Neon

Abbiamo passato il confine verso mezzanotte. Alla  frontiera, un posto sperduto e mal illuminato, ci hanno controllato sommariamente i documenti. Tutto in regola.
Oltre la sbarra, siamo entrati nel buio della notte messicana. Immensa.
“Da qui, altri 300 chilometri di strade malmesse – ha detto Rafael. Io ho rabbrividito. Per la stanchezza, la scomodità, l’inquietudine dell’ignoto.
“Dobbiamo dormire qualche ora – ha detto ancora Rafael, e si è girato per farmi una carezza sulla guancia.
Ci siamo fermati nel primo centro abitato, dopo quasi un’ora di strada sconnessa in mezzo a un mare di tenebre che profumavano di erba secca e altri odori sconosciuti.
C’era un posto per mangiare, con ancora qualche cliente e della musica sudamericana sotto lampadine multicolori e impolverate. Giusto di fronte c’era anche un motel, modesto e un po’ scrostato. Ci siamo buttati sul letto vestiti e siamo sprofondati nel sonno.

Sono entrati in camera verso le sei di mattina: erano tre uomini in divisa, con stivali sporchi e rumorosi. Siamo balzati su di soprassalto, senza capire.
Quello che comandava ha chiesto con durezza:
“Rafael Velasco?”
Rafael ha detto “È il mio nome” e non ha fatto in tempo ad aggiungere altro perché lo hanno tirato giù dal letto e se lo sono portato via. Lui era incredulo, sbalordito ma cercava di rassicurarmi dicendomi che era un equivoco, che presto si sarebbe chiarito tutto, che stessi tranquilla. Le ultime raccomandazioni le ho raccolte già in strada, sul marciapiede, mentre lo caricavano rapidamente su una camionetta della polizia e partivano.

Il gestore del motel non sembrava scosso. L’ho guardato con mille domande impazzite negli occhi, e lui si è limitato a chiedere: “Cittadina americana?” e ha scrollato le spalle, dando a intendere che da quelle parti succedono cose che gli stranieri non possono capire. Poi mi ha allungato una tazza di caffè, insistendo che era compresa nel prezzo della stanza, e questo è stato tutto quello che ha fatto per me.
Ho cercato informazioni dai passanti per raggiungere la stazione di polizia. Il mio scarso spagnolo contro il loro pessimo  inglese. In ogni caso, è servito a poco: al comando, mi hanno tenuta sulla porta, senza rispondere alle mie domande né darmi spiegazioni.
“Può dirmi almeno perché lo avete arrestato? È cittadino messicano, non ha fatto niente di male”.
“Lei è moglie? Sorella? Parente?”
“Siamo venuti in Messico per sposarci.”
“Allora non posso dirle niente”.
“Perché?”
“È il regolamento”.
“E non posso nemmeno vederlo, cinque minuti soltanto?”
“Nessuno può vederlo finché non lo vede l’avvocato”.
“Quale avvocato? Rafael non ha un avvocato”.
“L’avvocato d’ufficio”.
“E quando viene, l’avvocato d’ufficio?”
“Quando sarà libero. Non è in città. Viene quando può. Una volta la settimana, una volta al mese, dipende.”
“Come faccio a sapere quando verrà, come faccio ad avere notizie?”
“Non è parente. Non può avere notizie. Provi domani, o un altro giorno. È il regolamento”.

Stavamo nel Maine. Io tenevo i bambini di una famiglia benestante, Rafael puliva la piscina. La signora ci ha licenziati quando ha scoperto che dormivamo insieme. Siamo venuti in Messico per sposarci. Rafael parlava di una grande festa con tutta la famiglia, diceva che sua madre mi avrebbe prestato il suo vecchio abito da sposa. Io non volevo tutto questo. Mi bastava Rafael. Ora penso che se ci fossimo sposati da un giudice di pace lungo la strada sarebbe stato meglio, perché adesso avrei il diritto di stargli vicina anche se è in prigione.

La prima sera sono tornata al motel stanchissima e da sola, dopo aver girato per strade che non riuscivo più a distinguere e a memorizzare, tentando più volte di tornare nei pressi della stazione di polizia con la speranza che fosse cambiato qualcosa.
Mi sono persa più volte, poi ho riconosciuto il motel dall’insegna illuminata: una pin up di neon blu elettrico che si staglia fluorescente contro il blu più denso del cielo notturno. La sua luce sguaiata e fredda mi entra nella stanza e si distende sulla metà vuota del mio letto. Il bagliore blu si irradia sulle pareti, sullo specchio, sulle mattonelle sbeccate del pavimento. Rende fosforescente la sacca dei vestiti di Rafael rimasta aperta e abbandonata accanto all’armadio. Mi guardo le mani nel buio, e sono blu. Ho mangiato qualcosa in camera, al buio, ed era blu. Non il blu delle piscine, né quello degli occhi dei tre bambini del Maine. Piuttosto il blu di un grottesco obitorio, o di un laboratorio di quelli dove studiano virus letali, o materiali radioattivi. Il blu falso e freddo delle navette spaziali. Il blu osceno del pesce al fosforo. Nulla di gaio, in quella luminescenza submarina. Nulla di rasserenante, nulla che aiuti a dormire. Si spegne all’alba, come evaporata in cielo, e la pin up diventa invisibile mentre per strada cominciano a passare camion, motociclette, i rumori della nuova giornata.

Vado alla stazione di polizia ogni giorno, da due settimane. Forse tre. Forse un mese. O una vita.
Cittadina americana.
Non è parente.
L’avvocato d’ufficio non si è ancora fatto vivo.
Non è consentito lasciare messaggi, né pacchi.
Non è moglie, né sorella.
Non ha diritto ad avere notizie.
Non insista.
È il regolamento.

Lavo le mie cose nel lavandino. A Rafael non mi permettono nemmeno di portare un po’ di biancheria. Ho trovato con grande fatica il numero di telefono del consolato americano, ma dicono che sono affari interni e loro tutelano solo i diritti dei cittadini americani. Si offrono tutt’al più di facilitare il mio rientro negli Stati Uniti, se voglio. È il regolamento.

La pin up mi aspetta tutte le sere. Ormai credo di aver capito che in fondo è una brava ragazza, forse finita male per colpa di qualcun altro. Una brava ragazza ingenua come me. La notte mi copre di blu, stende su di me il lenzuolo blu della sua e mia insonnia. Penso che siamo sole tutte e due, e che non sappiamo più cosa stiamo aspettando da tanto, tanto tempo. Perché qui i giorni passano e non succede niente.
E io sto finendo i soldi.

Contributo all’EDS Il blues del blu della Donna Camèl (qualcuno fermi quella donna!) insieme a:

Diavoli blu di Dario
NY Blues di Singlemama 
Colori di MaiMaturo
La linea blu di Singlemama
Il blu dell’universo che non c’è di Lillina
Morte nel blu di Lillina
Il trattore di Pendolante
Crossroad di Call me Leuconoe
Le ore scure (grigio, rosso e blu) di Marco C.
I won’t let you down di Hombre
Onde
di Calikanto
Fever di Cielo (AKA Fevarin e carnazza)
Diritto e rovescio
di La Donna Camèl
Diritto e rovescio due, la vendetta di La Donna Camèl 
So long di Brux 
Davvero non lo so di Hombre 
L’automobile di Pendolante 
Non importa di Lillina

Serenissima

1755, un pomeriggio di autunno inoltrato, nel palazzetto Sandonà sito in fondamenta della Misericordia, sestiere di Cannaregio.
I musici arrivano per tempo e si danno subito da fare per verificare se la sala da musica sia stata predisposta in modo confacente; fanno spostare sedie e tavolini, misurano a occhio, fanno e disfanno con grande gravità finché non sono ragionevolmente soddisfatti. Poi chiedono di essere lasciati tranquilli qualche minuto per accordare gli strumenti e gli spiriti prima dell’arrivo degli invitati, e da dietro la porta iniziano a formarsi suoni di prova, per ora slegati, interrotti, bislacchi, come stonature di goffi principianti. Io, servetta dodicenne venuta dalle campagne, me ne sto nei paraggi senza farmi vedere ma attratta da enorme curiosità, e mi chiedo come questa accozzaglia potrà, fra poco, trasformarsi in qualcosa di compiuto, ordinato e così paradisiaco come il mio padrone si aspetta.
Frattanto sopraggiungono gli ospiti. Ecco fare ingresso la figlia maggiore maritata, con quel suo goffo marito infelice al guinzaglio, ecco i suoceri intimiditi e ansiosi di far buona figura. Ecco poi alcuni notabili con le mogli, nonché il medico e il farmacista, tutti più mondani e a loro agio; ecco la marchesa Dolfin, donna affascinante malgrado l’età, la cui purissima nobiltà è finita sul lastrico. A ognuno ritiro pastrani, cappelli, bastoni da passeggio; le signore si liberano di mantelle e manicotti, esibendo gli abiti buoni con scollature peraltro modeste data la natura severa dell’intrattenimento.
E finalmente i maestri concertisti annunciano di essere pronti. Per generosità del padrone, i due battenti della porta vengono lasciati spalancati, e i servi sono ammessi sulla soglia, la cuoca, le fantesche, perfino il vecchio gondoliere, un omone grande e grosso, ruvidissimo e di così poche parole da passare per muto. Si affollano discretissimi e rispettosi, gli occhi lustri.
Io, la più piccola e l’ultima arrivata, la sguattera di cucina, mi accuccio da sola sul primo gradino della scala, gelido e duro, in attesa di capire quale rito a me sconosciuto si stia per celebrare. Inchini, riverenze, sommessi complimenti, poi gli ultimi scalpiccii, gli ultimi cigolii delle sedie, gli ultimi fruscii degli abiti ben accomodati, e si fa silenzio.
E da questo silenzio germoglia, sboccia, si apre, si alza e vola sotto gli alti soffitti verdeazzurri una voce unica, un arpeggio di corde di leggiadria estrema, e si articola disunendosi e poi riunendosi come un filo di seta, o d’oro fino; si snoda, si sgomitola, si divincola lieve sopra le parrucche e i bassi pensieri, se ne va su a galleggiare per l’aria intrecciando note a cascata, una dopo l’altra e una dentro e sopra l’altra, in una armonia mirabile, e quest’armonia pare nascere ininterrottamente da se stessa e sostenersi da sola, spandersi sopra le nostre teste, occupare poco per volta tutto lo spazio alla ricerca di un altro spazio più vasto dove distendersi, di un cielo libero, magari dalle parti dove sta il Paradiso degli angeli, unico posto degno di questa infinita bellezza, troppo perfetta per appartenere al mondo dei mortali. Ė dapprima un liuto gentile, ma a momenti imperioso, poi trascinante, poi cadenzato come una danza sui prati; ma presto si inserisce un altro timbro, quello di un oboe, cui il primo strumento sembra aver voluto solo aprire la strada, e da esso si sprigiona intensa e pungente una nuova melodia, malinconica come una pioggia autunnale, poi mistica come una preghiera, e prende il posto del brio trasformandosi in dolce e accorato tormento, come se raccontasse un dolore fine, e lo accarezzasse con infinita grazia. Un incanto mi assale la mente e tutte le membra, illanguidendo, erodendo, scavando sotto la scorza dei sentimenti nascosti, frugando l’intimità più vulnerabile, trafiggendo i sensi e il cuore col più tenero e crudele stiletto. Nessuna voce sa essere più struggente di quella di un oboe quando è triste, e in questa improvvisa rivelazione avverto la mia piccola anima spezzarsi in un dolce mare di lacrime.

