Serenissima

1755, un pomeriggio di autunno inoltrato, nel palazzetto Sandonà sito in fondamenta della Misericordia, sestiere di Cannaregio.
I musici arrivano per tempo e si danno subito da fare per verificare se la sala da musica sia stata predisposta in modo confacente; fanno spostare sedie e tavolini, misurano a occhio, fanno e disfanno con grande gravità finché non sono ragionevolmente soddisfatti. Poi chiedono di essere lasciati tranquilli qualche minuto per accordare gli strumenti e gli spiriti prima dell’arrivo degli invitati, e da dietro la porta iniziano a formarsi suoni di prova, per ora slegati, interrotti, bislacchi, come stonature di goffi principianti. Io, servetta dodicenne venuta dalle campagne, me ne sto nei paraggi senza farmi vedere ma attratta da enorme curiosità, e mi chiedo come questa accozzaglia potrà, fra poco, trasformarsi in qualcosa di compiuto, ordinato e così paradisiaco come il mio padrone si aspetta.
Frattanto sopraggiungono gli ospiti. Ecco fare ingresso la figlia maggiore maritata, con quel suo goffo marito infelice al guinzaglio, ecco i suoceri intimiditi e ansiosi di far buona figura. Ecco poi alcuni notabili con le mogli, nonché il medico e il farmacista, tutti più mondani e a loro agio; ecco la marchesa Dolfin, donna affascinante malgrado l’età, la cui purissima nobiltà è finita sul lastrico. A ognuno ritiro pastrani, cappelli, bastoni da passeggio; le signore si liberano di mantelle e manicotti, esibendo gli abiti buoni con scollature peraltro modeste data la natura severa dell’intrattenimento.
E finalmente i maestri concertisti annunciano di essere pronti. Per generosità del padrone, i due battenti della porta vengono lasciati spalancati, e i servi sono ammessi sulla soglia, la cuoca, le fantesche, perfino il vecchio gondoliere, un omone grande e grosso, ruvidissimo e di così poche parole da passare per muto. Si affollano discretissimi e rispettosi, gli occhi lustri.
Io, la più piccola e l’ultima arrivata, la sguattera di cucina, mi accuccio da sola sul primo gradino della scala, gelido e duro, in attesa di capire quale rito a me sconosciuto si stia per celebrare. Inchini, riverenze, sommessi complimenti, poi gli ultimi scalpiccii, gli ultimi cigolii delle sedie, gli ultimi fruscii degli abiti ben accomodati, e si fa silenzio.
E da questo silenzio germoglia, sboccia, si apre, si alza e vola sotto gli alti soffitti verdeazzurri una voce unica, un arpeggio di corde di leggiadria estrema, e si articola disunendosi e poi riunendosi come un filo di seta, o d’oro fino; si snoda, si sgomitola, si divincola lieve sopra le parrucche e i bassi pensieri, se ne va su a galleggiare per l’aria intrecciando note a cascata, una dopo l’altra e una dentro e sopra l’altra, in una armonia mirabile, e quest’armonia pare nascere ininterrottamente da se stessa e sostenersi da sola, spandersi sopra le nostre teste, occupare poco per volta tutto lo spazio alla ricerca di un altro spazio più vasto dove distendersi, di un cielo libero, magari dalle parti dove sta il Paradiso degli angeli, unico posto degno di questa infinita bellezza, troppo perfetta per appartenere al mondo dei mortali. Ė dapprima un liuto gentile, ma a momenti imperioso, poi trascinante, poi cadenzato come una danza sui prati; ma presto si inserisce un altro timbro, quello di un oboe, cui il primo strumento sembra aver voluto solo aprire la strada, e da esso si sprigiona intensa e pungente una nuova melodia, malinconica come una pioggia autunnale, poi mistica come una preghiera, e prende il posto del brio trasformandosi in dolce e accorato tormento, come se raccontasse un dolore fine, e lo accarezzasse con infinita grazia. Un incanto mi assale la mente e tutte le membra, illanguidendo, erodendo, scavando sotto la scorza dei sentimenti nascosti, frugando l’intimità più vulnerabile, trafiggendo i sensi e il cuore col più tenero e crudele stiletto. Nessuna voce sa essere più struggente di quella di un oboe quando è triste, e in questa improvvisa rivelazione avverto la mia piccola anima spezzarsi in un dolce mare di lacrime.

Devo essere svenuta.
Mi sveglio sul mio lettuccio in soffitta. Accanto a me il padrone, il dottore, la cuoca, mi sventolano con un ventaglio, mi toccano la fronte, la trovano rovente.
“Cos’è stato? – chiedo in un sussurro.
Qualcuno, misericordioso, mi dà la spiegazione:
“Musica. Si chiama musica. Ora dormi tranquilla, va tutto bene”.

*  *  *

Contributo all’eds della donna Camèl, insieme a:
Incanto, di Dario
Io, l’amministratore e la signora grassa, di Hombre
Il viaggio, di Pendolante
Quel certo non so che, di Lillina
Io non c’entro, della Donna Camèl
Mercoledì, di *cla
Tutto quello che avreste voluto sapere sul seNso ma non avete mai osato chiedere, di Hombre
Cinque, di effe 

