dave non scrive cose incomprensibili: se dite di non capirle, è perché probabilmente sono capitate anche a voi o vicino a voi ma non vi va di ammetterlo. E credo che alla fine mi abbiano dato ragione, perché alla conta dei voti si è visto che avevano creduto in te. Già, perché è così che è andata: David Foster Wallace ha vinto alla grande il premio Nobel per la letteratura dei lettori della biblioteca, distaccando i nomi celebri e meritevoli che si erano battuti con onore, ma forse senza riuscire a cogliere il bersaglio più segreto nel cuore di chi ascoltava.
Sei curioso di conoscere la motivazione? L’ho redatta io, in qualità di proponente, perciò se non ti soddisfa prenditela solo con me. Eccola: “per la sua capacità di drammatizzare e sdrammatizzare la condizione umana del nostro tempo” (mi avevano imposto di essere brevissima!!)
E dopo, come si suol dire, gioia e incredulità, abbracci e baci, diplomi e foto, brindisi e scherzi. E per me, missione compiuta: quella di contribuire a far scoprire ad altri il dono della tua comunicatività, dei tuoi messaggi, delle tue analisi e dei tuoi perdoni. Tu dicevi: “Vorrei riuscire a scrivere libri che la gente leggerà fra cento anni”. Non dubito che ciò accadrà, ma è meglio cominciare da subito, non trovi?

Come dici?
No, no, non se ne parla neanche: per me è stato un onore e un atto d’amore.
Grazie a te, piuttosto. Grazie di tutto.
Hi, Dave.

Se una sera d’inverno il premio Nobel…

Così comincia la breve relazione che leggerò il 3 febbraio davanti al pubblico di lettori e amici della biblioteca, in una serata di cultura e intrattenimento in cui cercheremo di riscrivere il premio Nobel per la letteratura a modo nostro. Ci sarà chi presenterà la candidatura di Sandor Marai, chi quella di Philip Roth, di Marguerite Yourcenar e di Anita Nair. Io presento David Foster Wallace, per il quale ho un debito di gratitudine per avermi prima scossa, poi innamorata e deliziata con il suo mondo così allucinato eppure così umano. E siccome ognuno di noi ha a disposizione solo 14 minuti e l’impresa di condensare è ardua, sono previste altrettante serate monotematiche di approfondimento nei prossimi mesi; un impegno al quale  mi sto già preparando con rispetto e con amore.

Se mai l’austera Accademia di Svezia gli avesse assegnato il Nobel per la letteratura, mi piace immaginare che David Foster Wallace si sarebbe presentato a ritirare il premio nella sua tenuta abituale – capelli raccolti in un codino, bandana sulla fronte, guance non rasate, felpa con il logo dell’università, scarpe da ginnastica – e accompagnato dai suoi due cani, che adorava al punto da affermare di aver bisogno di averli tra i piedi quando scriveva.
Mi piace immaginare che, dopo la cerimonia, si sarebbe concesso – per rilassarsi – una masticatina di tabacco che poi avrebbe sputato nella vecchia tazza da caffè che si portava spesso dietro; un vizio che lo faceva sentire in colpa e dal quale si era quasi del tutto svezzato, ma l’occasione eccezionale avrebbe giustificato uno strappo alla regola.
Mi piace immaginare che avrebbe devoluto l’assegno del premio a una di quelle strutture che si occupano del recupero di soggetti con dipendenza da alcol, farmaci o sostanze stupefacenti, come quelle descritte con straziante precisione in quel capolavoro che è il suo Infinite jest.
Mi piace immaginare che il prestigioso e compitissimo parterre non si sarebbe scandalizzato per il suo aspetto trasandato, non lo avrebbe censurato come un eccentrico, irriverente anticonformista, ma avrebbe visto in lui l’espressione di un’anima trasparente e leale al punto da apparire quasi indifesa, e comunque assolutamente libera e autentica.
Mi piace immaginare.
Ma la realtà è che David Foster Wallace non riceverà più alcun premio se non alla memoria, perché si è tolto la vita nel 2008 a soli quarantasei anni, impiccandosi nella sua casa in California. Un atto estremo che familiari e amici da anni paventavano, perché quanti lo conoscevano bene conoscevano anche il tormento che devastava questo ragazzone prestante, sportivo, brillante e scanzonato, e ormai giunto alla notorietà internazionale e al successo di pubblico come scrittore: la depressione. Una depressione evidentemente endogena, una malattia bastarda che lo accompagnava fin dall’adolescenza e che gli aveva fatto conoscere i reparti psichiatrici e la schiavitù degli psicofarmaci. Negli ultimi anni, l’assuefazione ai farmaci antidepressivi e il fallimento di ogni ulteriore tentativo terapeutico aveva fatto di lui un depresso incurabile. E la sua scelta così drastica fra la vita (o meglio la non-vita, perché tale è la vita di un depresso a quello stadio) e la morte è un suicidio annunciato, forse già previsto in questo brano tratto da Infinite jest, il suo romanzo-fiume e il più acclamato, uscito nel 1996, in cui viene descritta la depressione con toni asciutti ma tragicamente rispondenti a verità:

La persona che ha una così detta “depressione psicotica” e cerca di uccidersi non lo fa aperte le virgolette “per sfiducia” o per qualche altra convinzione astratta che il dare e avere nella vita non sono in pari. E sicuramente non lo fa perché improvvisamente la morte comincia a sembrarle attraente. La persona in cui l’invisibile agonia della Cosa raggiunge un livello insopportabile si ucciderà proprio come una persona intrappolata si butterà da un palazzo in fiamme. Non vi sbagliate sulle persone che si buttano dalle finestre in fiamme. Il loro terrore di cadere da una grande altezza è lo stesso che proveremmo voi o io se ci trovassimo davanti alla finestra per dare un’occhiata al paesaggio; cioè la paura di cadere rimane una costante. Qui la variabile è l’altro terrore, le fiamme del fuoco: quando le fiamme sono vicine, morire per una caduta diventa il meno terribile dei due terrori. Non è il desiderio di buttarsi; è il terrore delle fiamme. Eppure nessuno di quelli in strada che guardano in su e urlano “No!” e “Aspetta!” riesce a capire il salto. Dovresti essere stato intrappolato anche tu e aver sentito le fiamme per capire davvero un terrore molto peggiore di quello della caduta.

2011: promossi e bocciati

Il mio 2011 di lettrice è stato caratterizzato da due fatti: il primo è che, per motivi tristissimi – sui quali sorvolo ché è meglio – contiene un buco di alcuni mesi durante i quali è già tanto se sono riuscita a leggere o rileggere il caro, vecchio e terapeutico Asimov; il secondo, che per quel che mi riguarda si è realizzato il sorpasso delle letture digitali su quelle tradizionali. Già nell’autunno del 2010 mi ero provvista di e-reader, spendendo i soldi più intelligenti degli ultimi cinque anni, e da allora la mia disponibilità di letture si è ingigantita, oltre a essere immensamente aumentata la comodità di leggere. Nota bene che in precedenza ero stata una tenace assertrice della superiorità della carta e dell’inchiostro, ma una rivelazione sulla via di Amazon mi ha illuminata, e la mia conversione è stata felice e convinta. Poi, dico, riconsiderare le proprie convinzioni e ammettere che poteva anche trattarsi di pregiudizi un po’ sclerotici è sempre cosa buona e salutare. Un po’ per volta ho accumulato un posseduto in e-book che mai mi sarei potuta permettere in carta rilegata, e me lo posso portar dietro dove mi pare: un’intera biblioteca in borsa, ma ci starebbe anche in tasca solo che le signore non usano le tasche perché si sformano, e poi non rinunciano mai a una bella borsa comoda e piena di cose che forse potrebbero servire e che poi invece non servono mai, ma ci si affeziona.
Ciò premesso, è di libri letti e di giudizi dati che intendevo parlare. E comincio col rammaricarmi che il 2011 sia stato un anno senza acuti, senza libri memorabili, ma purtuttavia con qualche titolo che si è meritato la lettura e ha strappato il mio esigente e personalissimo gradimento. Altri invece mi hanno disturbata o annoiata, e perciò non sfuggiranno alla mia censura. Però mi limiterò a pochi casi, anche perché non tengo nota di tutto ciò che leggo, e viceversa non ho più sufficiente memoria per ricordarlo ugualmente. I libri che elenco sono evidentemente quelli che nel bene o nel male si fanno ricordare da soli.
L’ultima sposa di Palmira (Giuseppe Lupo): ecco, questo è forse il migliore. Un libro originale e visionario, complessivamente non stucchevole, con uno scenario evocato con grande suggestione e certe atmosfere da realismo magico che mi hanno fatto subito pensare a Garcia Marquez e al suo Macondo. Libro ben scritto, immaginifico e onesto. 8/10
Non tutti i bastardi sono di Vienna (Andrea Molesini): questo manco l’ho continuato perché ho trovato contorte, penose e presuntuose le prime 50 pagine. Molesini mi sembra pieno di spocchia al punto da non riuscire a descrivere in modo realistico nemmeno un ambiente, quello veneto, che dovrebbe conoscere bene e che io, essendo veneta anzi veneziana come lui, gli contesto visceralmente. Libro insincero, costruito, scostante. 3/10
Il fasciocomunista (Antonio Pennacchi) nel complesso mi ha divertita, è un libro pieno di vita e di sapori, un libro gustoso come era stato Canale Mussolini del quale però non regge il confronto, un libro in cui Pennacchi dimostra la naturalezza e la personalità che deve possedere un vero scrittore. Agli antipodi di Molesini, per parlar chiaro. Gli perdono volentieri una certa lungaggine e qualche ripetizione, perché molte scene e tutti assolutamente tutti i dialoghi sono tecnicamente e emotivamente perfetti. Libro simpatico, sanguigno e credibile. 8/10