Devo essere svenuta.
Mi sveglio sul mio lettuccio in soffitta. Accanto a me il padrone, il dottore, la cuoca, mi sventolano con un ventaglio, mi toccano la fronte, la trovano rovente.
“Cos’è stato? – chiedo in un sussurro.
Qualcuno, misericordioso, mi dà la spiegazione:
“Musica. Si chiama musica. Ora dormi tranquilla, va tutto bene”.

*  *  *

Contributo all’eds della donna Camèl, insieme a:
Incanto, di Dario
Io, l’amministratore e la signora grassa, di Hombre
Il viaggio, di Pendolante
Quel certo non so che, di Lillina
Io non c’entro, della Donna Camèl
Mercoledì, di *cla
Tutto quello che avreste voluto sapere sul seNso ma non avete mai osato chiedere, di Hombre
Cinque, di effe 

nell’immagine, Concertino, di Pietro Longhi, 1741

Povero Edipo

Era lei, e non era lei.
A prima vista, era lei senza dubbio. Sua l’acconciatura severa, la fierezza del collo e delle spalle, la regalità delle mani intrecciate in grembo; e suo il pallido zinco degli occhi.
Ermanno Sigismondi, sessantenne azzimato e celibe, per l’occasione nel suo completo primaverile grigio con la fascia nera da lutto ancora al braccio, studiava il ritratto di sua madre provando un sottile smarrimento. Certo, il pittore, prendendo a modello una fotografia di qualche anno addietro, l’aveva gratificata di un incarnato più luminoso di quanto non fosse stato nella realtà dei lunghi mesi di malattia, e le aveva discretamente lisciato qualche profonda ruga e riempito gli zigomi fattisi ossuti. Concessioni pietose,  necessarie e comunque concertate di comune accordo fin dall’inizio.
Ma non stava in questi artifizi cosmetici il motivo dello straniamento del figlio di fronte all’immagine della madre. C’era dell’altro, qualcosa di non immediatamente identificabile, qualcosa di molesto e imbarazzante, qualcosa che lo respingeva.
– Che ne dite, è somigliante?
Il Maestro sembrava aver posto la domanda solo per colmare il silenzio assorto che si era formato tra loro; in verità era più che convinto della bontà del suo lavoro, e placidamente seduto su una vecchia poltrona accarezzava un gatto rosso.
Ermanno si girò a guardarli. Ecco, gli venne da pensare: quei due lì, gatto e padrone, quei due sì che si somigliano. Non è strano? Eppure, lo stesso sguardo sornione, lo stesso mezzo sorriso… anche il gatto sembra sorridere. Poco poco, un sorrisetto canzonatorio, che si forma nel segreto della mente, non in quello del cuore.
Tornò a guardare il ritratto, infastidito, a disagio, sentendo salire una specie di umiliazione. Era venuto per visionare un’opera da lui stesso commissionata, ma ora gli pareva di essere lui sotto processo, e a giudicarlo erano un ritratto enigmatico, un pittore presuntuoso e un gatto strafottente.
– Mia madre era una gran donna – esordì, millantando sicurezza – Vedova a neanche trent’anni. Mi ha cresciuto da sola come meglio non avrei potuto desiderare. Ha preso in mano gli affari di papà e ha costruito un impero. Manifattura di tessuti pregiati, esportiamo in tutto il mondo. Fabbriche, uffici, negozi. Disegnatori e operai, impiegati e commessi, un esercito di dipendenti cui ha dato lavoro. Onorificenze, medaglie. Un’icona nel mondo dell’imprenditoria. Al suo posto di comando fino all’ultimo. Instancabile, inarrestabile…
– … implacabile.
– Come?
– Volevo dire, una donna di carattere, si corresse blandamente il pittore. Il gatto si leccò delicatamente il labbro superiore, senza apparente motivo.
– E una madre attenta, generosa. Non mi è mancato nulla. Ottimi collegi, viaggi all’estero, l’equitazione, il tennis, gli ambienti altolocati. Mi ha insegnato come diventare degno di succederle, ma so bene che non potrò mai confrontarmi con lei. Nessuno lo potrebbe. Mia madre era una donna speciale. Era l’unica donna. L’unica. Perché credete che non mi sia mai sposato?
– Lo so. Me ne avete già parlato il giorno del nostro primo incontro, ribatté il pittore – Ed è proprio su queste notizie, oltre che sulla fotografia, che mi sono basato per realizzare il ritratto. Ora però mi sembra di capire che non lo trovate somigliante, o sbaglio?
– Non saprei. Le somiglia, e non le somiglia. Ė lei, e non è lei.
– Io credo di avere colto tutto. Ma voi forse intendete dire che le manca qualcosa? – il pittore sembrava volergli pazientemente venire incontro, eppure la sua condiscendenza suonava un po’ come quella che si usa rivolgendosi agli sciocchi.
Le manca qualcosa. Le manca qualcosa. Ermanno lo intuiva, ma non riusciva a identificarlo. Scrutava le grinze della tela, ancora umide di colore, e ammetteva con se stesso come non vi fosse nulla da eccepire circa la grana della pelle, la precisione geometrica dell’attaccatura dei capelli, la simmetria dei lineamenti, ma era altrove il senso del suo disagio.
– Il sorriso – mormorò ad un tratto, come folgorato – Il sorriso.
– Quale sorriso? – il pittore si scosse e lasciò gatto e poltrona, portandosi accanto al cavalletto con sguardo sospettoso.
– Mia madre. Non sorride, vedete? Lo dicevo io che mancava qualcosa: il sorriso, manca. Il sorriso.
Il pittore scosse gentilmente il capo.
– Ė vero, manca. Ma voi non mi avete mai parlato di sorrisi. Vostra madre sorrideva? Rideva? Le veniva mai voglia di cantare? Non me ne avete parlato.
– Nella fotografia il sorriso c’è! – protestò Ermanno, trionfante – Siete stato voi a non raffigurarlo. Ora pretendo che rimediate a questo errore intollerabile, davvero intollerabile.
La testa del pittore faceva no no, ma gentilmente, quasi con compassione.
– Mi avevate chiesto di ispirarmi alla fotografia, non di copiarla tale e quale. Per quello sarebbe bastato duplicare il negativo. Ma voi vi siete rivolto a un artista, e lasciate che questo artista vi dica che quello non è un sorriso. Il sorriso viene da dentro, non è solo un movimento volontario dei muscoli della bocca. Ė altro, il sorriso. Credetemi, mi spiace molto dovervelo far notare.
– E a me non spiace affatto dovervi dire che vi ritengo incapace di ritrarre un sorriso. Santo Cielo, la cosa più facile del mondo!
– Lo dite voi, replicò dolcemente il pittore. Era anziano e aveva troppa esperienza per mettersi a discutere con un figlio illuso e frustrato.
– Datemi un pennello, uno piccolo, e vi faccio vedere io – ordinò spericolatamente Ermanno, mentre ormai la disperazione gli dava alla testa e lo spingeva a sragionare.
Ma per quanto tenesse ferma la mano e cercasse di modellare con la massima meticolosità gli angoli di quella bocca, essi continuavano a restare rigidi, a resistere al richiamo della tenerezza, e quelle labbra che avevano dispensato ordini imperiosi e rimbrotti taglienti, che avevano generato timore e sudditanza, che avevano trasmesso a tutti la determinazione e l’orgoglio di una donna dispotica, invece di incurvarsi nell’abbandono di un gesto d’amore si indurivano sempre più in una smorfia maligna, nel ghigno cinico di una megera ricca e crudele. E, soprattutto, su quel volto devastato dalle pennellate maldestre continuava a dominare lo sguardo glaciale di quei due occhi color zinco, fissi nella volontà di non partecipare minimamente allo sforzo di un sorriso fosse pure di convenienza. Il dipinto non poteva fare altro che denunciare al mondo intero l’assenza di un’anima.
Ermanno gettò il pennello, affranto. Il quadro era rovinato: la madre non riusciva proprio a sorridere, non lo aveva mai fatto in vita e non si sarebbe certo arresa a farlo adesso, in morte, a opera di un pennello. D’ora in poi lo avrebbe sempre guardato dalla cornice sopra il caminetto con quell’espressione di spietatezza a malapena camuffata.
– Quella santa donna si rivolterà nella tomba… ,  mormorò andandosene sconsolato.

 Ermenegilda Sigismondi si rigirò effettivamente nella tomba, la tomba di famiglia vegliata da angeli di marmo e fregi di bronzo massiccio, ma solo per cercare una posizione più comoda. Lei sola sapeva la verità. Tutti gli altri, al diavolo. Ah ah ah!