nell’immagine, Concertino, di Pietro Longhi, 1741

C’era quella cosa

C’era quella cosa importante da fare.
Cominciò a rigirarsela nella testa ancora sotto il buio del cuscino, poi ne riconobbe il sapore nel dentifricio e il bruciore negli occhi insaponati.
Gli ronzava in un orecchio come un insetto, si divincolava nel fumo del primo caffè.
Per la strada si aggrovigliava al mazzo delle chiavi in tasca, un attimo dopo incespicava in una cartaccia in volo radente sul marciapiedi nell’aria di marzo.
Se la ritrovava davanti su fogli di vecchi quaderni, impigliata come uno sbavo di inchiostro sulla punta della penna. La inseguiva negli occhi di chi gli parlava, nascosta dietro senza farsi trovare. Gli interrompeva le parole faticose con cui rispondeva, obbligandosi a non distrarsi.
C’era una cosa.
Alla cassa del bar tintinnava metallica con i centesimi del resto, poi si accartocciava nello scontrino.
Per tutto il pomeriggio gli percorse vie senza uscita dentro la mente, scontrandosi con ovvietà più sopportabili e sgusciandone via verso altri labirinti a fondo cieco.
Appesa di storto sulle spalle del cappotto camminò con lui nelle strade grigio-azzurre dell’imbrunire. Girava lo sguardo a spiarsela addosso riflessa nelle vetrine, ma era solo per ritrovarsela tra i piedi quando si bloccavano nervosi a un semaforo.
Per un attimo soltanto gli parve di leggere qualcosa, un indizio, su un muro d’angolo, tratteggi incerti come graffiti di pietra su pietra. Ma un istante dopo era già più buio e le luci delle auto la risucchiarono via.
Davanti a un portone socchiuso – e, dentro, una scala – fu tentato di pedinarla, ma non era certo fosse proprio lei. Si fermò comunque lì davanti ancora un po’ per girarsi attorno a rievocarla, scrutandosi il fondo delle tasche e interrogando in viso i passanti di profilo.
Aspettò fuori da un ristorante, poi da un cinema, poi da un parcheggio, poi sotto un cartello con molte direzioni, più di quelle cardinali, molte di più.
Aspettò nel buio del cielo nero di città, fino a perdersi come un’ombra senza più nome né storia, solo lui e il suo senso di perdita – malattia se non addirittura lutto – perché c’era quella cosa importante da fare, e da tanti, troppi anni non riusciva a rammentarla.

*  *  *

Contributo all’eds della donna Camèl, insieme a:
Incanto, di Dario
Io, l’amministratore e la signora grassa, di Hombre
Il viaggio, di Pendolante
Quel certo non so che, di Lillina
Io non c’entro, della Donna Camèl
Mercoledì, di *cla
Tutto quello che avreste voluto sapere sul seNso ma non avete mai osato chiedere, di Hombre
Cinque, di effe 

