Don DeLillo: Il silenzio

Silenzio_DeLillo_copSeguo Don DeLillo da anni, ho letto almeno una dozzina di suoi romanzi (cioè quasi tutti) e li ho sempre trovati all’altezza della mia ricerca di una scrittura alta, libera, eclettica, in equilibrio tra sontuosità e minimalismo. Sempre dritta allo scopo, sul bersaglio, con una precisione crudele che si va scoprendo mano a mano che il lettore – mentre si lascia non solo affabulare ma condurre proprio, volente o no, al centro del Male comune dell’esistenza su questa Terra e nell’intero Universo, per non dire nella Storia – ci mette del proprio, ci mette se stesso e si piega a porlo in discussione a rischio di uscirne, nella migliore delle ipotesi, tramortito come dopo una crisi di vertigini parossistiche.
Cento pagine, poche per chi è affamato ma sufficienti per un Autore che, a mio avviso, in questo romanzo non fa altro che proporre un Tema e lasciare al lettore le domande da farsi. Risposte no, perché non ce ne sono, o forse perché bisogna essere molto ma molto ma molto presuntuosi per dichiarare di possederne. E questa, credo, è la missione degli scrittori, degli intellettuali: stimolare le domande, non imbonire i lettori con risposte (con risposte, perlomeno, che non siano quelle dei lettori stessi).
Ci ho riflettuto, e adesso credo di aver capito perché queste 100 pagine (che aspettavo da mesi nella traduzione italiana) mi hanno inizialmente fatto pensare “Ma qui manca qualcosa…”. È perché questo romanzo su una attualità tuttora in corso (la dittatura digitale che l’Umanità si è autoimposta) non è altro che un incipit che DeLillo ci consegna affinché in qualche modo (e cioè ognuno a modo proprio) guardiamo oltre la nebbia spessa di questo inizio e possibilmente facciamo sì che non si trasformi in una fine.
In altre parole, il resto di questo romanzo è ancora tutto da scrivere, addirittura da pensare. Un po’ come se DeLillo ci avvisasse “Ragazzi, è una vita che scrivo per mettervi in guardia dai mostri dell’alienazione ma voi ancora non ci arrivate, neanche dopo/durante questa pandemia che andava colta come un’Occasione per liberarsi dalle ossessioni superflue del nostro tempo. Ora non ho più parole, le prossime pagine aggiungetele voi”.

Libro da leggere solo dopo aver letto alcuni degli altri precedenti, da Cosmopolis a Rumore bianco passando per gli imprescindibili Americana, Underworld e quel frutto perfetto della maturità che è Zero K.

Don DeLillo: End zone

Dopo la morte di David Foster Wallace, mi sono attaccata ancora di più a Don DeLillo nel tentativo di colmare quel vuoto. Mi dico: meno male che c’è rimasto lui, meno male che ha scritto tanto e pare abbia ancora la voglia di continuare, e allora che Dio ce lo conservi un altro po’, dai.

End zone, che prende il titolo da un termine tecnico del football americano, è un romanzo del 1972, ma inspiegabilmente non era mai stato tradotto in italiano fino a quest’anno. È appena il secondo romanzo di DeLillo, che all’epoca aveva 36 anni, eppure è sorprendente l’evidenza del suo talento già compiuto, in nulla inferiore a quello espresso nei romanzi successivi della maturità. La vicenda è quella di un giovane che trascorre un anno in un college dove si incentiva lo sport del football americano, del quale DeLillo è sempre stato un grande appassionato e conoscitore. Si tratta di uno sport in cui la fisicità e l’agonismo sono esasperati al massimo, secondo alcuni una specie di metafora della guerra, anche se, come dice uno dei personaggi, «io rifiuto il parallelismo tra football e guerra, la guerra è guerra. Non abbiamo bisogno di succedanei dal momento che abbiamo l’originale». Il football è al centro del romanzo – che contiene fra l’altro la lunghissima e mirabile descrizione di una partita all’ultimo sangue, una vera e propria prova d’Autore. Ma altri sono i temi toccati: lo spettro della guerra nucleare, l’incomprensibilità della vita, la paura della morte. Il libro racchiude in pratica le inquietudini della generazione di giovani americani degli anni ’60, iniziati con l’assassinio del presidente Kennedy nel 1963 e segnati dalle minacce della guerra fredda e dall’incubo del Vietnam. DeLillo in ogni suo libro ha cantato l’America come un grande Paese contraddittorio; il suo è una specie di canto addolorato e a volte rabbioso, una denuncia accorata dei mali che lo attraversano e lo destabilizzano. Questo non è un romanzo riposante, di evasione. Nessuno dei romanzi di DeLillo lo è. Al contrario, è un romanzo denso, che scava e illumina, in cui ogni parola e frase è necessaria e al suo posto, che si tratti di elucubrazioni mentali, di descrizioni liriche dei paesaggi o di dialoghi solo apparentemente disimpegnati tra studenti.
Leggetelo se già vi piace DeLillo o se almeno siete interessati al football americano.
Leggetelo se vi pare che i due brevi frammenti trascritti qui sotto vi ispirino rispetto e ammirazione per questo grande autore, che cerca in ogni suo scritto di interpretare la coscienza globale dello spirito americano.

“Non voglio sentire nemmeno una parola sul valore del retaggio di una persona. Sono un individuo del ventesimo secolo. Mi sto esercitando a raggiungere uno stadio dell’esistenza che vada al di là della colpa, al di là del sangue, al di là del ridicolo passato. Meno male che esiste l’America. In questo paese è possibile raggiungere un obiettivo del genere. Io voglio guardare dritto davanti a me. Voglio vedere le cose con chiarezza. La storia non è la più accurata delle profezie. Io rifiuto il Dio iracondo degli ebrei. Io rifiuto il Dio cristiano dell’amore e del denaro, sebbene non rifiuti l’amore in sé o il denaro in sé. Io rifiuto l’idea di retaggio, origini, tradizione e diritto di nascita. Queste cose non fanno che rallentare il progresso della razza umana. Generano solo guerra e follia, guerra e follia, guerra e follia”.

“Qual è la cosa più strana di questo paese? Ecco la risposta: che quando mi sveglierò domani mattina, una mattina come tutte le altre, il primo pensiero spaventoso non saranno i nemici della nostra nazione, i nemici storici contro i quali combattiamo la nostra guerra fredda o la guerra comesichiama. Quella gente lì non mi fa affatto paura. E allora di chi ho paura io, perché non c’è dubbio che io abbia paura di qualcosa. Ve lo dico subito. Ė il mio stesso paese a farmi paura. Io ho paura degli Stati Uniti d’America. Ė ridicolo, non è vero? Ma è così. Prendiamo il Pentagono, per esempio. Se mai qualcuno ci ucciderà su vasta scala, questo sarà il Pentagono. Su piccola scala invece dovete stare in guardia dalla polizia locale. Può capitare che due agenti gentili, laureati e garbati, della squadra che si occupa del lavaggio del cervello vengano a bussare a casa mia alle tre di notte? Voi vedete il mio sorriso accattivante e contagioso e capite che questo pensiero non mi provoca alcuna ansia. Dopotutto siamo in America. Possiamo parlare liberamente. Non smetto di dirmi che non ho motivo di preoccuparmi finché la gioventù americana sarà consapevole di quello che le succede intorno”.