Settanta acrilico trenta lana (Viola Di Grado): mah, che dire. Le auguro di maturare e di dare un senso alla sua scrittura, uno spessore alle sue storie, perché talento ne ha, ma certo se continua così a scrivere un misto di trash e intellettuale con larghe dosi di compiacimento commerciale e di effetti speciali di bassa lega le si aprono due possibilità opposte: un gran successo di cassetta oppure la fine di una meteora. Libro che comincia benissimo ma presto scivola nell’eccesso gratuito. Disturbante. 4/10
Indignazione (Philip Roth): scritto bene, benissimo, da un maestro che sa perfettamente come gestire la tecnica senza ostentarla. E tuttavia un libro che mi ha sconcertata, forse perché ci riponevo troppe aspettative. Quello che mi è mancato del tutto è il feeling con lo stile e con la tematica, e me ne dispiace perché, ripeto, concordo con i suoi fans sul fatto che sia un autore eccellente. Ma io avverto una certa vanità, sia nel senso di una eccessiva considerazione di sé, sia in quello di una assenza di verità. Mi infastidisce (anzi mi indigna) un protagonista sbarbatello ventenne che definisce indignazione quello che altro non è che complesso di persecuzione e dedizione al culto di un microcosmo circoscritto alle infime dimensioni del proprio ombelico. Libro freddo e (ho la sensazione) contraddittorio. Però siccome di Roth non ho letto altro sospendo il giudizio e lo rimando prudentemente a settembre.
Il re pallido (David Foster Wallace, e chi sennò?): l’evento dell’anno almeno per chi, come me, venera questo immenso autore e ringrazia il Fato di poter leggere ancora qualcosa (e che cosa) di suo a tre anni dalla morte per suicidio. Non sarà mai un capolavoro come Infinite jest, ma solo per il semplice motivo che è rimasto incompiuto e avrebbe necessitato di qualche altro anno di lavoro per apparire nella forma organica che stava già tutta nella vulcanica mente del suo autore. Un libro difficile, complesso, eppure trasparente, che richiede solo la massima dedizione e umiltà perché ciò che dice risulti chiarissimo. DFW non si nascondeva dietro metafore, non era criptico, non era un venditore di fumo: diceva sempre le cose come stanno, poi però sta a chi lo legge accettare di arrendersi all’evidenza che lui le aveva capite e noi invece preferiamo mettere la testa sotto. Libro superiore, libro-summa, libro complicato ma illuminante, libro da leggere assolutamente per ultimo dopo essere passati per i suoi romanzi e saggi precedenti, e se possibile nell’ordine in cui sono usciti. Se non gli do il massimo dei voti è solo perché il materiale è stato riordinato e rielaborato – quanto arbitrariamente non lo sapremo mai – da altri. Ma alle premesse e alla memoria un 9/10 non glielo leva nessuno.

Una bella gatta da pelare

Per il 3 febbraio ho accettato di partecipare alla nuova (velleitaria?? nooo!) iniziativa della Biblioteca: Il Nobel secondo noi, una serata di cultura e intrattenimento sulla scia del già collaudato Campiello? Remake! che si svolge da due anni poco dopo l’assegnazione del premio-Campiello-quello-vero, e che entrambe le volte ha completamente sovvertito la classifica. In pratica, utenti volonterosi della Biblioteca presentano libri e autori in lizza e li sottopongono al giudizio del pubblico, che ha dimostrato di gradire queste competizioni e finora ha partecipato numeroso e caloroso.
Allora ‘sto Nobel: saremo in cinque e ciascuno proporrà il suo candidato, con il supporto di un partner che leggerà dei brani originali.
Io non potevo dire di no, anche perché non ho mai avuto dubbi sul mio candidato. Ed è qui che dovrò mettermi a pelare la gatta, perché non è uno qualunque ma un personaggio complesso e forse per il grande pubblico anche alquanto indigesto.
Eccolo qua: David Foster Wallace.David Foster Wallace Hai detto niente.
Oh certo, su di lui c’è così tanto da dire da essere solo in imbarazzo, ma appunto in imbarazzo lo sono eccome, dato che dovrò condensare tutto in 14 minuti netti.
Fa niente, per DFW val la pena impegnarsi al massimo. E poi con la mia esperienza di gattofila una gatta da pelare in più o una in meno a me mi fa un baffo.