Povero Edipo

Era lei, e non era lei.
A prima vista, era lei senza dubbio. Sua l’acconciatura severa, la fierezza del collo e delle spalle, la regalità delle mani intrecciate in grembo; e suo il pallido zinco degli occhi.
Ermanno Sigismondi, sessantenne azzimato e celibe, per l’occasione nel suo completo primaverile grigio con la fascia nera da lutto ancora al braccio, studiava il ritratto di sua madre provando un sottile smarrimento. Certo, il pittore, prendendo a modello una fotografia di qualche anno addietro, l’aveva gratificata di un incarnato più luminoso di quanto non fosse stato nella realtà dei lunghi mesi di malattia, e le aveva discretamente lisciato qualche profonda ruga e riempito gli zigomi fattisi ossuti. Concessioni pietose,  necessarie e comunque concertate di comune accordo fin dall’inizio.
Ma non stava in questi artifizi cosmetici il motivo dello straniamento del figlio di fronte all’immagine della madre. C’era dell’altro, qualcosa di non immediatamente identificabile, qualcosa di molesto e imbarazzante, qualcosa che lo respingeva.
– Che ne dite, è somigliante?
Il Maestro sembrava aver posto la domanda solo per colmare il silenzio assorto che si era formato tra loro; in verità era più che convinto della bontà del suo lavoro, e placidamente seduto su una vecchia poltrona accarezzava un gatto rosso.
Ermanno si girò a guardarli. Ecco, gli venne da pensare: quei due lì, gatto e padrone, quei due sì che si somigliano. Non è strano? Eppure, lo stesso sguardo sornione, lo stesso mezzo sorriso… anche il gatto sembra sorridere. Poco poco, un sorrisetto canzonatorio, che si forma nel segreto della mente, non in quello del cuore.
Tornò a guardare il ritratto, infastidito, a disagio, sentendo salire una specie di umiliazione. Era venuto per visionare un’opera da lui stesso commissionata, ma ora gli pareva di essere lui sotto processo, e a giudicarlo erano un ritratto enigmatico, un pittore presuntuoso e un gatto strafottente.
– Mia madre era una gran donna – esordì, millantando sicurezza – Vedova a neanche trent’anni. Mi ha cresciuto da sola come meglio non avrei potuto desiderare. Ha preso in mano gli affari di papà e ha costruito un impero. Manifattura di tessuti pregiati, esportiamo in tutto il mondo. Fabbriche, uffici, negozi. Disegnatori e operai, impiegati e commessi, un esercito di dipendenti cui ha dato lavoro. Onorificenze, medaglie. Un’icona nel mondo dell’imprenditoria. Al suo posto di comando fino all’ultimo. Instancabile, inarrestabile…
– … implacabile.
– Come?
– Volevo dire, una donna di carattere, si corresse blandamente il pittore. Il gatto si leccò delicatamente il labbro superiore, senza apparente motivo.
– E una madre attenta, generosa. Non mi è mancato nulla. Ottimi collegi, viaggi all’estero, l’equitazione, il tennis, gli ambienti altolocati. Mi ha insegnato come diventare degno di succederle, ma so bene che non potrò mai confrontarmi con lei. Nessuno lo potrebbe. Mia madre era una donna speciale. Era l’unica donna. L’unica. Perché credete che non mi sia mai sposato?
– Lo so. Me ne avete già parlato il giorno del nostro primo incontro, ribatté il pittore – Ed è proprio su queste notizie, oltre che sulla fotografia, che mi sono basato per realizzare il ritratto. Ora però mi sembra di capire che non lo trovate somigliante, o sbaglio?
– Non saprei. Le somiglia, e non le somiglia. Ė lei, e non è lei.
– Io credo di avere colto tutto. Ma voi forse intendete dire che le manca qualcosa? – il pittore sembrava volergli pazientemente venire incontro, eppure la sua condiscendenza suonava un po’ come quella che si usa rivolgendosi agli sciocchi.
Le manca qualcosa. Le manca qualcosa. Ermanno lo intuiva, ma non riusciva a identificarlo. Scrutava le grinze della tela, ancora umide di colore, e ammetteva con se stesso come non vi fosse nulla da eccepire circa la grana della pelle, la precisione geometrica dell’attaccatura dei capelli, la simmetria dei lineamenti, ma era altrove il senso del suo disagio.
– Il sorriso – mormorò ad un tratto, come folgorato – Il sorriso.
– Quale sorriso? – il pittore si scosse e lasciò gatto e poltrona, portandosi accanto al cavalletto con sguardo sospettoso.
– Mia madre. Non sorride, vedete? Lo dicevo io che mancava qualcosa: il sorriso, manca. Il sorriso.
Il pittore scosse gentilmente il capo.
– Ė vero, manca. Ma voi non mi avete mai parlato di sorrisi. Vostra madre sorrideva? Rideva? Le veniva mai voglia di cantare? Non me ne avete parlato.
– Nella fotografia il sorriso c’è! – protestò Ermanno, trionfante – Siete stato voi a non raffigurarlo. Ora pretendo che rimediate a questo errore intollerabile, davvero intollerabile.
La testa del pittore faceva no no, ma gentilmente, quasi con compassione.
– Mi avevate chiesto di ispirarmi alla fotografia, non di copiarla tale e quale. Per quello sarebbe bastato duplicare il negativo. Ma voi vi siete rivolto a un artista, e lasciate che questo artista vi dica che quello non è un sorriso. Il sorriso viene da dentro, non è solo un movimento volontario dei muscoli della bocca. Ė altro, il sorriso. Credetemi, mi spiace molto dovervelo far notare.
– E a me non spiace affatto dovervi dire che vi ritengo incapace di ritrarre un sorriso. Santo Cielo, la cosa più facile del mondo!
– Lo dite voi, replicò dolcemente il pittore. Era anziano e aveva troppa esperienza per mettersi a discutere con un figlio illuso e frustrato.
– Datemi un pennello, uno piccolo, e vi faccio vedere io – ordinò spericolatamente Ermanno, mentre ormai la disperazione gli dava alla testa e lo spingeva a sragionare.
Ma per quanto tenesse ferma la mano e cercasse di modellare con la massima meticolosità gli angoli di quella bocca, essi continuavano a restare rigidi, a resistere al richiamo della tenerezza, e quelle labbra che avevano dispensato ordini imperiosi e rimbrotti taglienti, che avevano generato timore e sudditanza, che avevano trasmesso a tutti la determinazione e l’orgoglio di una donna dispotica, invece di incurvarsi nell’abbandono di un gesto d’amore si indurivano sempre più in una smorfia maligna, nel ghigno cinico di una megera ricca e crudele. E, soprattutto, su quel volto devastato dalle pennellate maldestre continuava a dominare lo sguardo glaciale di quei due occhi color zinco, fissi nella volontà di non partecipare minimamente allo sforzo di un sorriso fosse pure di convenienza. Il dipinto non poteva fare altro che denunciare al mondo intero l’assenza di un’anima.
Ermanno gettò il pennello, affranto. Il quadro era rovinato: la madre non riusciva proprio a sorridere, non lo aveva mai fatto in vita e non si sarebbe certo arresa a farlo adesso, in morte, a opera di un pennello. D’ora in poi lo avrebbe sempre guardato dalla cornice sopra il caminetto con quell’espressione di spietatezza a malapena camuffata.
– Quella santa donna si rivolterà nella tomba… ,  mormorò andandosene sconsolato.

 Ermenegilda Sigismondi si rigirò effettivamente nella tomba, la tomba di famiglia vegliata da angeli di marmo e fregi di bronzo massiccio, ma solo per cercare una posizione più comoda. Lei sola sapeva la verità. Tutti gli altri, al diavolo. Ah ah ah!

* * *

Questo pezzo, scritto per l’EDS Non cosa ho veduto, ma come l’ho veduto proposto dalla tellurica Donna Camèl, si unisce a:
Cuncittina, di Dario
Dove una madre, di Hombre
Trasposizione di un amore, di Lillina
Foto di classe, di Pendolante
Il fazzoletto bianco, di Pendolante
L’amore informale di due anime in guerra con se stesse, di Lillina
Essere nutria oggi, di La Donna Camèl
Il fotografo, di Effe 

(nell’immagine: Jacqueline with flowers, di Pablo Picasso)