Hotel du Lac

Il libro che ho presentato ieri sera in biblioteca al pubblico dei circa trenta Lettori Assatanati del Venerdì è dell’inglese Anita Brookner, oggi ottantaquattrenne, una storica e critica dell’arte che ha insegnato a lungo all’università di Cambridge. È però anche una valente scrittrice, più nota nei Paesi anglofoni che in Italia, ed è stata paragonata a nomi del calibro di Henry James, Jane Austen e Virginia Woolf. Con questo romanzo, Hotel du lac, del 1984, ha vinto il massimo premio letterario d’Inghilterra, il Booker Prize, che equivale al nostro Campiello o allo Strega.

L’ho letto per due motivi. Anzitutto mi è stato consigliato da mia sorella (sì, la cito spesso, ma converrete che ha un suo perché), la quale come lettrice è ancora più assatanata di me e poi legge in lingua originale ed è anche una meticolosa conoscitrice di Virginia Woolf, che anche questo ha un suo perché. Il secondo motivo è che il titolo suggerisce una vicenda ambientata in un albergo. L’idea di un albergo mi interessava perché è uno di quei posti, come chessò un condominio, un treno, una sala d’aspetto eccetera, anche solo una banale coda a uno sportello, in cui va e viene un’umanità varia, fatta di sconosciuti di passaggio che magari non hanno motivo di parlarsi ma che portano, ognuno, una propria storia nascosta. Quindi un ambiente che si presta moltissimo per uno studio di caratteri, un ambiente che molti scrittori amano riprodurre perché consente loro di mettere in scena molte storie diverse all’interno di un’unica storia, con un filo conduttore non troppo vincolante, che lascia ampio spazio all’immaginazione e alla riflessione.
La vicenda dunque si svolge in un vecchio e distinto albergo sul lago di Ginevra, dallo stile aristocratico e forse appena appena un po’ decaduto, ma sempre frequentato da persone altolocate in cerca di un soggiorno tranquillo e confortevole. La stagione è l’inizio dell’autunno, quando ormai i villeggianti più giovani e animati sono ripartiti e rimangono solo ospiti di una certa età, ovviamente facoltosi. In questo albergo arriva Edith, scrittrice quasi quarantenne, una figura dimessa, riservata, malinconica, per un soggiorno che potremmo definire coatto: non è una vera vacanza, bensì una specie di esilio temporaneo cui è stata costretta in seguito a uno scandalo di cui è stata al centro, e che verrà rivelato solo intorno alla metà del romanzo. Edith scrive storie romantiche e ha un buon successo; si è scelta uno pseudonimo le cui iniziali sono V, come Virginia, e W, come Woolf. Anche nell’aspetto somiglia alla grande scrittrice, glielo dicono tutti, e questo particolare ha un suo retroscena curioso nella realtà perché la stessa Brookner, come dicevo, è stata paragonata a Virginia Woolf, e devo dire che sono piuttosto d’accordo.
Questa Edith è un’eroina un po’ fuori moda, se vogliamo, di quelle in gonna di tweed e cardigan; una donna che può ormai dirsi quasi una zitella, che non ha avuto molta fortuna con gli uomini, che ha una relazione segreta con un uomo sposato che non lascerà mai sua moglie, che si aspetta dalle amicizie qualcosa di più che parole e gesti convenzionali. Una donna che vive in penombra, abituata più a subire che a essere protagonista. E in questo momento della sua vita si trova, volente o nolente, nella condizione di doversi tenere ancora più in disparte, e di questa quarantena forzata approfitta per tentare di completare il suo ultimo romanzo ma anche di sottoporre ad autocritica la sua esistenza sull’orlo del fallimento.
All’albergo si trova obbligata dalla buona educazione a frequentare gli altri ospiti. I personaggi più importanti e meglio delineati sono tutti femminili, e la loro funzione è principalmente quella di esaltare il confronto con la protagonista perché tutti, in un modo o nell’altro, rappresentano un mondo di ricchezza, superficialità, vanità, camuffate da successo.
C’è una vecchia nobildonna completamente sorda e per nulla socievole, Mme de Bonneuil: una donna anziana, molto piccola, con la faccia simile a quella di un bulldog, e gambe così arcuate che sembrava ondeggiare da una parte e dall’altra nello sforzo di tenersi in piedi.
Un’altra, più giovane, dall’aspetto affascinante, si chiama Monica: una donna alta, di straordinaria magrezza, con la testa stretta e ciondolante di un uccellino. In lei tutto sembrava esagerato: la statura, la lunghezza delle sue straordinarie dita, la voce imperiosa, gli enormi occhi color ostrica dietro le lenti scure degli occhiali.
Ci sono due donne inseparabili, madre e figlia, Iris e Jennifer, che solo da vicino rivelano la loro vera età: quasi ottanta la prima e verso i quaranta la seconda, ma entrambe giocano a fare le sirene, sono belle, ricche, lussuosamente vestite e ingioiellate, sempre al centro dell’attenzione, ostentando la loro familiarità con gli ambienti più raffinati.
All’inizio Edith è in imbarazzo nei confronti di queste donne così diverse da lei, ma poco a poco capisce che ognuna di loro è una maschera. La nobildonna è una vecchia sola, trascurata dal figlio e dalla nuora e isolata dal mondo anche a causa della sua sordità. La bella donna magra che sembra una flessuosa danzatrice nasconde una storia di nevrosi e frustrazioni. Madre e figlia, così incantevoli, sono in realtà due persone arroganti, superficiali e meschine.
Nel cast vi sono anche degli uomini, ma sono delineati meno acutamente e in fondo si somigliano un po’ tutti. L’autrice, e questo secondo me è un suo limite, li ha disegnati secondo lo stereotipo del maschio egoista che non capisce i misteri della sensibilità femminile e che bada prima di tutto alla propria immagine di uomo arrivato e rispettabile.

Il romanzo si basa quasi tutto su questa analisi di caratteri. C’è pochissima azione, a parte l’antefatto dello scandalo che qui non rivelerò per rispetto di chi volesse scoprirlo da solo; viceversa c’è molta atmosfera, ed è questo che me lo ha fatto apprezzare. Ho anche apprezzato il finale, in cui la protagonista sembra aver preso maggiore coscienza di sé e all’ultimo momento riuscirà ad evitare  un altro ennesimo errore.
È una storia in cui l’amore ha il suo peso ma per fortuna non è trattato con eccessivo sentimentalismo, altrimenti non avrei letto fino in fondo. La mano femminile si avverte molto proprio nella capacità analitica e descrittiva e nell’eleganza raffinata dello stile. Un romanzo con un suo fascino, che può fare compagnia senza deprimere, adatto però più a un pubblico femminile.