* * *

Questo pezzo, scritto per l’EDS Non cosa ho veduto, ma come l’ho veduto proposto dalla tellurica Donna Camèl, si unisce a:
Cuncittina, di Dario
Dove una madre, di Hombre
Trasposizione di un amore, di Lillina
Foto di classe, di Pendolante
Il fazzoletto bianco, di Pendolante
L’amore informale di due anime in guerra con se stesse, di Lillina
Essere nutria oggi, di La Donna Camèl
Il fotografo, di Effe 

(nell’immagine: Jacqueline with flowers, di Pablo Picasso)

Per un piatto di risi e bisi

Il doge Pierpaolo Strigheta stava sulle spine. Era il giorno di San Marco, il 25 aprile, la festa più importante dell’anno, ma il suo momento di gloria rischiava di essere offuscato da almeno tre pungenti preoccupazioni.
Anzitutto, le scarpe.
Fin dal mattino, scendendo la Scala dei Giganti, si era accorto che erano troppo strette, e infatti i piedi cominciarono a fargli male ai primi passi della lenta processione verso la Basilica che a lui spettava di guidare tra ali di folla e attorniato da notabili, canonici e confraternite.
Poi il caldo scoppiato all’improvviso, con quel sole che dardeggiava e lo faceva penare sotto il peso del broccato d’oro e soprattutto di quel maledetto corno ducale che gli faceva sudare e prudere la testa.
Terzo e non ultimo cruccio, era il pensiero del pranzo: per l’occasione aveva invitato mezzo mondo, da Venezia e da fuori, ambasciatori, ammiragli, porporati, governatori dei possedimenti d’oriente, rappresentanti di tutte le aristocrazie. E per fare migliore figura aveva fatto arrivare un cuoco francese di gran fama, ma non c’era stato il tempo di metterlo alla prova, e ora non gli restava che sperare di non essere stato troppo imprudente.
La cerimonia durò un’infinità. I piedi, la testa e lo stomaco del doge mandavano segnali di impazienza, ma bisognava rispettare i tempi ieratici del Patriarca, che non la finiva più di salmodiare e di benedire la folla di polpe e falpalà devotamente raccolti sotto le cupole della Basilica.
Finalmente arrivò il momento di sciogliere le righe e tornare al palazzo, al salone dove era imbandita una tavola opulenta sotto la quale il doge Strigheta non si fece scrupoli a togliersi le scarpe (un valletto, sgusciando non visto fra le gambe dei convitati, gliele sostituì con più comode babbucce di panno purpureo).
Alle spalle del seggiolone dorato del doge, prese posto l’Assaggiatore, che in quei tempi di veleni e coltelli era un accessorio indispensabile alla corte dei potenti, e benché Strigheta non avesse molto da temere gli piaceva esibirlo come un ornamento in più della sua serenissima maestà.
Si trattava di un certo Zanetto, un ragazzotto di umili origini ma volonteroso e di buon contegno, che aveva accettato quell’ingrato compito perché era un gran ottimista; e in effetti finora gli era andata bene.
Cominciò la sfilata dei vassoi, e la vista degli arrosti infiocchettati, delle zuppiere fumanti, dei crostacei lucenti e delle polentine tremebonde suscitò negli illustri commensali una estasiata ammirazione e accese gli occhietti del Doge di malizioso orgoglio.
Ma prima c’era da assolvere la prova dell’assaggio, un rito serissimo che tutti avrebbero seguito con grande compunzione pronti a perderla subito dopo passando ai fatti.
“Alora, Zanetto – esordì il Doge, calandosi tutto tronfio nella parte – cossa ti me disi de sto fasàn in umido?”
Zanetto infilzò sulla sua forchettina professionale un bocconcino di fagiano, lo studiò coscienziosamente tra lingua e palato, lo triturò delicatamente con i soli denti anteriori e dopo diversi istanti lo inghiottì. Ma la sua faccia aveva assunto un’espressione perplessa.
“Cossa te par, ghe xé el velén? – chiese ansiosamente il Doge.
“Veleno no, Ecelensa, però…”
“Però?”
“Però con tutto il rispetto non è fagiano. Ė gallina”.
Il Doge impallidì. Anche parecchi convitati impallidirono. Gallina al pranzo di San Marco? Ma che scherzi erano quelli?
“No ghe credo. Gò ordinà fasàn, e gà da essere fasàn. Ti xé ti che no ti capissi gnente – reagì rudemente il Doge. E aggiunse:
“E magari ti me dirà che sto figà a la venexiana no xé figà? – insinuò sarcastico.
“Ė fegato senza dubbio, Ecelensa, però…”
“Però? Sentìmo, sentìmo – sbottò Strigheta, sull’orlo della disperazione.
“Però è di bue. Il fegato alla veneziana deve essere di vitello, non di bue, Ecelensa”.
Strigheta decise di incassare, e con l’ultimo brandello di dignità giocò il tutto per tutto: i risi e bisi, il piatto tradizionale veneziano, immancabile alla mensa dei dogi il giorno del santo patrono e venerato al pari di esso. Il vero banco di prova della venezianità, il suo biglietto da visita nel mondo. La zuppiera fumava e il suo contenuto ancora dava gli ultimi scoppiettii di dolce bollore al candore del riso e al verde prato dei piselli, infiorati di delicate foglioline di prezzemolo occhieggianti in mezzo alla burrosa mantecatura.
“Te sfido a trovarghe dei difeti. Avanti, tasta sta bontà – invitò il Doge, e si adagiò contro lo schienale assaporando la vittoria.
“Ecelensa ilustrissima, col vostro permesso non ho bisogno di assaggiarla per poter dichiarare con la massima onestà che questa roba è una porcheria, e vi spiego perché. I piselli sono del tipo a buccia dura, il riso è troppo cotto e la consistenza è troppo densa. Se volete mangiarla, male non vi farà, ma resta una porcheria”.
Il verdetto era inappellabile. Un margravio e un paio di dame svennero. La Dogaressa nascose  lacrime desolate in un fazzoletto, uno dei maggiordomi si strappò le vesti e l’arcivescovo di Costantinopoli esorcizzò la tavola con un crocefisso tempestato di rubini.
Il Doge era impietrito. La disfatta, completa. Da domani il mondo avrebbe saputo qual era il trattamento che la Serenissima Repubblica riservava ai suoi ospiti e alleati più prestigiosi, e quanto miserevole fosse l’inettitudine del suo più alto rappresentante.
“Ti me gà fato far ‘na figurassa, ma ti me la paghi. Via, in presón, e doman te fasso tagiar la testa – ordinò.
Così Zanetto, per amor di verità, finì ai Piombi, e il pranzo venne annullato con grande scorno e malcontento di tutti. Prima di sera tutti gli ospiti ripartirono in fretta e furia per i loro paesi lontani, senza nemmeno lasciare la mancia ai gondolieri e ai facchini. La Dogaressa si chiuse in camera a singhiozzare, mentre il Doge cercò sfogo alla collera e alla vergogna prendendo a calci e sberloni tutti quelli che gli capitavano a tiro.
Zanetto, nella cella angusta e senza finestre, era tuttavia sereno. Aveva quel fatalismo tipico degli ottimisti e delle anime semplici, e poi sapeva di essere nel giusto. Da devoto suddito della Repubblica, mai avrebbe ingannato il Doge, nemmeno per farlo contento. Se la morte per decapitazione era il prezzo da pagare, pazienza: sarebbe morto onesto. Ma comunque non si poteva mai dire, forse un’ultima speranza c’era ancora.
Quando si dice i casi della vita… Quell’ultima speranza si concretò verso sera: venne il capo carceriere e gli chiese se avesse preferenze per l’ultima cena, dato che sarebbe stato giustiziato all’alba. E fu qui che Zanetto ebbe l’illuminazione.
“Vorrei tanto – disse – un piatto di risi e bisi cucinato da mia mamma”.
“Tuto qua? Ti te contenti de poco – lo derise la guardia, e mandò a chiamare la madre di Zanetto, certa Carlina Fornasier che faceva la lavandaia nel sestiere di Castello. Nell’apprendere che suo figlio era rinchiuso ai Piombi in attesa della pena capitale, la forte Carlina non si perse d’animo e si mise subito al lavoro per esaudire quell’ultimo desiderio e chissà, forse, fare in modo che non restasse l’ultimo davvero.
Intanto Zanetto aspettava, fiducioso; e faceva bene, ma il tempo passava e non arrivava nessuno a portargli la cena.
Erano ormai le nove e s’era fatto buio completo quando sentì scorrere i catenacci e il custode beffardo di prima, ancora più beffardo, gli annunciò:
“Fora, ti xé libero. Fiol d’un can, la te xé andada ben…”
“Libero?”
“Come l’aria”.
“E i miei risi e bisi?”
“Li gà magnai el paron. Povero Strigheta, el gera drio andar in leto co na scuela de pan e late quando xé rivada to mama co quel pignaton de risi e bisi, quell’odorin che girava per tuto el palasso e svegiava anca i morti… Ti dovevi véderlo come che el se gà butà sul piato: tre, el ghe n’ha magnà. E dopo el gà ciapà el cogo par la giacheta e el lo gà licensià sensa tanti complimenti”.
“E mia mamma?”
“La xé de sora in cusina drio contarsela co la parona, Va’ va’, destrìghite, che le te speta”.
In cucina la Carlina e la Dogaressa, completamente rasserenata, chiacchieravano placide come vecchie amiche. Quando entrò Zanetto, sua madre stava dicendo:
“Tolte nota, Clelia. Per far i risi e bisi come che Dio comanda, ghe vol i bisi de primissia, quei picinini e dolsi, e ghe va anca na puntina de sùcaro. Ti fa un desfritìn co ogio, butiro, segola, ti ghe buti i bisi e ti fa andar finché li se infiapisse ma sensa desfarse. El sal ti ghe lo meti a la fine, senò i vien duri. El brodo gà da esser otimo, de polastro o de manzo. A tre quarti de cotura ti zonti el riso e ti fa cusinar finché non vien tuto belo cremoso, ma ocio che no gà da esser né tropo fisso come un risoto né tropo sbrodoso come na minestra. La giusta via de mezo. La xé questa, la vera arte dei risi e bisi”.

A mezzanotte erano ancora tutti e tre in cucina; Carlina insegnava a donna Clelia i segreti dello zabaione e delle sarde in saor, e Zanetto si era addormentato su una panca con la pancia piena e rosei progetti per il suo futuro di capo cuoco a Palazzo Ducale.

*   *   *

Questo piatto rientra nel menu dell’eds Ipogeusia lanciato dalla gastronoma Donna Camèl
Gli altri commensali sono:
Dario con Sarde a baccaficu
–  Hombre con Caffè alla Norma
Cielo con Lettera alla donna che ami sulla felicità e il ragù
Singlemama con La prima volta che ho mangiato i piselli davvero
Lillina con Lu vinu
La Donna Camèl con Mia nonna era google
Dario con Bastardi affucati
Pendolante con Antichi sapori
Effe con Raneclode 

(nell’immagine, Processione di san Marco, di Gentile Bellini)

La conquista del Nuovo Mondo

“Dietro un grande ammiraglio c’è sempre un grande mozzo”.
Comincia così la storia della mia vita, che vado raccontando ormai da tanti anni nelle bettole dei porti, per un uditorio per lo più ostile di marinai irascibili e ottenebrati dal pessimo vino. E ogni volta che intono il mio incipit, c’è chi si stizzisce, chi tira un pugno sul tavolaccio, soprattutto chi mi sbeffeggia, e con voci sguaiate tutti mi mandano all’inferno. Alcuni l’hanno già sentita, la mia storia; altri si lasciano subito contagiare dai compagni e si associano alle imprecazioni e alle battute derisorie senza nemmeno farsi un’idea propria.
“Lasciatemi raccontare, caproni! Giudicherete dopo! – ma la mia voce è sommersa dai fischi e dalle battute degli ubriachi, che l’oste cerca debolmente di placare nel timore – fondato – che tutto vada a finire in una rissa.
Eppure è una storia incantevole, e qualcuno è abbastanza onesto da starmi a sentire, pur nel coro di risate e fra gli scoppi di bestemmie.  Una storia incantevole e me ne sono servito in più di qualche porto per incantare più di qualche donna; perché si sa che le donne sono ascoltatrici sensibili e di fervida immaginazione.