Per un piatto di risi e bisi

Il doge Pierpaolo Strigheta stava sulle spine. Era il giorno di San Marco, il 25 aprile, la festa più importante dell’anno, ma il suo momento di gloria rischiava di essere offuscato da almeno tre pungenti preoccupazioni.
Anzitutto, le scarpe.
Fin dal mattino, scendendo la Scala dei Giganti, si era accorto che erano troppo strette, e infatti i piedi cominciarono a fargli male ai primi passi della lenta processione verso la Basilica che a lui spettava di guidare tra ali di folla e attorniato da notabili, canonici e confraternite.
Poi il caldo scoppiato all’improvviso, con quel sole che dardeggiava e lo faceva penare sotto il peso del broccato d’oro e soprattutto di quel maledetto corno ducale che gli faceva sudare e prudere la testa.
Terzo e non ultimo cruccio, era il pensiero del pranzo: per l’occasione aveva invitato mezzo mondo, da Venezia e da fuori, ambasciatori, ammiragli, porporati, governatori dei possedimenti d’oriente, rappresentanti di tutte le aristocrazie. E per fare migliore figura aveva fatto arrivare un cuoco francese di gran fama, ma non c’era stato il tempo di metterlo alla prova, e ora non gli restava che sperare di non essere stato troppo imprudente.
La cerimonia durò un’infinità. I piedi, la testa e lo stomaco del doge mandavano segnali di impazienza, ma bisognava rispettare i tempi ieratici del Patriarca, che non la finiva più di salmodiare e di benedire la folla di polpe e falpalà devotamente raccolti sotto le cupole della Basilica.
Finalmente arrivò il momento di sciogliere le righe e tornare al palazzo, al salone dove era imbandita una tavola opulenta sotto la quale il doge Strigheta non si fece scrupoli a togliersi le scarpe (un valletto, sgusciando non visto fra le gambe dei convitati, gliele sostituì con più comode babbucce di panno purpureo).
Alle spalle del seggiolone dorato del doge, prese posto l’Assaggiatore, che in quei tempi di veleni e coltelli era un accessorio indispensabile alla corte dei potenti, e benché Strigheta non avesse molto da temere gli piaceva esibirlo come un ornamento in più della sua serenissima maestà.
Si trattava di un certo Zanetto, un ragazzotto di umili origini ma volonteroso e di buon contegno, che aveva accettato quell’ingrato compito perché era un gran ottimista; e in effetti finora gli era andata bene.
Cominciò la sfilata dei vassoi, e la vista degli arrosti infiocchettati, delle zuppiere fumanti, dei crostacei lucenti e delle polentine tremebonde suscitò negli illustri commensali una estasiata ammirazione e accese gli occhietti del Doge di malizioso orgoglio.
Ma prima c’era da assolvere la prova dell’assaggio, un rito serissimo che tutti avrebbero seguito con grande compunzione pronti a perderla subito dopo passando ai fatti.
“Alora, Zanetto – esordì il Doge, calandosi tutto tronfio nella parte – cossa ti me disi de sto fasàn in umido?”
Zanetto infilzò sulla sua forchettina professionale un bocconcino di fagiano, lo studiò coscienziosamente tra lingua e palato, lo triturò delicatamente con i soli denti anteriori e dopo diversi istanti lo inghiottì. Ma la sua faccia aveva assunto un’espressione perplessa.
“Cossa te par, ghe xé el velén? – chiese ansiosamente il Doge.
“Veleno no, Ecelensa, però…”
“Però?”
“Però con tutto il rispetto non è fagiano. Ė gallina”.
Il Doge impallidì. Anche parecchi convitati impallidirono. Gallina al pranzo di San Marco? Ma che scherzi erano quelli?
“No ghe credo. Gò ordinà fasàn, e gà da essere fasàn. Ti xé ti che no ti capissi gnente – reagì rudemente il Doge. E aggiunse:
“E magari ti me dirà che sto figà a la venexiana no xé figà? – insinuò sarcastico.
“Ė fegato senza dubbio, Ecelensa, però…”
“Però? Sentìmo, sentìmo – sbottò Strigheta, sull’orlo della disperazione.
“Però è di bue. Il fegato alla veneziana deve essere di vitello, non di bue, Ecelensa”.
Strigheta decise di incassare, e con l’ultimo brandello di dignità giocò il tutto per tutto: i risi e bisi, il piatto tradizionale veneziano, immancabile alla mensa dei dogi il giorno del santo patrono e venerato al pari di esso. Il vero banco di prova della venezianità, il suo biglietto da visita nel mondo. La zuppiera fumava e il suo contenuto ancora dava gli ultimi scoppiettii di dolce bollore al candore del riso e al verde prato dei piselli, infiorati di delicate foglioline di prezzemolo occhieggianti in mezzo alla burrosa mantecatura.
“Te sfido a trovarghe dei difeti. Avanti, tasta sta bontà – invitò il Doge, e si adagiò contro lo schienale assaporando la vittoria.
“Ecelensa ilustrissima, col vostro permesso non ho bisogno di assaggiarla per poter dichiarare con la massima onestà che questa roba è una porcheria, e vi spiego perché. I piselli sono del tipo a buccia dura, il riso è troppo cotto e la consistenza è troppo densa. Se volete mangiarla, male non vi farà, ma resta una porcheria”.
Il verdetto era inappellabile. Un margravio e un paio di dame svennero. La Dogaressa nascose  lacrime desolate in un fazzoletto, uno dei maggiordomi si strappò le vesti e l’arcivescovo di Costantinopoli esorcizzò la tavola con un crocefisso tempestato di rubini.
Il Doge era impietrito. La disfatta, completa. Da domani il mondo avrebbe saputo qual era il trattamento che la Serenissima Repubblica riservava ai suoi ospiti e alleati più prestigiosi, e quanto miserevole fosse l’inettitudine del suo più alto rappresentante.
“Ti me gà fato far ‘na figurassa, ma ti me la paghi. Via, in presón, e doman te fasso tagiar la testa – ordinò.
Così Zanetto, per amor di verità, finì ai Piombi, e il pranzo venne annullato con grande scorno e malcontento di tutti. Prima di sera tutti gli ospiti ripartirono in fretta e furia per i loro paesi lontani, senza nemmeno lasciare la mancia ai gondolieri e ai facchini. La Dogaressa si chiuse in camera a singhiozzare, mentre il Doge cercò sfogo alla collera e alla vergogna prendendo a calci e sberloni tutti quelli che gli capitavano a tiro.
Zanetto, nella cella angusta e senza finestre, era tuttavia sereno. Aveva quel fatalismo tipico degli ottimisti e delle anime semplici, e poi sapeva di essere nel giusto. Da devoto suddito della Repubblica, mai avrebbe ingannato il Doge, nemmeno per farlo contento. Se la morte per decapitazione era il prezzo da pagare, pazienza: sarebbe morto onesto. Ma comunque non si poteva mai dire, forse un’ultima speranza c’era ancora.
Quando si dice i casi della vita… Quell’ultima speranza si concretò verso sera: venne il capo carceriere e gli chiese se avesse preferenze per l’ultima cena, dato che sarebbe stato giustiziato all’alba. E fu qui che Zanetto ebbe l’illuminazione.
“Vorrei tanto – disse – un piatto di risi e bisi cucinato da mia mamma”.
“Tuto qua? Ti te contenti de poco – lo derise la guardia, e mandò a chiamare la madre di Zanetto, certa Carlina Fornasier che faceva la lavandaia nel sestiere di Castello. Nell’apprendere che suo figlio era rinchiuso ai Piombi in attesa della pena capitale, la forte Carlina non si perse d’animo e si mise subito al lavoro per esaudire quell’ultimo desiderio e chissà, forse, fare in modo che non restasse l’ultimo davvero.
Intanto Zanetto aspettava, fiducioso; e faceva bene, ma il tempo passava e non arrivava nessuno a portargli la cena.
Erano ormai le nove e s’era fatto buio completo quando sentì scorrere i catenacci e il custode beffardo di prima, ancora più beffardo, gli annunciò:
“Fora, ti xé libero. Fiol d’un can, la te xé andada ben…”
“Libero?”
“Come l’aria”.
“E i miei risi e bisi?”
“Li gà magnai el paron. Povero Strigheta, el gera drio andar in leto co na scuela de pan e late quando xé rivada to mama co quel pignaton de risi e bisi, quell’odorin che girava per tuto el palasso e svegiava anca i morti… Ti dovevi véderlo come che el se gà butà sul piato: tre, el ghe n’ha magnà. E dopo el gà ciapà el cogo par la giacheta e el lo gà licensià sensa tanti complimenti”.
“E mia mamma?”
“La xé de sora in cusina drio contarsela co la parona, Va’ va’, destrìghite, che le te speta”.
In cucina la Carlina e la Dogaressa, completamente rasserenata, chiacchieravano placide come vecchie amiche. Quando entrò Zanetto, sua madre stava dicendo:
“Tolte nota, Clelia. Per far i risi e bisi come che Dio comanda, ghe vol i bisi de primissia, quei picinini e dolsi, e ghe va anca na puntina de sùcaro. Ti fa un desfritìn co ogio, butiro, segola, ti ghe buti i bisi e ti fa andar finché li se infiapisse ma sensa desfarse. El sal ti ghe lo meti a la fine, senò i vien duri. El brodo gà da esser otimo, de polastro o de manzo. A tre quarti de cotura ti zonti el riso e ti fa cusinar finché non vien tuto belo cremoso, ma ocio che no gà da esser né tropo fisso come un risoto né tropo sbrodoso come na minestra. La giusta via de mezo. La xé questa, la vera arte dei risi e bisi”.