2011: promossi e bocciati

Il mio 2011 di lettrice è stato caratterizzato da due fatti: il primo è che, per motivi tristissimi – sui quali sorvolo ché è meglio – contiene un buco di alcuni mesi durante i quali è già tanto se sono riuscita a leggere o rileggere il caro, vecchio e terapeutico Asimov; il secondo, che per quel che mi riguarda si è realizzato il sorpasso delle letture digitali su quelle tradizionali. Già nell’autunno del 2010 mi ero provvista di e-reader, spendendo i soldi più intelligenti degli ultimi cinque anni, e da allora la mia disponibilità di letture si è ingigantita, oltre a essere immensamente aumentata la comodità di leggere. Nota bene che in precedenza ero stata una tenace assertrice della superiorità della carta e dell’inchiostro, ma una rivelazione sulla via di Amazon mi ha illuminata, e la mia conversione è stata felice e convinta. Poi, dico, riconsiderare le proprie convinzioni e ammettere che poteva anche trattarsi di pregiudizi un po’ sclerotici è sempre cosa buona e salutare. Un po’ per volta ho accumulato un posseduto in e-book che mai mi sarei potuta permettere in carta rilegata, e me lo posso portar dietro dove mi pare: un’intera biblioteca in borsa, ma ci starebbe anche in tasca solo che le signore non usano le tasche perché si sformano, e poi non rinunciano mai a una bella borsa comoda e piena di cose che forse potrebbero servire e che poi invece non servono mai, ma ci si affeziona.
Ciò premesso, è di libri letti e di giudizi dati che intendevo parlare. E comincio col rammaricarmi che il 2011 sia stato un anno senza acuti, senza libri memorabili, ma purtuttavia con qualche titolo che si è meritato la lettura e ha strappato il mio esigente e personalissimo gradimento. Altri invece mi hanno disturbata o annoiata, e perciò non sfuggiranno alla mia censura. Però mi limiterò a pochi casi, anche perché non tengo nota di tutto ciò che leggo, e viceversa non ho più sufficiente memoria per ricordarlo ugualmente. I libri che elenco sono evidentemente quelli che nel bene o nel male si fanno ricordare da soli.
L’ultima sposa di Palmira (Giuseppe Lupo): ecco, questo è forse il migliore. Un libro originale e visionario, complessivamente non stucchevole, con uno scenario evocato con grande suggestione e certe atmosfere da realismo magico che mi hanno fatto subito pensare a Garcia Marquez e al suo Macondo. Libro ben scritto, immaginifico e onesto. 8/10
Non tutti i bastardi sono di Vienna (Andrea Molesini): questo manco l’ho continuato perché ho trovato contorte, penose e presuntuose le prime 50 pagine. Molesini mi sembra pieno di spocchia al punto da non riuscire a descrivere in modo realistico nemmeno un ambiente, quello veneto, che dovrebbe conoscere bene e che io, essendo veneta anzi veneziana come lui, gli contesto visceralmente. Libro insincero, costruito, scostante. 3/10
Il fasciocomunista (Antonio Pennacchi) nel complesso mi ha divertita, è un libro pieno di vita e di sapori, un libro gustoso come era stato Canale Mussolini del quale però non regge il confronto, un libro in cui Pennacchi dimostra la naturalezza e la personalità che deve possedere un vero scrittore. Agli antipodi di Molesini, per parlar chiaro. Gli perdono volentieri una certa lungaggine e qualche ripetizione, perché molte scene e tutti assolutamente tutti i dialoghi sono tecnicamente e emotivamente perfetti. Libro simpatico, sanguigno e credibile. 8/10
Settanta acrilico trenta lana (Viola Di Grado): mah, che dire. Le auguro di maturare e di dare un senso alla sua scrittura, uno spessore alle sue storie, perché talento ne ha, ma certo se continua così a scrivere un misto di trash e intellettuale con larghe dosi di compiacimento commerciale e di effetti speciali di bassa lega le si aprono due possibilità opposte: un gran successo di cassetta oppure la fine di una meteora. Libro che comincia benissimo ma presto scivola nell’eccesso gratuito. Disturbante. 4/10
Indignazione (Philip Roth): scritto bene, benissimo, da un maestro che sa perfettamente come gestire la tecnica senza ostentarla. E tuttavia un libro che mi ha sconcertata, forse perché ci riponevo troppe aspettative. Quello che mi è mancato del tutto è il feeling con lo stile e con la tematica, e me ne dispiace perché, ripeto, concordo con i suoi fans sul fatto che sia un autore eccellente. Ma io avverto una certa vanità, sia nel senso di una eccessiva considerazione di sé, sia in quello di una assenza di verità. Mi infastidisce (anzi mi indigna) un protagonista sbarbatello ventenne che definisce indignazione quello che altro non è che complesso di persecuzione e dedizione al culto di un microcosmo circoscritto alle infime dimensioni del proprio ombelico. Libro freddo e (ho la sensazione) contraddittorio. Però siccome di Roth non ho letto altro sospendo il giudizio e lo rimando prudentemente a settembre.
Il re pallido (David Foster Wallace, e chi sennò?): l’evento dell’anno almeno per chi, come me, venera questo immenso autore e ringrazia il Fato di poter leggere ancora qualcosa (e che cosa) di suo a tre anni dalla morte per suicidio. Non sarà mai un capolavoro come Infinite jest, ma solo per il semplice motivo che è rimasto incompiuto e avrebbe necessitato di qualche altro anno di lavoro per apparire nella forma organica che stava già tutta nella vulcanica mente del suo autore. Un libro difficile, complesso, eppure trasparente, che richiede solo la massima dedizione e umiltà perché ciò che dice risulti chiarissimo. DFW non si nascondeva dietro metafore, non era criptico, non era un venditore di fumo: diceva sempre le cose come stanno, poi però sta a chi lo legge accettare di arrendersi all’evidenza che lui le aveva capite e noi invece preferiamo mettere la testa sotto. Libro superiore, libro-summa, libro complicato ma illuminante, libro da leggere assolutamente per ultimo dopo essere passati per i suoi romanzi e saggi precedenti, e se possibile nell’ordine in cui sono usciti. Se non gli do il massimo dei voti è solo perché il materiale è stato riordinato e rielaborato – quanto arbitrariamente non lo sapremo mai – da altri. Ma alle premesse e alla memoria un 9/10 non glielo leva nessuno.