“Ero un ragazzetto imberbe, e quello era il mio primo imbarco a lungo termine. Si andava verso le Indie attraverso il mare più vasto e sconosciuto che uomo avesse mai tentato, e io di giorno mi arrampicavo sugli alberi e sulle sartie come una scimmia, e pulivo le sentine e prendevo ordini – i più umili – da tutti, ma me le sognavo di notte, queste Indie traboccanti di tesori, dove l’oro scorre a fiumi e le montagne sono di diamanti e rubini. Ormai mi ero abituato a sentire sotto i piedi il continuo ondeggiare del fasciame e tra le mani l’asprezza dei canapi, e quasi non ricordavo più la sensazione di stabilità della terra ferma.
Quella mattina c’ero io in coffa, lassù in cima dove si tocca il vento che spinge le vele e si scruta l’immensità tutta uguale dei flutti, e fui io a intuire il cambiamento dell’orizzonte: dove prima era solo cielo, ora si andava intessendo una lieve bruma che in pochi minuti assunse l’incerto profilo di un’isola possibile. Se fossi stato distratto forse mi sarebbe sfuggita, e le nostre prue avrebbero continuato a puntare verso il mare aperto, mancando quell’appuntamento con la Storia, perché l’Ammiraglio era sotto scacco e gli rimanevano pochi giorni, o forse ore, per schivare un ammutinamento. Ma ora il mio avvistamento aveva salvato la sua spedizione, e forse la sua stessa vita”.
“Buuuuh! Buuuuh!”
“Ecco, lo sapevo: non mi credete, pensate che esageri. Mascalzoni, marinai falliti, feccia del porto! Ma ci sono abituato, e ho capito da tempo che è solo invidia. Perciò continuerò a raccontare, perché lo so che malgrado tutto mi state ad ascoltare, e volete che arrivi fino in fondo.
A bordo tutti giubilavano; furono fatti girare barilotti di vino e gli uomini si abbracciavano e si davano grandi pacche sulla schiena. L’Ammiraglio ordinò una scialuppa e si preparò alla murata nei suoi abiti più sontuosi, con le insegne reali e un crocefisso tutto d’oro. Gli ufficiali non furono da meno. Io fui il primo a calarmi nell’imbarcazione, portando via il posto al compagno designato ma già troppo ubriaco. Remammo verso quel miraggio, quella costa bassa e soleggiata emersa per miracolo dal mare oceano, e più ci avvicinavamo e meglio distinguevo i contorni, più forti si facevano le mie braccia e più ansioso il mio cuore.
A pochi metri dalla riva un impulso irresistibile mi fece abbandonare il remo: le mie gambe decisero da sole, e mi gettai fuori bordo, impattando dolcemente con i piedi sul fondale basso e trasparente e suscitando una fuga di pesci minuscoli e lucenti come scintille. La sabbia franava maternamente sotto i miei saltelli goffi, ed era la prima volta dopo settimane che ne riscoprivo la consistenza. In pochi passi e tra spruzzi radiosi raggiunsi la spiaggia e stampai sulla sabbia la prima impronta di un uomo del vecchio mondo su quella terra vergine.
In quel momento, e per pochi istanti, essa fu mia, prima che l’ammiraglio la consacrasse solennemente a Dio e a Sua Maestà il Re di Spagna. Ma per sempre io le appartenni.
Che importa se la risacca cancellò le mie orme subito dopo? Se dalla barca mi giungevano grida astiose per aver sopravanzato l’Ammiraglio? Mentre mi affannavo a tirare in secco la prua perché egli potesse scendere senza bagnarsi gli stivali, pesticciavo con i miei piedi scalzi quella sabbia nuovissima: era calda, cedevole e morbida come… come la pelle di una donna, sì, come la pelle di una donna. Ma questo lo avrei scoperto solo in seguito, con Ines, o forse era Violeta, non sono più certo del nome. Ci amammo per un’oretta soltanto, capite, e dopo di lei ce ne sono state talmente tante che…”
“Ma sentitelo! Buffone!”
“Tante, sì, tante. Perché, voi no? Cialtroni, gentaglia, ah, lo so che fate i duri, gli increduli, ma ciascuno di voi lo ha ancora, in fondo alle budella, il ricordo della sua prima donna. Non era forse la sensazione più sconvolgente, più inebriante del mondo, poter toccare quella pelle per altri nascosta sotto le vesti, e scoperta e offerta a voi soli per la prima volta? Tiepida e liscia come un sasso levigato dall’acqua, ma viva e dolce come il latte e il pane, e con quell’odore di miele impossibile da dimenticare… così era la sabbia del nuovo mondo, pulita, luminosa e arrendevole, e i miei piedi ci fecero l’amore, sì, ci fecero l’amore, avete capito? No, non potete capire. Non ci siete mai stati, laggiù.
Quella notte ebbi la febbre. Succede, quando ci si innamora per la prima volta.
Oro e diamanti e rubini, poi, non ne ho visti né toccati. Ma era come se quella sabbia fosse fatta di oro e diamanti e rubini, e anche miele e pelle di donna, tutti mescolati insieme, triturati e polverizzati insieme, una coltre preziosissima e incontaminata.

Ecco, adesso state tutti zitti, eh? Non pensate più che siano frottole da marinaio? Adesso un po’ mi credete? E magari qualcuno di voi ha anche gli occhi un po’ lucidi, vero? Forza allora, un giro per tutti, lo offro io. Ma scusate se non resterò a bere con voi: sono molto vecchio e ho un peso sul cuore, mi succede così ogni volta che racconto la mia storia nelle bettole dei porti e… ah, la mia Ines! La mia Violeta!”

Questo raccontucolo chiede il permesso di salire a bordo dell’eds Toccami della Donna Camèl insieme a:
L’incontro di Dario
Laß Dir raten, trinke Spaten di Hombre
Argento vivo di Lillina
 
Eds-Pornodirivinewelsh di Cielo
Cantando nella luce di MaiMaturo
Outing di Pendolante 

Terre lontane

È l’ora che precede i Vespri mariani, e nella mia cella sale dal chiostro il profumo commovente delle rose e dei gigli mentre io, carico di anni e di malinconica saggezza, vado ripensando ai tempi lontani in cui ero ragazzino e i colli che dolcemente cintavano il mio orizzonte non erano questi della verde Toscana ma quelli del mio paese natio, il Poitou.
Quella sera indimenticabile, avrò avuto una dozzina d’anni e mai avrei pensato che la mia vita sarebbe presto mutata così profondamente. Fino ad allora, conoscevo solo i confini della masseria, i lavori dei campi, i ritmi degli animali da cortile, gli affetti della mia famiglia di contadini, le leggi della Chiesa e del Re.
Ma accadde un fatto, un incontro, che mi aprì un’altra strada, e la più imprevedibile.
Si era alle porte dell’inverno, e mai come in quei giorni era dolce tornare all’imbrunire alla nostra casupola, riconoscendone da lontano il fil di fumo e pregustando il calore del fuoco e l’odore della zuppa. Terminata la giornata di lavoro, ci accingevamo a sedere tutti intorno al tavolo per la cena; mio padre recitò la preghiera di ringraziamento e subito dopo mia madre cominciò a riempire con abbondanza le nostre ciotole con mestoli di minestra densa e fumante.
In quel momento, udimmo bussare alla porta.
Sulla soglia si presentò uno sconosciuto vestito di stracci, sudicio oltre ogni dire, in atteggiamento umile. Dai suoi capelli come corde intrecciate di pece, dalla barba aggrovigliata e intrisa di ogni porcheria, dalla pelle annerita e in più punti scorticata e disseminata di lacerazioni in parte ancora gementi, emanava il lezzo più nauseabondo che avessimo mai sentito, un miscuglio di fetori dolciastri, pungenti e indecifrabili che invase a ondate la nostra cucina. I miei fratelli e sorelle, in preda a orribili smorfie, sgusciarono sotto il tavolo e si ripararono accanto alle gonne di nostra madre che, gravida per l’ottava volta, era impallidita e si era portata un lembo del grembiule a coprire la bocca. Io, il maggiore, resistetti e anzi mi avvicinai a mio padre per dargli sostegno nella insolita situazione.
Lo sconosciuto parlò, o meglio esalò una voce fioca, mortalmente affaticata, e ci raccontò di essere reduce dalla Terra Santa, dove aveva combattuto e riportato gravi ferite, e in cammino verso Poitiers nella cui cattedrale avrebbe sciolto il voto di povertà e astinenza cui aveva affidato la propria vita. La meta che perseguiva ormai da molti mesi non distava più di due giorni, ma per raccogliere le ultime forze chiedeva umilmente di poter passare la notte al riparo del nostro fienile o nella stalla.
Lo sforzo di questa spiegazione lo aveva sfinito, e a mezzo dell’ultima frase lo vedemmo afflosciarsi a terra come un sacco, ma talmente leggero da non fare che un fruscio di stracci.
Mio padre, che aveva modi rudi ma un cuore cristiano, vinse subito ogni ripugnanza: lo aiutai a trasportare quel corpo infetto e denutrito nel fienile, lo adagiammo, gli bagnammo le labbra con un po’ d’acqua e pian piano lo vedemmo rinvenire. Mia madre gli mandò una ciotola di zuppa e due coperte, e io mi offersi di restare accanto a lui, perché era visibilmente malato e troppo debole. Mi acquattai in un angolo con una lucerna, un acciarino e una brocca d’acqua e mi accinsi a una lunga veglia.

Quella notte, il cavaliere errante smaniò e delirò a lungo, squassato da una febbre diabolica; agitava le braccia alla cieca, respingeva la coperta, scuoteva la testa di qua e di là, bofonchiando frasi spesso incomprensibili in cui a tratti emergevano lamenti da strappare il cuore. Io, inchiodato da una fascinazione irresistibile, lo ascoltavo; e un po’ alla volta le sue parole smozzicate si facevano chiare alle mie orecchie. L’immaginazione fece il resto.
Raccolsi una lunga storia di viaggi per mare e per terra, di vascelli carichi di armi e uomini esaltati, di spedizioni a cavallo o sui cammelli lungo piste desertiche e pietraie.
Udii clangori e cozzi di ferri e mazze, scalpitii e nitriti, cigolii di carri da guerra lanciati all’assalto, sibili di dardi, sfrigolii di incendi.
Ma udii anche il carezzevole gorgogliare di limpide fontane e le nenie tribali di tamburelli e flauti, e il fruscio della brezza della sera fra le palme e i cedri, e lo sciabordio dolce della risacca in riva a un grande mare.
Vidi i diamanti e le gemme che incrostavano il manto di califfi, gli stendardi variopinti sulle torri, le cupole dorate delle città sante, i cortei bizantini e cristiani, le porpore, le sete, gli schiavi neri come la notte che conducevano al guinzaglio maestosi leopardi alla corte del Re di Gerusalemme.
E soprattutto distinsi, dal marasma stordente che impaniava quel corpo derelitto, gli innumerevoli odori che ne componevano la varietà. La salsedine degli scafi di legno, l’afrore delle stive e dei postriboli del porto, le spezie multicolori dei mercati, la frutta matura sui muretti bianchissimi al sole, gli aromi degli erboristi e dei maestri profumieri, gli incensi delle liturgie, le pietanze piccanti vendute per le strade. E accanto a queste fragranze così esotiche e seducenti, e intrecciate a esse, ecco anche i fetori della guerra, il sudore dei cavalli, il puzzo della paura dei combattenti, quello dolce e ferroso del sangue vivo, o asfissiante delle ferite infette e dei corpi bruciati, e poi la putredine dei lebbrosi, i miasmi della dissenteria, il tanfo dei lazzaretti, delle prigioni, delle carcasse di animali ai cigli delle strade polverose.
Tutto questo vidi, udii e annusai, e ne ero al tempo stesso sconvolto e abbacinato.
Solo verso mattina la febbre cedette, e l’infelice si quietò, sfinito come dopo una lunga lotta. Allora mi addormentai anche io, e quando mi svegliai il sole era alto e l’uomo se n’era andato. Aveva piegato con cura la coperta, bevuto tutta l’acqua e mangiato la minestra fredda, lasciando ogni cosa in ordine in un angolo.