A mezzanotte erano ancora tutti e tre in cucina; Carlina insegnava a donna Clelia i segreti dello zabaione e delle sarde in saor, e Zanetto si era addormentato su una panca con la pancia piena e rosei progetti per il suo futuro di capo cuoco a Palazzo Ducale.

*   *   *

Questo piatto rientra nel menu dell’eds Ipogeusia lanciato dalla gastronoma Donna Camèl
Gli altri commensali sono:
Dario con Sarde a baccaficu
–  Hombre con Caffè alla Norma
Cielo con Lettera alla donna che ami sulla felicità e il ragù
Singlemama con La prima volta che ho mangiato i piselli davvero
Lillina con Lu vinu
La Donna Camèl con Mia nonna era google
Dario con Bastardi affucati
Pendolante con Antichi sapori
Effe con Raneclode 

(nell’immagine, Processione di san Marco, di Gentile Bellini)

La conquista del Nuovo Mondo

“Dietro un grande ammiraglio c’è sempre un grande mozzo”.
Comincia così la storia della mia vita, che vado raccontando ormai da tanti anni nelle bettole dei porti, per un uditorio per lo più ostile di marinai irascibili e ottenebrati dal pessimo vino. E ogni volta che intono il mio incipit, c’è chi si stizzisce, chi tira un pugno sul tavolaccio, soprattutto chi mi sbeffeggia, e con voci sguaiate tutti mi mandano all’inferno. Alcuni l’hanno già sentita, la mia storia; altri si lasciano subito contagiare dai compagni e si associano alle imprecazioni e alle battute derisorie senza nemmeno farsi un’idea propria.
“Lasciatemi raccontare, caproni! Giudicherete dopo! – ma la mia voce è sommersa dai fischi e dalle battute degli ubriachi, che l’oste cerca debolmente di placare nel timore – fondato – che tutto vada a finire in una rissa.
Eppure è una storia incantevole, e qualcuno è abbastanza onesto da starmi a sentire, pur nel coro di risate e fra gli scoppi di bestemmie.  Una storia incantevole e me ne sono servito in più di qualche porto per incantare più di qualche donna; perché si sa che le donne sono ascoltatrici sensibili e di fervida immaginazione.