Mort en terre étrangère

di Donna Leon

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Donna Leon: un nome che sembra uno pseudonimo, e se così fosse sarebbe anche azzeccato, accattivante. Le sue biografie la descrivono come una signora americana che vive da decenni a Venezia; si favoleggia addirittura che insegni (o abbia insegnato) qualche cosa all’università di Ca’ Foscari, un dato, questo, che potrei facilmente verificare, se ne valesse veramente la pena. Dirò che non la vale, perché non ho alcuna difficoltà a concordare sulla sua capacità di scrivere in modo più che scorrevole, come ci si aspetta da una persona che frequenti la cultura. In effetti, l’impulso a continuare la lettura di questo romanzo – l’unico finora che ho letto dei quattro che sono in attesa sul mio tavolo – è venuto proprio dal suo incipit, che ho trovato molto promettente dal punto di vista stilistico (anche se poi ho trovato inadeguata e sdolcinata la chiusa, che insieme all’incipit è l’aspetto di un romanzo che andrebbe maggiormente curato perché è uno di quelli che più facilmente fanno breccia sul lettore e ne decretano il gradimento). A Donna Leon riconosco il merito di saper offrire scene estremamente verosimili, curate nei particolari come immagini di un film a colori, e di saper avvolgere il lettore in atmosfere suggestive sfruttando uno scenario adattissimo allo scopo e tradizionalmente prediletto da molti scrittori quale quello rappresentato da Venezia, una città che è nei sogni di tutti. Però, considerando che il genere di Donna Leon è il poliziesco, che il suo eroe è un commissario di polizia e che i suoi intrecci sono incentrati su fatti criminosi e le relative indagini, si converrà che lo stile sicuro (ma senza guizzi) e l’abilità descrittiva (ma un po’ troppo diligente) non sono ingredienti sufficienti quando, viceversa, la trama e la suspense sono talmente esili da restare sopraffatte dalle continue scene o scenette di contorno. Ricorderei volentieri che altri maestri del genere, in particolare Simenon, raggiungono il massimo dell’espressività attraverso un linguaggio scarno e diretto, laddove alla signora Leon sembra non bastino mai le parole: la sua narrazione, per quanto gradevolmente leggibile nel complesso, si affida insistentemente a caratterizzazioni di facile presa popolare e a descrizioni pedantemente didascaliche, con un gusto per l’esposizione minuta che poco si attaglia al carattere virile di un noir. Sembrerebbe che il primo obiettivo dell’Autrice sia non tanto catturare l’attenzione del lettore sui misteri di casi polizieschi e sulle ricerche che li portano a soluzione, quanto piuttosto disegnare con dovizia di mezzi lo sfondo su cui essi si volgono; vengono privilegiati, con non sempre comprensibile insistenza, descrizioni di ambienti e di luoghi, resoconti di colloqui professionali ma più spesso privati, considerazioni di ordine vario e generale che poco hanno a che fare con il caso trattato e che spaziano con discutibile disinvoltura su molti, moltissimi (forse tutti) aspetti della società italiana, della quale da anni Donna Leon è evidentemente critica osservatrice. Suppongo che tutto questo, nelle intenzioni dell’Autrice, sia volto a presentare, all’interno di un romanzo, uno spaccato del nostro Paese visto attraverso l’impietosa (e condivisibile, certo) esposizione dei molti mali che lo affliggono: dalla mafia, alla corruzione, alle connivenze ad alto livello, all’insabbiamento politico degli scandali, all’inquinamento dell’ambiente, al traffico di rifiuti tossici, non ne sfugge uno alla denuncia, ma soprattutto lascia perplessi l’ingenua caparbietà di affrontarli tutti insieme, quasi di ammucchiarli, benché alla rinfusa, in un unico calderone, a rendere il brodo più gustoso oppure, e più verosimilmente, più lungo. Ma se in un solo romanzo, il primo e l’unico che ho finora letto, l’Autrice è riuscita a stipare e sviscerare praticamente tutti i temi della nostra attualità italiana assegnando a ciascuno di essi un ruolo di diverso peso e responsabilità nel corso di una stessa indagine, mi chiedo a cos’altro si appellerà negli altri romanzi per riempirne i capitoli, come troverà nuove idee, nuove piste per il suo commissario, se non tornando a sfruttare questi stessi argomenti che, ammettiamolo, proprio perché risaputi e scomodi fanno tuttavia audience. E in quel caso, al povero recensore non resterà di meglio che ripetersi lui stesso.
Il caso in questione inizia con il ritrovamento, in un canale, di un cadavere, che si scoprirà presto essere quello di un militare americano di stanza alla vicina base statunitense di Vicenza; si complica poi con un’altra morte sospetta, e si intreccia (un po’ macchinosamente) anche con un furto d’arte. Ce n’è abbastanza per tener viva l’attenzione di un lettore di polizieschi, direi; eppure a queste vicende viene dedicato meno spazio di quello che occupano le frequenti e dettagliatissime scene di puro contorno e le altrettanto frequenti e ripetitive – nonché poco originali – elucubrazioni sulla politica, l’attualità e i molti luoghi comuni che all’estero è prassi attribuire agli italiani. Ci si spiega facilmente il motivo per il quale Donna Leon, popolare in tutto il mondo e tradotta in molti paesi, si sia sempre opposta alla traduzione dei suoi libri nella nostra lingua, per arginare la loro distribuzione a un più vasto pubblico e in tal modo limitare l’impatto sgradevole che le sue critiche al sistema Italia potrebbero avere presso lo stesso. Infatti, questo romanzo e gli altri di cui sono venuta in possesso sono copie della loro versione in lingua francese, edita da Calmann-Lévy, e confesso che il fatto di poterli leggere in una lingua a me tanto cara rappresenta forse il vero piacere di questa lettura. Una lettura che non arriverò a giudicare inutile, dato che un certo svago ne ho ricavato, ma che tuttavia definirei “senza infamia e senza lode”. Una lettura, mi è venuto da pensare più volte, da metropolitana: ma in fondo, ammettiamolo, per i nostri momenti di evasione senza pretese, per colmare piccole noie e attese, è proprio di questo genere di letture che andiamo in cerca. E dunque, senza falsi snobismi, lunga vita ora e sempre alla letteratura popolare, e alla spensierata compagnia che ci regala.