Due settimane dopo, accompagnai mio padre a Poitiers per un mercato di bestiame, e mentre era occupato a trattare sgattaiolai verso la cattedrale per cercare notizie del nostro ospite misterioso. Venni a sapere che, due giorni dopo che aveva trascorso la notte da noi, un uomo emaciato, con gli occhi spiritati e gli abiti a brandelli, era effettivamente entrato in città e si era rivolto al canonico per sciogliere il suo voto. Dopo la confessione e la benedizione, aveva finalmente preso un lungo bagno purificatore, si era fatto tagliare la barba e aveva chiesto la tonsura.
Quello stesso anno, annunciai ai miei genitori il mio desiderio di abbracciare la vita monastica, ed essi mi affidarono ai canonici di Poitiers. Da allora sono passati tanti anni. Ho dedicato la mia esistenza alla preghiera e alla clausura perché Nostro Signore ci preservi da tutte le eresie e tutte le guerre, e ora la mia lunga vita si sta compiendo fra le mura quiete di questo monastero toscano, tra profumi di rose, gigli e incenso che mi predicono già il Paradiso.

*  *  *

Questo racconto esaGGerato partecipa all’eds Sniff sniff della Donna Camèl insieme a:
San Sebastiano di Dario
Odori di ricordi di Lillina
Ucci Ucci sento odor di cristianucci di Hombre
L’abbondanza di cozze di Fevarin e carnazza
L’odore della Sipe di Pendolante
Profumo di Marsiglia di Lillina
Odore della domenica di F
La puzza di La Donna. Camèl

L’orecchio assoluto

In ritardissimo ma ben convinta e orgogliosa di partecipare all’eds della Donna Camèl, eccomi qua, con uno dei miei soliti raccontini dove ficco dentro un po’ di cose che mi sono molto care: Venezia, il settecento, la musica. Prima non ho proprio potuto: sapete com’è, a volte si ha il tempo ma non una storia, io ultimamente ho le storie ma non il tempo per scriverle.

Ah povero Serafino, che ne sapevi tu! Tu, l’ultimo di sette fratelli e sorelle, tu il più gracile e pensieroso, quello buono solo a cogliere frutti dagli alberi mentre gli altri vangavano la terra e spaccavano la legna, robusti e fracassoni quanto tu eri – e sei – così magrolino e inappetente, così sognatore e suggestionabile, così fatto di un’altra pasta.
Vai, vai – ti hanno spinto, emozionati, tutti quanti, tuo padre, tua madre, i parenti, perfino i pochi amici un po’ invidiosi della tua fortuna.
Vai vai, Venezia è la città della musica, dei teatri, degli artisti – ti lusingava il curato, quello che per primo si era accorto del tuo talento e ti aveva messo in mano il primo violino.
Vai,Serafino, tu sei nato per diventare un grande musicista, qui non è posto per te, non sarai mai un contadino, non imparerai mai a zappare i campi, a tirare il collo alle galline, non sei fatto per questa vita.
Ne parlavano tutti insieme la sera intorno alla tavola, facendo conti e progetti con gli occhi lustri. Tua madre ti ha rimesso a nuovo un abito di velluto che a tuo padre era venuto stretto molto presto, e ha venduto un’oca delle migliori per farti fare un paio di scarpe eleganti, con la fibbia, da città. Per i concerti, diceva, commovendosi. Tuo padre ti ha contato il denaro in un sacchetto di stoffa e ti ha fatto un discorsetto da uomo, poi ti ha salutato stringendoti la mano come si fa tra adulti, la sua mano grossa e coriacea e la tua gentile e affilata, quella di un violinista, di un angelo.
E hai lasciato il paese, un barcaiolo ti ha traghettato col tuo piccolo baule attraverso un largo braccio di laguna e tu hai finalmente messo piede nella città dei tuoi studi e del tuo incantevole futuro.

Ma nessuno ti aveva parlato delle sue pietre umide, del salso che corrode i muri, dell’ombra perenne di certe calli profonde, dell’acqua che in inverno lambisce le soglie delle case e a volte risale i primi gradini, col suo odore di marciume e il suo ritmo lento e indecifrabile. Non ti avevano detto che nella tua stanzetta in affitto avresti visto una lama di sole solo due ore la mattina, e per il resto del tempo non ci sarebbe stato alcun caminetto a scaldarti mentre studi su un tavolino traballante o provi la tua musica con i mezzi guanti. Non immaginavi quanto avresti rimpianto il grande focolare sempre acceso nella cucina di casa tua, né che avresti dovuto accontentarti di un catino di acqua fredda per lavarti il viso all’alba e di uno scaldino che a malapena ti intiepidisse il lettuccio umido la notte.

Nel salone dove prendi le lezioni con altri giovinetti c’è lo stesso freddo, e solo un po’ più di luce dai finestroni; il maestro, un ex-gesuita suscettibile e intransigente, non tollera lamentele né incertezze, pretende l’impossibile dai suoi allievi e in particolare da te, che ti sei rivelato così promettente fin dal primo giorno, tu con quel dono divino, il tuo orecchio assoluto. Ma già dopo qualche settimana è cominciato il tormento dei geloni, che ti deformavano i sensibili polpastrelli e li gonfiavano e ulceravano fino a farti piangere in silenzio mentre ti imponevi di suonare lo stesso. Il contatto con le corde del tuo strumento li fa sanguinare, ed è così umiliante, oltre che doloroso.
I soldi poi non bastano mai: l’affitto, la lavandaia, le lezioni, i libri. I tuoi scarpini eleganti e inutilissimi non hanno retto ai primi geli e li hai fatti riparare due volte, prima di rassegnarti a procurarti degli stivaletti più dozzinali ma perlomeno più caldi e robusti.
Eppure la passione per la musica finora ha mantenuto viva la tua volontà di resistere; a volte hai suonato per nessuno, sui gradini di un ponte o di una chiesa, per il solo incanto di dialogare con il tuo strumento che sempre risponde con voce celestiale al fiotto di felicità che ti nasce in cuore quando pensi alla musica.
Ma ora, povero Serafino, c’è questa nuova disgrazia che ti sta rodendo l’animo da qualche settimana: quel rumore che ti assilla notte e giorno, ti attraversa la testa da un orecchio all’altro, diabolico e multiforme, a volte come uno stormire di fronde, altre come risacca di alta marea, oppure rauco come un soffio forzato dentro una canna, talora persino simile a uno squittire di topo, o un pigolio di uccelli impazziti. Ti dà poca tregua, ti toglie il sonno, ti smagrisce di giorno, ti rende un povero spettro febbrile che ha perso l’orientamento e rabbrividisce anche alla solita eco dei suoi passi, diventata un rimbombo insopportabile. E il peggio è che anche le note del tuo violino sono contagiate da questo male, ed escono distorte, irriconoscibili, raschianti come le unghie su un vetro, uno strazio che va peggiorando e ti spegne pian piano non solo la dignità ma la stessa voglia di vivere.
Ti torna alla mente il nonno. Era sordo, sordo quasi del tutto. Anche lui sentiva rumori inesistenti, e se ne lamentava con tutti, e tuttavia non avvertiva le parole di chi cercava di consolarlo. Il suo mondo era popolato di stridori e cigolii, e null’altro. E ora sta succedendo a te, povero Serafino, che hai solo diciassette anni e quell’orecchio assoluto che avrebbe dovuto fare di te un grande artista.
L’ultima notte in bianco ha fatto di te uno straccio. Senza la musica, non hai più motivo di vivere, non hai più alcun futuro su cui contare, alcuna gioia da raccogliere.