“Ero un ragazzetto imberbe, e quello era il mio primo imbarco a lungo termine. Si andava verso le Indie attraverso il mare più vasto e sconosciuto che uomo avesse mai tentato, e io di giorno mi arrampicavo sugli alberi e sulle sartie come una scimmia, e pulivo le sentine e prendevo ordini – i più umili – da tutti, ma me le sognavo di notte, queste Indie traboccanti di tesori, dove l’oro scorre a fiumi e le montagne sono di diamanti e rubini. Ormai mi ero abituato a sentire sotto i piedi il continuo ondeggiare del fasciame e tra le mani l’asprezza dei canapi, e quasi non ricordavo più la sensazione di stabilità della terra ferma.
Quella mattina c’ero io in coffa, lassù in cima dove si tocca il vento che spinge le vele e si scruta l’immensità tutta uguale dei flutti, e fui io a intuire il cambiamento dell’orizzonte: dove prima era solo cielo, ora si andava intessendo una lieve bruma che in pochi minuti assunse l’incerto profilo di un’isola possibile. Se fossi stato distratto forse mi sarebbe sfuggita, e le nostre prue avrebbero continuato a puntare verso il mare aperto, mancando quell’appuntamento con la Storia, perché l’Ammiraglio era sotto scacco e gli rimanevano pochi giorni, o forse ore, per schivare un ammutinamento. Ma ora il mio avvistamento aveva salvato la sua spedizione, e forse la sua stessa vita”.
“Buuuuh! Buuuuh!”
“Ecco, lo sapevo: non mi credete, pensate che esageri. Mascalzoni, marinai falliti, feccia del porto! Ma ci sono abituato, e ho capito da tempo che è solo invidia. Perciò continuerò a raccontare, perché lo so che malgrado tutto mi state ad ascoltare, e volete che arrivi fino in fondo.
A bordo tutti giubilavano; furono fatti girare barilotti di vino e gli uomini si abbracciavano e si davano grandi pacche sulla schiena. L’Ammiraglio ordinò una scialuppa e si preparò alla murata nei suoi abiti più sontuosi, con le insegne reali e un crocefisso tutto d’oro. Gli ufficiali non furono da meno. Io fui il primo a calarmi nell’imbarcazione, portando via il posto al compagno designato ma già troppo ubriaco. Remammo verso quel miraggio, quella costa bassa e soleggiata emersa per miracolo dal mare oceano, e più ci avvicinavamo e meglio distinguevo i contorni, più forti si facevano le mie braccia e più ansioso il mio cuore.
A pochi metri dalla riva un impulso irresistibile mi fece abbandonare il remo: le mie gambe decisero da sole, e mi gettai fuori bordo, impattando dolcemente con i piedi sul fondale basso e trasparente e suscitando una fuga di pesci minuscoli e lucenti come scintille. La sabbia franava maternamente sotto i miei saltelli goffi, ed era la prima volta dopo settimane che ne riscoprivo la consistenza. In pochi passi e tra spruzzi radiosi raggiunsi la spiaggia e stampai sulla sabbia la prima impronta di un uomo del vecchio mondo su quella terra vergine.
In quel momento, e per pochi istanti, essa fu mia, prima che l’ammiraglio la consacrasse solennemente a Dio e a Sua Maestà il Re di Spagna. Ma per sempre io le appartenni.
Che importa se la risacca cancellò le mie orme subito dopo? Se dalla barca mi giungevano grida astiose per aver sopravanzato l’Ammiraglio? Mentre mi affannavo a tirare in secco la prua perché egli potesse scendere senza bagnarsi gli stivali, pesticciavo con i miei piedi scalzi quella sabbia nuovissima: era calda, cedevole e morbida come… come la pelle di una donna, sì, come la pelle di una donna. Ma questo lo avrei scoperto solo in seguito, con Ines, o forse era Violeta, non sono più certo del nome. Ci amammo per un’oretta soltanto, capite, e dopo di lei ce ne sono state talmente tante che…”
“Ma sentitelo! Buffone!”
“Tante, sì, tante. Perché, voi no? Cialtroni, gentaglia, ah, lo so che fate i duri, gli increduli, ma ciascuno di voi lo ha ancora, in fondo alle budella, il ricordo della sua prima donna. Non era forse la sensazione più sconvolgente, più inebriante del mondo, poter toccare quella pelle per altri nascosta sotto le vesti, e scoperta e offerta a voi soli per la prima volta? Tiepida e liscia come un sasso levigato dall’acqua, ma viva e dolce come il latte e il pane, e con quell’odore di miele impossibile da dimenticare… così era la sabbia del nuovo mondo, pulita, luminosa e arrendevole, e i miei piedi ci fecero l’amore, sì, ci fecero l’amore, avete capito? No, non potete capire. Non ci siete mai stati, laggiù.
Quella notte ebbi la febbre. Succede, quando ci si innamora per la prima volta.
Oro e diamanti e rubini, poi, non ne ho visti né toccati. Ma era come se quella sabbia fosse fatta di oro e diamanti e rubini, e anche miele e pelle di donna, tutti mescolati insieme, triturati e polverizzati insieme, una coltre preziosissima e incontaminata.

Ecco, adesso state tutti zitti, eh? Non pensate più che siano frottole da marinaio? Adesso un po’ mi credete? E magari qualcuno di voi ha anche gli occhi un po’ lucidi, vero? Forza allora, un giro per tutti, lo offro io. Ma scusate se non resterò a bere con voi: sono molto vecchio e ho un peso sul cuore, mi succede così ogni volta che racconto la mia storia nelle bettole dei porti e… ah, la mia Ines! La mia Violeta!”