L’eleganza del riccio

di Muriel Barbery
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Di questo libro parlerò bene, e volentieri, perché fra gli ultimi che ho letto è forse quello che maggiormente mi ha colpita. Il mio apprezzamento è comunque tardivo e preceduto da quello unanime con il quale è stato accolto in Francia, dove nel 2006 è stato definito il “caso letterario dell’anno”, nonché da quello che sta riscuotendo – e per fortuna, aggiungo – anche nel nostro Paese, che credo di poter affermare non annoveri, nell’attuale panorama letterario, una scrittrice di razza paragonabile a Muriel Barbery. La formazione culturale di alto livello dell’Autrice traspare tutta sia nell’eleganza dello stile che nella finezza dell’intreccio, se di intreccio si può parlare in una storia in realtà priva di una vera e propria trama e basata più che altro su una serie di quadri descrittivi e di riflessioni. Dunque, più che di intreccio sarebbe il caso di parlare di “tema”, e il tema è giusto quello sintetizzato nel titolo: l’eleganza trattata dalla Barbery è quella di un animo nascosto, un’eleganza intellettuale celata dietro una voluta apparenza di ottusità e sciatteria, e difesa dagli sguardi altrui (per mancanza di fiducia nel prossimo o in se stessa?) con l’agguerrita tenacia con cui un riccio dispiega tutti i suoi aculei per proteggere la propria fragilità.
Il riccio elegante in questione è Mme Renée Michel, portinaia di un signorile palazzo parigino abitato da persone altolocate che fanno sfoggio, ahimè, di alcuni dei vizi più diffusi proprio in un certo ambiente: la boria, l’ipocrisia, il culto dell’apparenza e, spesso, la più elementare ignoranza. All’opposto, Mme Michel svolge il suo oscuro lavoro di guardiola interpretando il suo personaggio secondo i canoni più tradizionali: bruttina, grassoccia, dimessa, perfino mentalmente limitata, questo è il cliché di ogni portinaia parigina che si rispetti, e questa è soprattutto la maschera che, indossata ogni giorno durante l’orario di servizio, le permette di nascondere doti inusuali che, messe allo scoperto, farebbero di lei una anomalia inquietante, una presenza scomoda e fuori luogo in un ambiente snob come quello. Perché Mme Michel, nel rifugio delle sue due stanze a pianterreno che condivide con un canonico gatto, coltiva in realtà letture ricercate, è una competente frequentatrice di letteratura, arte e filosofia, nonché una raffinata conoscitrice della sofisticata cultura giapponese. Nelle ore libere, nelle notti di insonnia, nella sua solitudine di vedova, ristora il suo animo e lo nutre di Bellezza, per ripagarlo delle piccole meschinità della routine quotidiana e della delusione dei rapporti sociali con persone tanto vanagloriose quanto vacue.
Co-protagonista accanto a lei, e titolare di una vicenda parallela, è la giovanissima Paloma, che abita con la altezzosa famiglia nello stesso palazzo e che, essendo naturalmente dotata di intelligenza precoce e sorprendente capacità di analisi, vive un disagio simile a quello della portinaia, poiché le sue acute osservazioni del mondo che la circonda le restituiscono una realtà assurda, aliena, allucinante, inaccettabile al punto da farle prendere la decisione di porre fine alla sua vita – per l’evidente inutilità di viverla – allo scadere del suo tredicesimo compleanno. Il percorso intimo che la porterà al compimento di questo progetto è contenuto in un diario, al quale essa affida la cronaca della propria crisi esistenziale sulle soglie dell’adolescenza.
Ma la sintesi che ho appena esposto di queste due vicende umane non deve trarre in inganno: esse non sono narrate col tono drammatico o lacrimoso che ci si potrebbe aspettare, e neppure con quello languido o malinconico di un racconto intimista. Tutt’altro, tutt’altro, e grazie al Cielo.
Perché sia Renée che Paloma, ben lungi dall’essere donnicciole piagnucolose o vittimiste, sono due bei caratterini agguerriti e soprattutto dotati di un magnifico spirito, di una intelligente ironia, di un umorismo più che originale, ed è con questi strumenti che riferiscono al lettore – il quale spesso si ritrova con le lacrime agli occhi per il divertimento – i fatterelli stupidi e ripetitivi di ogni giorno e i comportamenti e gli exploits scoraggianti di una società votata solo all’esteriorità e al lusso. Ironia e distacco solo con i quali è possibile deridere la meschinità e non restarne schiacciati.
Terzo personaggio, e personaggio-chiave, è il giapponese signor Ozu, un nuovo inquilino, che racchiude in sé le doti più apprezzabili: l’equilibrio, la semplicità dell’eleganza, la discrezione tipica del gentiluomo orientale, la passione per la cultura. Egli diventerà, con infinito garbo e impareggiabile intuito, il complice spirituale delle due protagoniste, che con lui finalmente potranno condividere il leit-motiv delle loro vite: il gusto per la Bellezza e l’esercizio dell’Intelligenza.
Se si eccettua il coup-de-théatre del finale (del quale ovviamente non parlerò), la vicenda raccontata in questo romanzo segue un filo conduttore abbastanza tenue e non è segnata da avvenimenti o scene d’azione. Ciò che conta e su cui si fonda la particolarità del libro è proprio il minimalismo della trama, che permette all’Autrice di dedicare tutto il suo impegno creativo e tutte le sue risorse stilistiche e linguistiche all’elaborazione di una analisi di caratteri, di sentimenti, di riflessioni, di considerazioni private. Dal punto di vista tecnico, la Barbery possiede un lessico alquanto esteso e una non comune padronanza degli strumenti sintattici, che le permettono di elaborare in modo originale e gradevolissimo la costruzione dei periodi senza cadere in banalità o disomogeneità. Lo stile, pur se colto, è sempre scorrevole, colmo di grazia e leggibile; merito anche di una traduzione (a due mani, di Emmanuelle Caillat e Cinzia Poli) che ha saputo trasferire nella purezza della nostra lingua non solo i singoli componenti delle frasi ma – obiettivo già più arduo – la struttura del fraseggio. Grazie a questo ottimo lavoro, l’immedesimazione risulta estremamente fluida.
Al termine della lettura, dopo essersi staccati di malavoglia da quella conciergerie, da quel microcosmo così ben descritto, da quei personaggi che così facilmente ci sono divenuti familiari, ci rimane tra le mani il senso complessivo e definitivo del romanzo: un omaggio a quei doni della vita che molti non sanno godere e nemmeno individuare, e che invece sono alla portata di chiunque perché appartengono al quotidiano – le piccole armonie presenti in ciò che ci circonda, da un gesto gentile a un colore ben assortito a un sapore riuscito, da una musica che parla al cuore a un silenzio che contiene ben di più. Un romanzo capace di di-vertire perché ci accompagna in un’ambientazione resa con bella capacità espressiva. Ma anche e soprattutto un romanzo capace – suggerendo con grazia e spirito una denuncia sociale verso la superficialità o l’arroganza di molti rapporti umani o verso i vuoti di una imperante sottocultura, ma senza mai cedere a un facile e superfluo moralismo che avrebbe appiattito e banalizzato tutto – di lasciarci dentro, nel tempo, spunti di riflessione applicabili alla vita di ciascuno.