Sei in cima a un ponte. Ti affacci alla spalletta. L’acqua del canale è verde e pigra, e muove lentamente con sé qualche immondizia: quasi una metafora della deriva senza più rimedio che è diventata la tua vita. Due cose sole ti restano da fare. La prima è la più facile: scavalcare quel parapetto e lasciarti cadere nell’acqua fredda e sporca. La seconda invece è troppo difficile, e sai già che non ci riuscirai: non riuscirai a lasciarti anche andare a fondo perché ci vorrebbe uno sforzo di volontà disumano per rinunciare a nuotare, e tu sai nuotare e sei anche un po’ codardo, così ti salveresti malgrado tutto.
Ma ci provi lo stesso, spinto da un nuovo attacco di fruscii e scampanii che ti si scatena in testa più forte del solito, forse animato dal galoppo del tuo cuore portato allo stremo. Sei magro e agile, una gamba è già sopra la spalletta, tiri su anche l’altra.
“No no, bambin mio, cossa fastu? – grida una donna, e ti senti trattenere un braccio, poi anche l’orlo della giacca, e la donna insiste a gridare e altri passanti si fermano, ti soccorrono, ti strappano al parapetto, ti parlano tutti insieme, accalorati, premurosi, e tu ti abbandoni fra le loro braccia e ti afflosci a terra chiudendo gli occhi pieni di lacrime.
Un uomo grande e grosso ti carica in spalla, qualcun altro si preoccupa del tuo violino, la donna materna ti cede il suo scialle per coprirti la testa nuda, e tu sei senza forze e pieno di vergogna e lasci fare, non ti opponi più a niente, avresti voluto morire e forse sei morto lo stesso, anche se quelli te lo hanno impedito.
Ti portano lì vicino, nella bottega dello speziale. Lì dentro c’è un bel tepore e profumi pungenti. Lo speziale ti accoglie bonario, gli raccontano la cosa, lui ti fa sedere su una poltroncina e ti esamina con mani calde e sorriso indulgente.
“Su su, giovinotto, non sono cose da fare, queste. È stato un brutto momento, lo so, ma adesso è passato, vero? Prendete qua, bevete questo – ti danno qualcosa da bere, ti brucia un po’ la gola ma ti dà forza e conforto.
Poi lo speziale manda via tutti e avvicina una sedia per fare due chiacchiere con te, come farebbero un padre o un buon prete confessore.
“Allora, adesso potete dirmi cos’è successo – ti invita.
E tu, riscaldato nelle vene da quel cordiale, cominci a raccontargli il tuo male, prima con pudore e poi con sempre maggiore sincerità e particolari. I rumori, gli incubi, la paura, il nonno sordo. Gli confessi – e non sai nemmeno tu da dove hai trovato tanto coraggio – di esserti convinto di andare incontro a pazzia e morte precoce, perché un tormento come quello che soffri da qualche mese non può che far impazzire chiunque, soprattutto se giovane, inesperto e lontano da casa come te.
“Macché macché, per morire ce ne vuole, giovinotto. Intanto vediamo un po’ se si può fare qualcosa: ho già un’idea, sapete? E se è quella giusta, vi assicuro che tra pochi minuti uscirete dalla mia bottega guarito e rinato”.
Il sant’uomo va nel retrobottega, e quasi subito ne torna con degli oggetti in mano e un panno pulito. Hai paura, eh, Serafino? Paura di quella bacinella fumante, di quei piccoli strumenti metallici, di quel rito sconosciuto che sta per iniziare e potrebbe rivelarsi doloroso. Non ne sai niente, tu, di malattie, di dottori. A casa, in campagna, era tua madre a curarti quando avevi bisogno: tisane, impiastri, purganti, e via. Tutto andava a posto subito, grazie alle sue mani sante e all’aria familiare di casa tua, del tuo lettino, dei tuoi cari vicino a te.
Lo speziale comincia con guardarti l’interno dell’orecchio avvicinando una candela per vederci meglio. Lo senti ridacchiare piano, un riso più di soddisfazione che di derisione. Poi avverti un liquido caldo e oleoso entrarti in un orecchio; lo senti diffondersi piacevole e indolore, e chiudi gli occhi ormai pronto a tutto. Ora qualcos’altro si fa strada nel tuo orecchio, ma sempre in modo delicato anche se stavolta hai capito che si tratta di uno strumento, qualcosa di metallico, prudente e preciso. Ancora qualche istante, ed ecco la voce trionfante dello speziale che estrae la pinza, si raddrizza e annuncia “Ecco fatto!”
E infatti nello stesso attimo il tuo orecchio esacerbato si è riaperto alla vita come per incanto e senza dolore, solo un lieve ed euforico stordimento nel momento in cui l’ovatta e la risacca e gli squittii si sono dissolti per lasciare tutto lo spazio a un colpo di vento benefico e alla perfezione totale dei rumori circostanti, ora nuovamente distinti, puliti, intonati, non più stranieri. Anzi, ogni rumore è un suono, un’armonia vergine, un balsamo.
“Eccolo qua, il male che vi dava tanto fastidio: un frammento di paglia, nientemeno! – lo speziale ha un po’ l’aria di canzonarti, ma benevolmente, mentre ti fa vedere il frustolino ancora trattenuto nella pinzetta. Tu sgrani gli occhi, sei confuso, arrossisci: mai avresti pensato che una pagliuzza potesse rischiare di far impazzire un uomo. E allora ti viene in mente che sì, Marcolina, il fienile, il giorno prima di partire, lei un po’ piangeva e un po’ rideva, perché non voleva lasciarti andare, e non ti ha detto di no, e neanche tu hai detto di no a lei, e quel fienile era caldo e odoroso e ci avete passato le ultime ore e le più belle alla vigilia della partenza. Poi quella pagliuzza è partita con te, forse per impedirti di dimenticare Marcolina, o forse invece per farti diventare uomo davvero.
Adesso è tempo di tornare a vivere: ringrazi lo speziale, sei colmo di gratitudine, e gli chiedi quant’è il suo onorario. Ma lui non vuole denaro, no. Lui guarda il tuo violino, e tu per un attimo ti senti nuovamente morire all’idea che voglia essere ripagato proprio con ciò che più che ti sta a cuore.
Invece no, hai capito male: non è lo strumento che vuole, lo speziale, ma il piacere di ascoltarti suonare qualcosa solo per lui, ora, lì, tra quegli scaffali di noce, i vasi di ceramica con le scritte in latino, gli aromi canforati che impregnano il bancone. E tu, Serafino, suoni con le lacrime agli occhi, e il tuo violino è tornato a essere il violino degli angeli e alza verso le travi del soffitto e oltre la vetrina e su per la calle e in alto fino ai tetti e alle cupole e al cielo di marzo le note perfette del tuo orecchio assoluto.

*   *   *

All’eds della Donna Camel hanno partecipato, prima e meglio di me:
MaiMaturo – Il movimento
Lillina – Ti lascio una parola
Fevarin e carnazza – Un errore di sbaglio
*cla – Il pallone
Hombre – Testa di ignudo
MaiMaturo (bis) – Il rumore del vento
La Donna Camèl – Amico mio
Pendolante – Il sibilo
Dario – Michelino e Filippo

Unisci i puntini

Il garzone
Mi chiamo Giuliano Poletto, ho diciotto anni. Tra un mese parto militare perché a scuola mi hanno già bocciato due volte. Stamattina ero in giro in bicicletta per distribuire volantini pubblicitari del negozio di alimentari di mio papà. Stavo infilandoli nelle buche delle lettere di quella palazzina quando ho alzato gli occhi e l’ho vista letteralmente cadere. Non l’ho vista buttarsi, e neanche toccare terra. L’ho vista, si può dire?, in volo. Veniva giù dall’alto come uno straccio. Infatti ho pensato per un attimo che il vento avesse fatto volare un lenzuolo steso ad asciugare, ma non c’era vento e per di più pioveva. Non ha fatto rumore. È caduta dove non potevo vedere perché c’è la siepe, probabilmente sull’erba. Ho subito suonato tutti i campanelli, anzi avrei voluto scavalcare il cancello ma ho pensato che era meglio se qualcuno mi apriva. Non rispondeva nessuno. Poi ho visto arrivare lungo il marciapiede un tale con un cane al guinzaglio e infilare le chiavi nel cancello accanto. L’ho chiamato, gli ho gridato di telefonare subito per chiedere aiuto perché qualcuno si era gettato dal balcone, ma lui mi guardava diffidente e non mi ha risposto. Ha preso il cane in braccio ed è entrato chiudendosi dietro il cancello.

Il domestico
Manuel De La Cruz. Filippino. Documenti in regola. Da sei mesi sono al servizio della famiglia Prosdocimi, con mia moglie. Stamattina rientravo con il cagnolino della signora e un giovanotto molto agitato voleva costringermi a fare una telefonata. Parlava di una disgrazia, ma io non ho visto niente. Ho portato dentro il cane e gli ho pulito bene le zampe bagnate prima di entrare in casa, come mi hanno ordinato. Io avrei anche voluto farla, quella telefonata, ma la signora stava dormendo e mia moglie mi ha consigliato di non mettermi in qualche guaio perché siamo stranieri. In regola, ma stranieri. Il signore è in viaggio d’affari. E il telefono del resto ha il lucchetto perché hanno paura che lo usiamo per chiamare i parenti a Manila. Poi però qualcuno deve aver telefonato perché entro un quarto d’ora abbiamo sentito la sirena di un’ambulanza. Non so altro, e nemmeno mia moglie. Abbiamo continuato i nostri lavori come sempre e la signora non si è svegliata.

La vicina
Io veramente ho capito subito che c’era qualcosa che non andava perché stavo sbattendo il tappetino del bagno e dalla finestra ho sentito quel ragazzo tutto agitato contro quella sfinge del filippino. Mi chiamo Maria Mirella Ongaro, abito lì di fronte. A me quel filippino non è mai piaciuto, e neanche sua moglie. Camminano sempre rasente i muri, non salutano, stanno per conto loro. Se gli parli, fingono di non conoscere bene l’italiano. A forza di servire in quella famiglia sono diventati presuntuosi come loro. Comunque sì, sono stata io a chiamare l’ambulanza. A Giuliano ho creduto subito perché lo conosco, è un bravo ragazzo e suo papà ha un negozio molto serio, anche se i prezzi… No, la signora che si è fatta male non la conosco. Ho immaginato che fosse quella nuova, quella che ha traslocato qua nei giorni scorsi, ma ancora non l’avevo mai incontrata di persona. Dopo la telefonata sono corsa fuori a vedere. Ho preso l’ombrello, perché pioveva. Devo dire la verità: non ho visto granché, perché intanto era arrivata anche la polizia e non hanno permesso a nessuno di avvicinarsi. Povera donna, mi dispiace. Mah, speriamo che se la cavi.

La vecchia signora
Mi chiamo Maria Toffanin, vedova Scarpa. Sì, l’ho sentito il campanello, ha suonato più volte, ma lei capisce: ho 88 anni e mi muovo a fatica. Ci ho messo il mio tempo ad arrivare in ingresso. Ho aperto il portoncino e ho visto il ragazzo del signor Poletto che si sbracciava. Non sentivo bene cosa diceva, però era molto agitato e così ho aperto il cancello perché lo conosco. È corso subito verso il lato della casa dicendomi di non muovermi, poi è tornato da me bianco come un morto e di nuovo mi ha detto di rientrare e non affacciarmi dalla finestra, perché era successa una disgrazia. L’ho fatto entrare per telefonare… poverino, è così educato, pensi che si è scusato per le scarpe sporche, perché pioveva. Sono tre giorni che piove, sembra proprio autunno, non le pare? Comunque quando ha messo giù il telefono mi ha detto che qualcuno lo aveva preceduto e che i soccorsi erano già partiti. Io la signora del secondo piano l’ho vista solo un paio di volte. Era arrivata dieci giorni fa, da fuori. Si è scusata con me per il trambusto del trasloco. Tanto gentile anche lei. Le ho detto che sono un po’ sorda e che non si preoccupasse. Poi stamattina l’ho vista uscire prestino e tornare dopo mezz’ora con un mazzo di fiori e un pacchetto della pasticceria. Era un po’ impacciata a usare le chiavi perché con una mano teneva l’ombrello. L’ho salutata dalla finestra. Una persona a posto, normale. Che sappia io, non aveva ancora ricevuto visite. Il pomeriggio usciva a passeggiare. Sembrava un po’ sola, ma in fondo era appena arrivata.