Questo raccontucolo chiede il permesso di salire a bordo dell’eds Toccami della Donna Camèl insieme a:
L’incontro di Dario
Laß Dir raten, trinke Spaten di Hombre
Argento vivo di Lillina
 
Eds-Pornodirivinewelsh di Cielo
Cantando nella luce di MaiMaturo
Outing di Pendolante 

Terre lontane

È l’ora che precede i Vespri mariani, e nella mia cella sale dal chiostro il profumo commovente delle rose e dei gigli mentre io, carico di anni e di malinconica saggezza, vado ripensando ai tempi lontani in cui ero ragazzino e i colli che dolcemente cintavano il mio orizzonte non erano questi della verde Toscana ma quelli del mio paese natio, il Poitou.
Quella sera indimenticabile, avrò avuto una dozzina d’anni e mai avrei pensato che la mia vita sarebbe presto mutata così profondamente. Fino ad allora, conoscevo solo i confini della masseria, i lavori dei campi, i ritmi degli animali da cortile, gli affetti della mia famiglia di contadini, le leggi della Chiesa e del Re.
Ma accadde un fatto, un incontro, che mi aprì un’altra strada, e la più imprevedibile.
Si era alle porte dell’inverno, e mai come in quei giorni era dolce tornare all’imbrunire alla nostra casupola, riconoscendone da lontano il fil di fumo e pregustando il calore del fuoco e l’odore della zuppa. Terminata la giornata di lavoro, ci accingevamo a sedere tutti intorno al tavolo per la cena; mio padre recitò la preghiera di ringraziamento e subito dopo mia madre cominciò a riempire con abbondanza le nostre ciotole con mestoli di minestra densa e fumante.
In quel momento, udimmo bussare alla porta.
Sulla soglia si presentò uno sconosciuto vestito di stracci, sudicio oltre ogni dire, in atteggiamento umile. Dai suoi capelli come corde intrecciate di pece, dalla barba aggrovigliata e intrisa di ogni porcheria, dalla pelle annerita e in più punti scorticata e disseminata di lacerazioni in parte ancora gementi, emanava il lezzo più nauseabondo che avessimo mai sentito, un miscuglio di fetori dolciastri, pungenti e indecifrabili che invase a ondate la nostra cucina. I miei fratelli e sorelle, in preda a orribili smorfie, sgusciarono sotto il tavolo e si ripararono accanto alle gonne di nostra madre che, gravida per l’ottava volta, era impallidita e si era portata un lembo del grembiule a coprire la bocca. Io, il maggiore, resistetti e anzi mi avvicinai a mio padre per dargli sostegno nella insolita situazione.
Lo sconosciuto parlò, o meglio esalò una voce fioca, mortalmente affaticata, e ci raccontò di essere reduce dalla Terra Santa, dove aveva combattuto e riportato gravi ferite, e in cammino verso Poitiers nella cui cattedrale avrebbe sciolto il voto di povertà e astinenza cui aveva affidato la propria vita. La meta che perseguiva ormai da molti mesi non distava più di due giorni, ma per raccogliere le ultime forze chiedeva umilmente di poter passare la notte al riparo del nostro fienile o nella stalla.
Lo sforzo di questa spiegazione lo aveva sfinito, e a mezzo dell’ultima frase lo vedemmo afflosciarsi a terra come un sacco, ma talmente leggero da non fare che un fruscio di stracci.
Mio padre, che aveva modi rudi ma un cuore cristiano, vinse subito ogni ripugnanza: lo aiutai a trasportare quel corpo infetto e denutrito nel fienile, lo adagiammo, gli bagnammo le labbra con un po’ d’acqua e pian piano lo vedemmo rinvenire. Mia madre gli mandò una ciotola di zuppa e due coperte, e io mi offersi di restare accanto a lui, perché era visibilmente malato e troppo debole. Mi acquattai in un angolo con una lucerna, un acciarino e una brocca d’acqua e mi accinsi a una lunga veglia.

Quella notte, il cavaliere errante smaniò e delirò a lungo, squassato da una febbre diabolica; agitava le braccia alla cieca, respingeva la coperta, scuoteva la testa di qua e di là, bofonchiando frasi spesso incomprensibili in cui a tratti emergevano lamenti da strappare il cuore. Io, inchiodato da una fascinazione irresistibile, lo ascoltavo; e un po’ alla volta le sue parole smozzicate si facevano chiare alle mie orecchie. L’immaginazione fece il resto.
Raccolsi una lunga storia di viaggi per mare e per terra, di vascelli carichi di armi e uomini esaltati, di spedizioni a cavallo o sui cammelli lungo piste desertiche e pietraie.
Udii clangori e cozzi di ferri e mazze, scalpitii e nitriti, cigolii di carri da guerra lanciati all’assalto, sibili di dardi, sfrigolii di incendi.
Ma udii anche il carezzevole gorgogliare di limpide fontane e le nenie tribali di tamburelli e flauti, e il fruscio della brezza della sera fra le palme e i cedri, e lo sciabordio dolce della risacca in riva a un grande mare.
Vidi i diamanti e le gemme che incrostavano il manto di califfi, gli stendardi variopinti sulle torri, le cupole dorate delle città sante, i cortei bizantini e cristiani, le porpore, le sete, gli schiavi neri come la notte che conducevano al guinzaglio maestosi leopardi alla corte del Re di Gerusalemme.
E soprattutto distinsi, dal marasma stordente che impaniava quel corpo derelitto, gli innumerevoli odori che ne componevano la varietà. La salsedine degli scafi di legno, l’afrore delle stive e dei postriboli del porto, le spezie multicolori dei mercati, la frutta matura sui muretti bianchissimi al sole, gli aromi degli erboristi e dei maestri profumieri, gli incensi delle liturgie, le pietanze piccanti vendute per le strade. E accanto a queste fragranze così esotiche e seducenti, e intrecciate a esse, ecco anche i fetori della guerra, il sudore dei cavalli, il puzzo della paura dei combattenti, quello dolce e ferroso del sangue vivo, o asfissiante delle ferite infette e dei corpi bruciati, e poi la putredine dei lebbrosi, i miasmi della dissenteria, il tanfo dei lazzaretti, delle prigioni, delle carcasse di animali ai cigli delle strade polverose.
Tutto questo vidi, udii e annusai, e ne ero al tempo stesso sconvolto e abbacinato.
Solo verso mattina la febbre cedette, e l’infelice si quietò, sfinito come dopo una lunga lotta. Allora mi addormentai anche io, e quando mi svegliai il sole era alto e l’uomo se n’era andato. Aveva piegato con cura la coperta, bevuto tutta l’acqua e mangiato la minestra fredda, lasciando ogni cosa in ordine in un angolo.