Il mistero di Edwin Drood

di Charles Dickens

Dickens

Un mostro sacro come Dickens, lungi da me recensirlo; posso solo accodarmi devotamente a quanti lo hanno sempre indicato come un Maestro di narrativa, psicologia e arguzia. Un Intoccabile.
Tuttavia mi piace partecipare il godimento che mi ha procurato la lettura di un suo romanzo poco conosciuto, Il mistero di Edwin Drood, ultimo in ordine cronologico nella bibliografia dickensiana e lasciato interrotto dall’Autore nel 1870, quando morì dopo averne completato circa la metà. Il mistero è dunque nel titolo ma anche nella natura stessa dell’opera, della quale rimasero ai posteri solo vaghi appunti scritti e qualche accenno verbale raccolto da amici o familiari. Si incaponì a volerlo completare uno scrittore nostro contemporaneo buon conoscitore dello stile e delle tematiche dickensiane, Leon Garfield, ed è grazie alla sua paziente maestria nonché al talento sorprendente di un traduttore come Pier Francesco Paolini che oggi possiamo accedere a questo lavoro controverso, affascinante, enigmatico.
Due parole sulla trama, che mi permetterò di sintetizzare al massimo: l’Edwin Drood del titolo, un giovane onesto e promettente, scompare misteriosamente, e ne viene incolpato un altro giovane, Neville Landless, altrettanto onesto ma di temperamento alquanto focoso. Attorno a questo nucleo centrale, ruotano diverse vicende di carattere sociale e sentimentale, connesse a una schiera di personaggi dettagliatamente rappresentati e puntualmente inseriti in una cornice ghiottamente deliziosa quale uno spaccato dell’Inghilterra di metà Ottocento (ambientazione e contesto nei quali la penna di Dickens si rivela sempre di impagabile efficacia). Tra i ghiotti ingredienti, un borgo della benpensante provincia inglese dominato da un’antica Cattedrale alla cui ombra si stende un caratteristico camposanto, e poi salotti austeri oppure civettuoli dove si conversa con la studiata retorica del tempo, un collegio per signorine all’insegna tutta vittoriana della serietà e della pudicizia, soffitte malsane per studenti a mal partito o oppiomani derelitti e disperati, una natura affascinante e selvatica che odora del mare vicino.
Ma più che l’intreccio, in quest’opera va rilevata – una volta di più, perché non è certo una scoperta – l’abilità tutta dickensiana di permeare atmosfere lugubri e inquietanti con uno spirito sottilissimo e sornione, che smitizza il racconto a forti tinte proprio con la caricaturale sottolineatura di certe sue inevitabili enfasi. Vien da immaginare il Vecchio Scrittore, avvezzo a ogni aspetto delle debolezze umane da lui costantemente osservate e rielaborate, intento a scrivere le ultime pagine della sua vita – già malato e da tempo – ma ancora e forse più che mai, proprio per la consapevolezza di essere alla fine, immerso nel piacere creativo, nell’ispirazione incontenibile, nel fervore della costruzione di frasi, periodi, capitoli, descrizioni, riflessioni, elucubrazioni particolareggiate fino alla logorrea, come quando la mente è completamente assorta nel prodotto della sua creazione e ci vive in simbiosi, non desiderando che trasmettere ad altri le immagini e le sensazioni di cui alimenta se stessa. Dunque logorrea, forse, ma deliziosa nel risultato per il lettore, al quale resta impossibile non accettare l’invito a lasciarsi coinvolgere in quell’immaginazione, in quella ricostruzione di un mondo che appartiene al passato ma che ci torna così nitidamente delineato da sembrare plausibile e vicino.
Lode al Traduttore Paolini, e al suo mirabile lavoro di mediazione tra noi lettori e uno stile ottocentesco apparentemente arcaico ma aderentissimo alla collocazione e studiato al fine di trasmettere il lavoro dell’Autore con la massima e più leggibile fedeltà, sia sintattica che concettuale.
Un libro – un librone, oltre 500 pagine nell’edizione Bompiani del 2001 – consigliabile nelle lunghe serate invernali, da leggere preferibilmente adagiati in una comoda poltrona accanto a un caminetto acceso mentre fuori piove e tira vento, senza cedere al senso di colpa se la felice evasione ci farà – e con rammarico – spegnere la luce molto tardi.

Siccome ogni qual volta il reverendo Septimus si faceva pensieroso, la sua buona madre vedeva in ciò un segno infallibile ch’egli aveva “bisogno di sostegno”, la florida vecchia signora si recò in tutta fretta alla credenza della sala da pranzo per prelevar da essa il necessario “sostentamento”, sotto forma di un bicchiere di Constantia e di un biscotto casalingo. Era una magnifica credenza, degna di Cloisterham e di Minor Canon Corner. Sopra di essa, un ritratto di Händel, in fluente parrucca, sorrideva dall’alto allo spettatore, con l’aria di reputarsi all’altezza del contenuto della credenza, e con un nonsoché nello sguardo che sembrava tradir l’intenzione del musicista di combinar tutte le sue armonie in un’unica deliziosa toccata e fuga. Non era una comune credenza dal volgare sportello che s’aprisse tutt’assieme sui cardini, senza lasciar nulla da scoprire per gradi, no: quella rara credenza aveva una serratura al mezzo, ove due pannelli scorrevoli si congiungevano, perpendicolari; e l’uno calava giù, e l’altro saliva su. Il pannello superiore, nel venir tirato giù (lasciando l’altro scomparto doppiamente sbarrato, nel mistero) rivelava profondi scaffali gremiti di vasetti di sottaceti, barattoli di marmellata, scatole di latta, teche di spezie, e recipiente gradevolmente esotici, bianchi ed azzurri, profumati ricettacolo di conserve al tamarindo e allo zenzero. Ogni benevolo abitante di quel chiostro aveva il proprio nome iscritto sul ventre. I sottaceti, nelle loro uniformi dal pastrano marrone a doppiopetto, con fregi gialli o di colore scuro, si presentavan con il loro nome a lettere maiuscole, in stampatello, come Cetrioli, Cipolle, Cavoli, Broccoli, Carote, Misticanza, ed altri membri della nobile famiglia degli ortaggi. Le marmellate, essendo di temperamento meno mascolino, ed indossando crestine di carta, si annunciavano, in femminil calligrafia, come un tenue sussurro, quali Fragole, Pesche, Albicocche, Prugne, Susine, Mele e Mirtilli. Chiudendosi il sipario su queste tentatrici, e salendo il pannello inferiore, venivan rivelate melarance, insieme ad una scatola di zucchero, laccata, onde temprare la loro acerbità, se poco mature. Biscotti casarecci facevan corte a quelle Potenze, accompagnate da un grosso frammento di focaccia farcita, e da svariati cialdoni detti dita-di-dame, da immergersi nel vin dolce e baciarsi. Più in basso ancora, un ripostiglio foderato di piombo dava ricetto al vin santo e a vari cordiali, e da esso provenivano bisbigli di Arancia di Siviglia, Limone, Mandorla e Semi di Comino. Aveva l’aria, quella regina delle credenze, di aver udito per secoli l’eco delle campane e dell’organo della Cattedrale, un’eco come di ronzanti api, finché quelle venerande pecchie avevan trasformato in miele sublime tutto ciò che essa conteneva nel suo seno; e si osservava sempre che chiunque si immergesse fra quegli scaffali (profondi, come si è notato, da inghiottire testa, spalle e gomiti) ne ritornava fuori con ridente sembiante, come se avesse subito una zuccherosa trasformazione.