 Il tassista
Ho raccolto una signora all’imbarcadero. Aveva una piccola valigia, così ho capito che era arrivata in treno alla stazione di Venezia. Mi ha dato l’indirizzo e lungo il tragitto ha risposto in modo molto formale a una mia osservazione sul tempo. Tutto qua. Arrivato nei pressi della destinazione, c’era un vigile che bloccava il passaggio e ho dovuto fermarmi. La signora è scesa con la sua valigia e l’ombrello, mi ha pagato e è rimasta lì incerta per qualche istante. Avrei voluto chiederle se intendeva tornare indietro o essere accompagnata da un’altra parte, ma il vigile mi ha fatto allontanare in fretta. Tutta la strada in retromarcia, ho dovuto fare. Non ho visto niente, solo la macchina dei vigili e il lampeggiante di un’ambulanza. E un po’ di gente che curiosava, con gli ombrelli aperti.

 I paramedici
Abbiamo ricevuto la chiamata alle 10 e venti, e dopo otto minuti eravamo sul posto. La vittima era viva ma senza conoscenza. Abbiamo visto subito che presentava diverse fratture agli arti, ma la cosa più evidente era il forte trauma cranico. Per puro caso, l’impatto è avvenuto nella stretta striscia d’erba tra il marciapiede che corre intorno all’edificio e la bordura di pietre delle aiole. Ci siamo adoperati per verificare i parametri vitali e predisporla per il trasporto. Maneggiare i politraumatizzati richiede molta cautela e competenza, sa. C’era con noi anche un medico del Presidio, per fortuna, che si è preso tutte le responsabilità. C’è voluta comunque oltre mezz’ora per stabilizzarla e arrischiarci a caricarla in ambulanza. Nel frattempo era arrivata la polizia e anche un’auto dei vigili, che ci hanno scortati a tutta velocità al Pronto Soccorso. Con la radiomobile avevamo già allertato i colleghi e anche il servizio di idroambulanze per un tempestivo trasferimento all’ospedale di Venezia. Da quando hanno chiuso l’Ospedale al Mare, qua al Lido abbiamo solo un misero presidio di primissimo soccorso. Roba da terzo mondo, una vergogna.

 La pattuglia
Siamo arrivati quasi contemporaneamente all’ambulanza. Abbiamo chiamato anche due vigili urbani per tenere l’area sotto controllo mentre noi facevamo le nostre verifiche. La dinamica sembrava chiara: tentato suicidio. Tuttavia è nostro primo dovere escludere atti criminosi, perciò siamo saliti nell’appartamento della vittima, al secondo e ultimo piano della palazzina. Lungo le scale non c’erano tracce di scarpe, benché piovesse, e comunque il portoncino era chiuso dall’interno con una catenella, segno che non era entrato alcun estraneo. Abbiamo dovuto aspettare il fabbro perché ci aprisse, e nel frattempo abbiamo fatto qualche domanda in giro. L’unica inquilina presente è la signora del pianterreno, di età molto avanzata, che non ha saputo fornirci notizie di rilievo. Il primo piano è al momento disabitato: la famiglia che vi risiede pare sia in vacanza all’estero. Il garzone che ha scoperto la disgrazia era sotto shock,  è chiaro che non c’entra nulla. Gli altri vicini sono stati tutti concordi nel negare di conoscere la vittima, che risulta essersi stabilita nell’appartamento solo da pochi giorni. All’interno c’erano in effetti segni di un recente restauro, come un certo odore di pittura fresca e di cera per pavimenti. Qua e là ci sono ancora scatoloni da svuotare. Le stanze sono complessivamente in ordine, forse un po’ sguarnite; mancano quadri e soprammobili, nel salone non ci sono ancora le tende. In particolare, la camera degli ospiti era in perfetto ordine; sul cassettone c’era un vaso di fiori freschi, sul comodino una cornice d’argento con una vecchia fotografia, l’unica trovata in casa. Non abbiamo rinvenuto nulla fuori posto. In bagno, cosmetici e una confezione di aspirina. Nessun altro farmaco in tutta la casa, e nemmeno alcol, salvo una bottiglia di vino bianco in frigo e una di cognac di marca in sala da pranzo, entrambe sigillate. Sul tavolino, un vassoio di dolci ancora avvolti nella carta della pasticceria. Apparentemente la signora si accingeva a ricevere una visita, e lo dimostrerebbe anche la cura dell’abito che indossava.
Ma la domanda è: perché si sarebbe gettata volontariamente dalla terrazza, se nulla la minacciava? Speriamo che qualcuno abbia la risposta, stiamo cercando qualche familiare. Per ora, pare ci sia solo una vecchia amica in grado, forse, di chiarire qualche aspetto di questa strana vicenda.

 Laura
Sono arrivata alla stazione verso le dieci. Ho preso il diretto per il Lido, poi un taxi. Avevo una valigia e pioveva. Il tassista mi ha fatta scendere qualche decina di metri prima perché c’era un blocco. Ho visto poliziotti e un’ambulanza. Non sapevo cosa fare. Mi sono avvicinata al cancello ma un agente mi ha fermata e mi ha chiesto dove andavo. Gli ho risposto che andavo a trovare un’amica. Così ho saputo che l’amica che andavo a trovare aveva tentato il suicidio. E subito lui ha voluto sapere molte altre cose, perché nessuno la conosceva e stavano cercando qualcuno della famiglia da avvertire.
Io la conosco da almeno trent’anni. Eravamo compagne al liceo, qui al Lido, dove io sono nata; lei ci viveva temporaneamente con la famiglia. Dopo la scuola ci siamo separate, abbiamo lasciato Venezia tutte e due; lei con i suoi a Milano, io con i miei a Trieste. Era lei che teneva i contatti, mi scriveva, mi telefonava. Per me non era una vera amicizia, lo era più per lei. Mi si era molto affezionata, mi cercava. La cosa strana è che siamo così diverse… lei brillante, ricca, un po’ eccentrica, io invece una persona molto normale, molto pratica, e anche piuttosto riservata. A scuola ero brava, forse per questo le piaceva stare con me perché si sentiva come obbligata a studiare un po’ più seriamente. Mi invitava alle feste, in spiaggia d’estate, a passeggiare per Venezia. Un tipo molto particolare. Esuberante, ma anche ingenua. Si innamorava come niente, e come niente le passava. Per lettera mi raccontava i suoi incontri, i litigi col fratello… fratellastro, per la verità, figlio di primo letto di suo padre… e poi i viaggi, i divertimenti. Sempre piena di amici. Io intanto mi ero laureata, sposata, lavoravo all’università come biologa, ho sempre fatto una vita tranquilla e regolare. A Venezia, e al Lido, sono tornata poche volte. Lei ne aveva conservato una nostalgia fortissima. L’ultima volta che ci siamo viste è stato due anni fa, proprio a Venezia, per il funerale di una nostra vecchia compagna di classe morta di leucemia. In quell’occasione portava occhiali scuri e pareva affranta. Dopo la messa mi ha trascinata via e abbiamo girato per ore nei nostri vecchi posti; lei parlava tantissimo, diceva che stava cercando casa per tornare a vivere al Lido, che era il suo sogno. Voleva stabilirsi al Lido e magari aprire un piccolo centro yoga, lei aveva un po’ la mania di queste cose orientali… A Milano aveva fatto tante cose: teatro, fotografia, per un po’ aveva avuto una boutique in cui confessava di annoiarsi moltissimo. I suoi erano morti, le avevano lasciato un patrimonio che aveva dovuto spartire con il fratellastro. Molto più vecchio di lei, un tipo sinistro attaccatissimo al denaro. Vive in Svizzera. Non so se ci siano altri parenti, dovrete chiedere a lui.
Poi qualche mese fa mi ha telefonato tutta euforica: aveva trovato l’appartamento giusto e mi invitava ad andare a trovarla non appena avesse traslocato. Per settimane mi ha tenuta al corrente di tutto, programmando nei particolari questa visita. Ci teneva moltissimo a farmi vedere la sua nuova casa, voleva che la aiutassi ad arredarla. Aveva progettato tutta una serie di pellegrinaggi sentimentali nei posti della nostra adolescenza, e sperava di rintracciare, con il mio aiuto, qualche vecchia conoscenza di allora. Ne parlava come dell’inizio di una nuova vita. A me sembrò assolutamente felice.
Non so cosa le sia successo. Dicono che in casa non hanno trovato biglietti, né farmaci né qualche segno di disagio… dicono che nella mia camera aveva messo dei fiori freschi e una vecchia fotografia di classe dell’ultimo anno del liceo. Io ero la penultima a destra, lei accanto a me mi teneva il braccio e sorrideva raggiante.
Dicono poi che non ci sono indizi che mettano in dubbio un gesto volontario. Forse non premeditato, ma sicuramente volontario. Era lì che mi aspettava, aveva messo il vino in fresco e si era vestita con la solita cura, poi d’improvviso. D’improvviso. Ha aperto la porta finestra, è uscita in terrazza, si è tolta le scarpe che la impacciavano e ha scavalcato il parapetto per lasciarsi cadere nel vuoto. La sua vita sembrava così felicemente piena, eppure ha scelto il vuoto. Capisco che la polizia non se lo sappia spiegare. Però penso che nessuno abbia veramente il diritto di pretendere una risposta al suo gesto. Sono cose sue.
Ora dicono che è in sala operatoria e lotta per la vita, ma quale vita? Le lesioni cerebrali sembrano irreversibili. Se anche si risvegliasse, nessuno potrà mai chiederle perché l’ha fatto. Io per prima non glielo chiederei.

Ho preso una camera in una pensione. Villa Edera. Era già vecchiotta quando ero giovane io, e adesso è ancora più dolcemente scalcagnata. Ma per ora mi fermo un po’, non posso ripartire. Anche se all’ospedale non mi daranno notizie perché non sono della famiglia. Anche se lei non saprà forse mai che sono qui per starle vicina. Magari me ne andrò se e quando arriverà suo fratello dalla Svizzera. Resto qui, nel salottino di Villa Edera. Guardo la pioggia fuori. Forse, se smette un po’, esco e vado a vedere il mare.