La pioggia prima che cada


(praticamente, una stroncatura)

Non mi è piaciuto, tuttavia lo ho letto fino in fondo.
Lo ho letto fino in fondo perché mi sentivo in dovere di capire il motivo per il quale non mi piace Coe in generale, il motivo per cui tempo fa avevo abbandonato dopo qualche decina di pagine la lettura di un altro suo romanzo, La famiglia Winshaw, indicato fra i due o tre migliori di questo autore da molti apprezzato, addirittura celebrato. Quel libro mi aveva letteralmente infastidita a causa dello stile contorto e della scarsa limpidezza della trama, tanto da decidere di escludere questo autore da successivi programmi di lettura. Decisione recentemente rientrata per motivi tutto sommato superficiali: anzitutto la curiosità appunto di sondare meglio il mio iniziale rifiuto, poi senz’altro l’attrazione esercitata dal titolo – poetico ed enigmatico – e da ultimo l’opportunità di leggere un libro che forse non mi sarebbe piaciuto senza rischiare di pentirmi di averlo acquistato, avendolo preso in prestito dalla biblioteca comunale. E’ rimasto nelle mie mani tre giorni, il tempo di leggerlo con attenzione, poi lo ho riportato più che volentieri sul suo scaffale, dove probabilmente procurerà a qualche altro lettore maggiore soddisfazione.
Ma torno a ripetere, invertendo i termini: lo ho letto fino in fondo, tuttavia non mi è piaciuto.
E non mi è piaciuto probabilmente anche perché tra la sensibilità dell’autore e la mia di lettrice non ho avvertito nemmeno questa volta alcun punto di contatto, né dal punto di vista stilistico né da quello del contenuto narrativo. Non c’è stata interazione, non c’è stato feeling, non c’è stato coinvolgimento. La vicenda si lascia leggere, devo ammetterlo, così come ammetto che Coe non è un bluff ma sa indubbiamente scrivere, però un giudizio tecnico e non solo emotivo non può ignorare che la storia è greve come una telenovela strappalacrime, e come una telenovela è forzata fino a una ridicola inverosimiglianza.
L’obiettivo sembra quello di sconcertare e commuovere soprattutto il pubblico femminile, quello cui il libro appare naturalmente e preferibilmente dedicato dal momento che narra di una cronologia tutta al femminile: la concatenazione delle vite di tre generazioni di donne osservata, analizzata e rivissuta da altre donne, il tutto all’interno di una sola e ramificata famiglia inglese lungo il corso di alcuni decenni del novecento. Ma l’obiettivo di sconcertare e commuovere è tra i più banali, se poi viene perseguito grazie a certe insistenti forzature tragiche che, proprio perché irrealistiche, risultano al contrario quantomai prevedibili, e quindi deludenti per il lettore meno sprovveduto. Il libro appare un polpettone tenacemente malinconico, infarcito com’è di ingredienti di risaputo effetto come la presenza di una fanciulla cieca, il tema dell’omosessualità femminile, quello dell’adozione di minori sottratti alla podestà di genitori indegni, perfino la cronaca in diretta di un suicidio. Ingredienti eccessivi, estremi e quindi complessivamente ingenui.
All’inizio mi aveva fatto ben sperare la trovata – se non originalissima, almeno accattivante – di un filo conduttore rappresentato dalla descrizione di una serie di vecchie fotografie di famiglia, ognuna delle quali introduce la rievocazione di una tappa significativa nell’intera saga e ne connota l’ambientazione nello spazio, nel tempo e nei costumi di una società. Peccato che questo artificio ben presto perda la sua efficacia soffocato sotto pagine di tediosissime descrizioni di paesaggi e di dettagli che, seppure funzionali al fatto che il racconto è rivolto alla fanciulla cieca di cui sopra, non colgono tuttavia l’obiettivo di far vedere e far vivere davvero i soggetti, gli oggetti e gli ambienti fotografati: tutto resta piuttosto estraneo, lontano, incomprensibile e scarsamente condivisibile, come accade con ciò che, per quanto si sforzi, non ha un’anima sincera da mostrare. Descrizioni diligenti, persino ossessive, e tuttavia o proprio per questo fredde, affettate, vacue come cartelloni pubblicitari.
L’unico merito che riconoscerei a Coe è quello di aver cercato di interpretare l’animo femminile costruendo una vicenda e uno scenario dominati quasi esclusivamente da donne, delle quali ha voluto narrare – direi calcando un po’ troppo la mano, come se a scrivere fosse stata una signora depressa dalla menopausa – a quali abissi di complessità e paranoia possano giungere le conseguenze di problemi affettivi sorti nell’infanzia e mai sufficientemente compresi. Intuendo quale impegno sia richiesto da parte di uno scrittore per immedesimarsi credibilmente nell’altro sesso, ci si capacita di come Coe, nel perseguire il suo scopo, sia caduto in qualche stereotipo di troppo; un po’ meno di come non abbia mai pensato di attingere, dalla invidiabile tradizione britannica, un po’ di quello humour inglese che ha caratterizzato al meglio tante altre opere di suoi connazionali e che avrebbe evitato anche a lui lo scadimento nello psicodramma mediocre, gratuito e déjà-vu.
Complessivamente dunque un libro scritto bene ma incapace di affascinare; un libro che, per la pretesa di contenere troppe verità, non ne esprime nessuna di convincente; un libro che costa poco leggere se non altro per potersi poi dire aggiornati sulle novità editoriali di cui bene o male si parla, ma che consiglierei preferibilmente a un pubblico di pretese modeste e incline ai sentimenti forti, purché rassegnato a una certa pazienza davanti alle tante lungaggini descrittive.

Sostiene Pereira

di Antonio Tabucchi

Pereira
Quando ho preso in mano questo romanzo – circa 200 pagine, di cui molte, tra un capitolo e l’altro, bianche – ho calcolato che mi avrebbe richiesto non più di tre serate, e che presto avrei potuto affrontarne un altro dei tanti in attesa di lettura.
Mi sbagliavo: tre serate non sono bastate.
E non perché il libro mi sia risultato di ardua comprensione o abbia preteso da me una concentrazione che mi è difficile conservare a lungo nelle ore notturne, ma al contrario perché fin dalla prima pagina mi ha sedotta al punto che ho fatto il possibile per centellinarmelo, assaporarlo, trattenerlo con me per allontanarne la fine, quel momento di tristezza che segna il distacco da una lettura amata e che si trasforma da subito in nostalgia.
Per sapere con certezza che mi sarebbe piaciuto, mi è bastato l’incipit, quelle prime cinque, brevi, efficacissime frasi in cui avviene con magistrale immediatezza l’introduzione all’ambiente e al personaggio. In poche righe, sappiamo già di trovarci in una Lisbona estiva azzurra, ventilata e scintillante, esattamente come la immaginiamo, come ce la raffiguriamo quando sogniamo di arrivarci da visitatori, e di avere a che fare con un uomo dedito alla cultura e alla meditazione, ma non un intellettuale spocchioso o un alto filosofo, bensì un animo dimesso, un abitudinario ripiegato su se stesso e sulla piccola serenità di alcune certezze un po’ stantie, un antieroe modesto e appartato, esente da presunzioni o ambizioni. Pereira, di cui non sarà dato di conoscere che il cognome col quale firma i suoi articoli, è un giornalista di mezza età, vedovo, affetto da pinguedine e dagli affanni di una lieve cardiopatia, che vive tra il suo appartamento ordinato, l’ufficio dove svolge il suo lavoro in solitaria – poco più di un bugigattolo – e un piccolo locale, il Café Orquìdea, dove prende spesso i pasti. Gli tengono compagnia pochi e semplici punti di riferimento: il suo interesse per la letteratura, alla quale si dedica scrivendo traduzioni di autori francesi dell’ottocento – anacronistici ma politicamente corretti – in qualità di redattore culturale di un modesto giornale del pomeriggio, e gli affetti per il passato, prima di tutto la moglie morta da anni con la quale parla attraverso il vetro di un ritratto, e poi i ricordi della sua animata gioventù universitaria a Coimbra. Queste consuetudini quotidiane, di cui pare non avvertire l’opacità, gli sono sufficienti per comporre giorno dopo giorno quel che resta della sua vita, anzi gli occupano e gratificano la mente al punto di appannare la percezione della realtà esterna, che in quei mesi (siamo nel 1938) sta prendendo, e non solo in Portogallo, aspetti sempre più minacciosi. Ma Pereira di quanto sta avvenendo nel suo Paese e nell’Europa intera si tiene al corrente in modo distratto, quasi volendo rimanerne fuori, dai resoconti veloci di Manuel, il cameriere del Café Orquìdea, che quasi ogni giorno gli serve le sue ordinazioni preferite, ancorché poco salutari: omelettes alle erbe e bicchieroni di limonata ghiacciata, un menu-tormentone al quale finisce per affezionarsi anche il lettore. Pereira pare un uomo che si sia ritirato dalla vita attiva, rinunciando a ogni analisi critica non tanto per viltà quanto per una larvata forma di depressione, di autodifesa forse; quella che applica spesso davanti a problemi o interrogativi cui non sa reagire, e che gli fa rinviare lo studio delle possibili soluzioni o risposte con dei dimessi “Beh, pazienza” oppure “Beh, vedremo”.
Questa routine consolidata e rassicurante comincia a mostrare la corda in seguito ad alcuni incontri, tutti e ciascuno determinanti, che lentamente – quasi controvoglia – la destabilizzano, mettendo in luce il suo anacronistico grigiore, la sua ottusità nei confronti del mondo esterno e dei suoi rivolgimenti che, malgrado Pereira abbia scelto di restarne estraneo, stanno prendendo una piega drammatica e cominciano a coinvolgere direttamente anche lui.
Dapprima entra in scena un giovane studente, Francesco Monteiro Rossi, scrittore squattrinato che si rivela oppositore del regime salazarista e porta con sé, oltre all’alito della giovinezza, anche il vento inquietante della rivoluzione; è lui il primo a introdurre nella statica vita dell’anziano giornalista la presenza imbarazzante di istanze di contestazione e ribellione, che emergono dagli articoli che scrive e gli propone, e che Pereira trova tutti immancabilmente impubblicabili, estranei come sono alla prudenza che di quei tempi informa la diffusione delle idee.
Poco dopo, è la volta del dottor Cardoso, un medico dalle idee aperte e dalla filosofia pacata, che apre gli occhi a Pereira sugli aspetti della libertà di coscienza, pur senza forzare la mano o fare opera di proselitismo, al contrario proponendosi come ascoltatore, confidente, interlocutore sereno e saggio, portatore di alcune di quelle risposte che a Pereira mancano da tempo.
Da ultimo, un episodio che occupa solo pochi (e splendidi) paragrafi ma che ha il suo peso: la conversazione casuale, su un treno, con una certa signora Delgado, una donna ebrea che racconta brevemente la sua esperienza di perseguitata e insinua in Pereira l’inquietudine per il futuro che aspetta tutti, suggerendogli perfino di esercitare gli strumenti della sua professione per mobilitare le coscienze.
Da questi incontri, il mite giornalista ricava un senso di turbamento che lo spinge a ripensare alla sua vita e alle sue motivazioni, scoprendole insufficienti e addirittura ingannatorie. Prende nebulosamente consapevolezza delle storture della società che lo circonda e in cui finora si era sentito avvolto come in un guscio, e inizia a rendersi conto dell’impostura salazarista che si è già insinuata fino al nucleo centrale del suo stesso lavoro, condizionando le scelte editoriali, ormai da tempo soggette a una censura politica più o meno esplicitamente espressa.
La narrazione assume il profilo del romanzo civile, e segue fino all’epilogo tragico la vicenda del giovane rivoluzionario nella quale resta gradualmente e sempre più pericolosamente coinvolto un Pereira già oscuro e fatalista e che ora sta compiendo quasi senza saperlo un percorso di svecchiamento e autoconsapevolezza, un rinnovamento interiore prima impensabile e portatore di una nuova carica di energie mentali, di dignità e di coraggio. Passando attraverso l’esperienza della violenza, della sopraffazione e dell’omicidio di polizia, Pereira si libera del suo vecchio abito miope e rinunciatario e riprende possesso della sua vita, progettando per sé – come ultimo gesto – un futuro ancora non esattamente definito ma certamente assai diverso.
Al di là del significato della storia e delle sue implicazioni, quello che per me è il pregio maggiore di questo grande romanzo è il registro equilibrato che lo accompagna dall’inizio alla fine e che non scade mai, nemmeno nelle pagine di più dichiarato valore morale e politico, né nella propaganda né nella celebrazione né nel comizio censorio, ma conserva con finissimo equilibrio una costante pacatezza di tono. Lo stile è blando, non ornato, quasi casuale, ma si intuisce la mano esperta dell’Autore nel mantenerlo uniformemente controllato su un registro medio-basso che pare scelto apposta per seguire e sottolineare il ritmo lento e un po’ incespicante delle giornate di Pereira, dei suoi passi faticosi per l’afa e la fiacchezza del cuore, delle ore di solitudine e opaca meditazione, ma soprattutto il ritmo sonnolento della sua stessa coscienza.
Di questo libro, uscito nel 1994, si disse e si dice che contiene una ferma condanna all’imbavagliamento della stampa da parte dei regimi totalitari, tanto che fu usato come manifesto dall’opposizione di sinistra nei confronti del monopolio berlusconiano dell’informazione, ma a me pare evidente che il messaggio di Tabucchi vada ben oltre queste contingenze nostrane, indicando un valore superiore e universale quale quello, più ampio, del risveglio della coscienza e della fiducia in ogni e qualsiasi redenzione. E trovo assolutamente ammirevole la capacità tecnica dimostrata da Tabucchi nel trasmetterlo senza cadere nell’uso di effetti convenzionali o di sermoni edificanti; il suo linguaggio sobrio, senza impennate, senza ammiccamenti, è il mezzo migliore per affrontare temi così fondamentali partendo però dal basso, dalla dimensione umana, dall’individuo e dal suo microcosmo, invece che porsi in cattedra predicando verità scontate e convenzionali. Un linguaggio che si sublima nella chiusa, un piccolo capolavoro nel suo genere, in cui si condensa il senso stesso dell’esistenza umana e delle sue risorse e in cui si indica un futuro la cui maggiore ricchezza è proprio l’indeterminatezza che ne fa territorio di conquista per chi ne auspica uno comunque migliore.

“Era meglio affrettarsi, il Lisboa sarebbe uscito fra poco e non c’era tempo da perdere, sostiene Pereira”.