Per esempio la neve

I primi a cantare erano i galli dei monaci della Certosa, nella lontananza della campagna, quando dietro il bosco il nero della notte virava al blu scuro.
Clotilde si alzò, accese il lume e si affacciò alla stanza del fratello. Magnus era già sveglio, come ogni mattina, e con la sola testa e le mani fuori dalle coperte aspettava solo quel segnale per scostarle e balzare giù dal letto, pronto e felice come se ogni giorno fosse di festa.
Magnus era così: il corpo di un uomo di trent’anni, il cervello di un bimbo di tre, l’anima di un angelo. Le febbri che lo avevano colto quando era piccolissimo lo avevano lasciato un po’ tocco, di una stoltezza buona, fatta di candore e mansuetudine. Obbediente come un cane, laborioso come un mulo e portato alla felicità come un rondone a primavera. Sì, magari parlava poco, ma aveva il dono della sintesi e ciò che gli sarebbe riuscito complicato da dire lo esprimeva in sorrisi espliciti. E quelle mani, poi: mani d’oro, che sapevano fare di tutto.
Clotilde scese in cucina, ravvivò il fuoco e scostò le imposte: fuori era ancora troppo buio, restava una debole coda di luna al tramonto, già incalzata dall’indaco che sorgeva. Nella notte il gelo pareva essersi allentato: la campagna era molle di umidità ma non brillava più di brina. Magnus apparve sulla porta, alto e robusto e con la bocca già pronta al sorriso, e fece l’annuncio:
“Ho visto la neve”.
Se l’aveva vista, significava che l’aveva sognata; per lui non c’era differenza, non esisteva confine fra la realtà e il sogno, il suo contatto viscerale con la natura era vivo anche durante il sonno e gli parlava con la stessa certezza che percepiscono gli animali.
Clotilde gli credette subito. Gli credeva sempre. I due si scambiarono uno sguardo interrogativo, come stessero esaminando tutta una serie di fatti e programmi che non necessitavano di parole, e Magnus alla fine ripeté, con la medesima lieta sicurezza di prima:
“Ho visto la neve”.
Poi prese il secchio e uscì a mungere le vacche, mentre la sorella iniziava a impastare il pane sul piano infarinato della madia. Altri lumi si andavano accendendo nelle stalle dei casolari sparsi, altri coloni cominciavano la giornata dopo aver annusato l’aria per trarne presagi, altre donne impastavano acqua e farina e riponevano le pagnotte a lievitare accanto al focolare. Il latte fresco si scaldò sulla stufa e andò a riempire due grosse ciotole piene a metà di caffè d’orzo. I due fratelli fecero colazione continuando a lanciare occhiate alla finestra, come presi da un’urgenza che aveva tuttavia qualcosa di festoso.
C’era molto da fare, se davvero avrebbe nevicato. Clotilde rassettò velocemente le stanze, estrasse le trapunte più pesanti dalla cassapanca, spazzò i pavimenti poi raggiunse Magnus che stava rigovernando le bestie. Era nato un sole piccolo e fumoso, buono solo a spandere un chiarore lattiginoso e senza riflessi. Rabboccarono il mangime e l’acqua per le galline, i maiali, i conigli, e fissarono pezzi di tela cerata a coprire le lamiere del pollaio. Nell’orto sguarnito le verze si aprivano sfarzose, barocche, e Clotilde ne colse le due migliori per conservarle in salamoia. Con le ultime piccole mele e una decina di cachi riempì una cassetta e la mise in salvo dal gelo. Poi protesse con fascine di paglia il piede degli alberi da frutto, mentre Magnus rivoltava la terra dell’orto per l’ultima volta in quella stagione, affidandola poi alle drastiche cure dell’inverno. Avere dei compiti lo elettrizzava, e poterne contemplare alla fine i risultati gli dava alla testa dalla felicità.
Per tutta la mattina portarono avanti i preparativi per il lungo isolamento che li aspettava, e intanto il disco pallido del sole si era lasciato ingoiare da un grigiore denso come vello di pecore. La luce si era fatta spettrale, e anche la gatta si guardava intorno in attesa, senza allontanarsi troppo dalla soglia. Anche lei aveva visto la neve. Anche le cornacchie che volavano basse rasentando i pendii l’avevano vista.
Magnus salì sul tetto per verificarne la tenuta. Clotilde raccolse un cestino di uova. La gatta tornò dentro e si rannicchiò di nuovo a dormire accanto al fuoco.
Ingrassarono i serramenti esterni, i mozzi del carro, la carrucola del pozzo, gli scarponi. Magnus stipò la legnaia con nuovi ciocchi tagliati a misura e accatastati con ordine, occupando meticolosamente ogni spazio. Il fienile traboccava: con un forcone ciascuno rivoltarono il foraggio perché non prendesse di muffa, e non sentirono più il freddo.
Il nevischio cominciò intorno a mezzogiorno. Il primo a vederlo fu probabilmente il pettirosso sulla staccionata, poi lo videro anche loro dalla finestra della cucina, e terminarono la loro zuppa di castagne in piedi, con la ciotola in mano, guardando fuori dai vetri. Il cielo aveva assunto lo stesso colore e l’apparente consistenza del latte cagliato.
Magnus uscì di nuovo, stavolta per mettere al riparo gli attrezzi; prima li ripulì, li affilò, li fece brillare. Anche i suoi occhi brillavano di soddisfazione, e cominciava a brillare anche il terreno, dove la neve ancora sottile stava attaccando.
Clotilde ispezionò la dispensa: i sacchi di farina, di noci, di castagne, di patate; la damigiana dell’olio, il mastelletto di strutto; gli orcioli di miele, i vasi di composte, marmellate e confetture; le salamoie di ortaggi, le scatole di latta con le spezie seccate; i salami appesi alle travi; il sale, lo zucchero, gli scuri  bottiglioni di vino, le forme di cacio. Tutto in ordine, tutto confortevolmente in ordine.
L’imbrunire scese presto: la neve aveva preso forza e scendeva a falde più grandi, calma e sicura, senza vento né rumori, solo quella maestosa regolarità che indicava una nevicata lunga e abbondante, forse per giorni. Ormai era tutto bianco, e Magnus vi impresse le sue orme quando uscì per rigovernare gli animali per la notte, ma le tracce furono ricolmate presto e la neve ristabilì il suo ordine armonioso tutto intorno. Nel silenzio del vespero giunse ovattato il rintocco della campanella dei monaci, e parve lontanissimo. In fondo lo era, lontano, al di là di un mare di neve che ricopriva tutti i sentieri e donava nuove forme e dimensioni ai dossi e agli avvallamenti della campagna.
Cenarono alle cinque, o poco dopo, benché la notte si preannunciasse lunga, e tutte le notti seguenti. E dopo cena lasciarono aperte solo l’imposta della finestrella in cucina, per gettare ogni tanto uno sguardo alla neve che si ammucchiava agli angoli del vetro e continuava senza posa.
Clotilde avvicinò al focolare la sedia con il cuscino imbottito, inforcò gli occhialini che erano stati di suo padre e si mise in grembo i calzettoni di lana da rinforzare con nuove punte e nuovi talloni sulle vecchie smagliature.
La gatta si leccò a lungo il pelo già lucente prima di acciambellarsi con estrema cura per la notte.
E Magnus aprì sull’angolo del tavolo il suo quaderno, appuntì alla perfezione la matita con un coltellino, si diede uno sguardo contento tutt’intorno, incrociando quello rassicurante della sorella, poi cominciò, col sorriso nel cuore, a disegnare le sue macchine per volare.

nell’immagine: Claude Monet, La pie (1869)

Per esempio la nebbia

Dove.
Potrebbe essere Praga, oppure Dublino. Forse meglio la mitteleuropa, dove molte più storie sono possibili. L’importante è che suggerisca qualcosa di indefinito, di appena un po’ flou, affinché il languore di immaginare i contorni faccia il resto del lavoro. E io immagino una città vecchiotta e un po’ statica, di quelle che faticano a cambiare, a sgranchirsi dalla loro Storia – o non hanno nessuna propensione a farlo. Un dove che sia a suo agio con la nebbia o le serate piovose tra lampioni stanchi, piazze in cui ci si può perdere, viuzze lastricate, vetrine di artigiani che lavorano fino a tardi alla luce gialla di lampadine impolverate, fermate d’autobus con donne cariche di involti, mendicanti agli angoli di palazzi dove un tempo ambasciatori e aristocratici davano le loro cene di gala, i loro balli in maschera. Mettiamoci incerti riflessi danzanti sull’acqua di un fiume, e chiamiamo questo fiume Moldava.

Quando.
In tempo di guerra, però in un momento in cui la guerra stagna un po’, bloccata sui tanti fronti dai pantani dell’inverno, e nelle città si sta a spalle incassate, vivendo un limbo irreale. Oppure – anzi meglio – nell’ultimo periodo di un anteguerra in cui si sta in attesa di una catastrofe che cambierà la vita per sempre, e mai come in quei momenti la stessa vita sembra più precaria e più assurda, tutta da vivere con spavalda disperazione. Un novembre avanzato, perché ottobre sarebbe troppo colorato dalle foglie dei grandi alberi dei parchi, e dicembre troppo inquinato dalla finta allegria di un Natale di guerra. Novembre va bene perché è più ravvolto su se stesso e i suoi grigiori; più interminabile e più avaro.

Chi.
Un uomo. Una donna. Prima l’uomo, però, perché deve essere lui il personaggio centrale. Lo è perché sa portare bene la nebbia, come fosse l’unica cornice possibile al suo andare a lunghi passi nel cappotto liso, dietro occhiali cerchiati in oro (montatura vecchia, datata tempi migliori), una borsa da medico appesa alla mano, l’altra in tasca, la testa bassa, dentro i pensieri e la scarsa voglia di salutare chi incontra. Facciamo di lui un eroe in ombra, facciamone non un ebreo – che sarebbe approfittare della retorica – ma un medico caduto in disgrazia per motivi politici e costretto a vivere di poco esercitando in un desolato ospedale per poveri (è già abbastanza retorico così). E chiamiamolo Stefàn, un nome che si addice alla sua indole gentile, alla sua malinconica tenacia, alla sua dignitosa infelicità.
Lei è una ragazza. La sua funzione è quella di amare Stefàn, perché un uomo così non può non essere amato da una donna altrettanto gentile e schiva, tenace e infelice. Non ha un nome, non mi viene; mi immedesimerei troppo, e l’ho già fatto assegnandole un lavoro oscuro da bibliotecaria. Abituata a toni di voce sommessi, ad atmosfere mistiche, alle strettezze, al cappotto pesante che punge senza scaldare. Per questi motivi è evidente che avrei potuto farne anche una violinista o una violoncellista, sarebbe stato altrettanto plausibile, e forse ancora più romantico.
Che si incontrino una sera di nebbia, di quelle che non si vede a un passo. Che si innamorino (ma perdutamente, è essenziale) sul portone di quella biblioteca all’ora di chiusura. Che si rifugino in due stanzette spoglie, con il rubinetto che gocciola e la portinaia malevola che li spia. Che resistano ai controlli di polizia, agli arresti preventivi, al confino, alle umiliazioni. Che riescano a ritrovarsi ogni volta che è possibile per ascoltare abbracciati qualcosa di Chopin o di Edith Piaf alla radio, molto sottovoce, scambiandosi sogni impossibili come quello di vivere sotto il sole di un’isoletta del Mediterraneo, coltivando olivi, allevando capre.

Basta, ho detto fin troppo. Adesso abbiamo una città, Praga, una data, novembre 1939, una coppia di rinnegati, nebbia quanto basta per nascondere il non detto ma non tanto che non si possa, volendo, portarlo alla luce. Come andrà a finire, non lo so. Io mi fermo qui, metto in tavola. Voi, servitevi pure.