Due settimane dopo, accompagnai mio padre a Poitiers per un mercato di bestiame, e mentre era occupato a trattare sgattaiolai verso la cattedrale per cercare notizie del nostro ospite misterioso. Venni a sapere che, due giorni dopo che aveva trascorso la notte da noi, un uomo emaciato, con gli occhi spiritati e gli abiti a brandelli, era effettivamente entrato in città e si era rivolto al canonico per sciogliere il suo voto. Dopo la confessione e la benedizione, aveva finalmente preso un lungo bagno purificatore, si era fatto tagliare la barba e aveva chiesto la tonsura.
Quello stesso anno, annunciai ai miei genitori il mio desiderio di abbracciare la vita monastica, ed essi mi affidarono ai canonici di Poitiers. Da allora sono passati tanti anni. Ho dedicato la mia esistenza alla preghiera e alla clausura perché Nostro Signore ci preservi da tutte le eresie e tutte le guerre, e ora la mia lunga vita si sta compiendo fra le mura quiete di questo monastero toscano, tra profumi di rose, gigli e incenso che mi predicono già il Paradiso.

*  *  *

Questo racconto esaGGerato partecipa all’eds Sniff sniff della Donna Camèl insieme a:
San Sebastiano di Dario
Odori di ricordi di Lillina
Ucci Ucci sento odor di cristianucci di Hombre
L’abbondanza di cozze di Fevarin e carnazza
L’odore della Sipe di Pendolante
Profumo di Marsiglia di Lillina
Odore della domenica di F
La puzza di La Donna. Camèl

L’orecchio assoluto

In ritardissimo ma ben convinta e orgogliosa di partecipare all’eds della Donna Camèl, eccomi qua, con uno dei miei soliti raccontini dove ficco dentro un po’ di cose che mi sono molto care: Venezia, il settecento, la musica. Prima non ho proprio potuto: sapete com’è, a volte si ha il tempo ma non una storia, io ultimamente ho le storie ma non il tempo per scriverle.

Ah povero Serafino, che ne sapevi tu! Tu, l’ultimo di sette fratelli e sorelle, tu il più gracile e pensieroso, quello buono solo a cogliere frutti dagli alberi mentre gli altri vangavano la terra e spaccavano la legna, robusti e fracassoni quanto tu eri – e sei – così magrolino e inappetente, così sognatore e suggestionabile, così fatto di un’altra pasta.
Vai, vai – ti hanno spinto, emozionati, tutti quanti, tuo padre, tua madre, i parenti, perfino i pochi amici un po’ invidiosi della tua fortuna.
Vai vai, Venezia è la città della musica, dei teatri, degli artisti – ti lusingava il curato, quello che per primo si era accorto del tuo talento e ti aveva messo in mano il primo violino.
Vai,Serafino, tu sei nato per diventare un grande musicista, qui non è posto per te, non sarai mai un contadino, non imparerai mai a zappare i campi, a tirare il collo alle galline, non sei fatto per questa vita.
Ne parlavano tutti insieme la sera intorno alla tavola, facendo conti e progetti con gli occhi lustri. Tua madre ti ha rimesso a nuovo un abito di velluto che a tuo padre era venuto stretto molto presto, e ha venduto un’oca delle migliori per farti fare un paio di scarpe eleganti, con la fibbia, da città. Per i concerti, diceva, commovendosi. Tuo padre ti ha contato il denaro in un sacchetto di stoffa e ti ha fatto un discorsetto da uomo, poi ti ha salutato stringendoti la mano come si fa tra adulti, la sua mano grossa e coriacea e la tua gentile e affilata, quella di un violinista, di un angelo.
E hai lasciato il paese, un barcaiolo ti ha traghettato col tuo piccolo baule attraverso un largo braccio di laguna e tu hai finalmente messo piede nella città dei tuoi studi e del tuo incantevole futuro.

Ma nessuno ti aveva parlato delle sue pietre umide, del salso che corrode i muri, dell’ombra perenne di certe calli profonde, dell’acqua che in inverno lambisce le soglie delle case e a volte risale i primi gradini, col suo odore di marciume e il suo ritmo lento e indecifrabile. Non ti avevano detto che nella tua stanzetta in affitto avresti visto una lama di sole solo due ore la mattina, e per il resto del tempo non ci sarebbe stato alcun caminetto a scaldarti mentre studi su un tavolino traballante o provi la tua musica con i mezzi guanti. Non immaginavi quanto avresti rimpianto il grande focolare sempre acceso nella cucina di casa tua, né che avresti dovuto accontentarti di un catino di acqua fredda per lavarti il viso all’alba e di uno scaldino che a malapena ti intiepidisse il lettuccio umido la notte.

Nel salone dove prendi le lezioni con altri giovinetti c’è lo stesso freddo, e solo un po’ più di luce dai finestroni; il maestro, un ex-gesuita suscettibile e intransigente, non tollera lamentele né incertezze, pretende l’impossibile dai suoi allievi e in particolare da te, che ti sei rivelato così promettente fin dal primo giorno, tu con quel dono divino, il tuo orecchio assoluto. Ma già dopo qualche settimana è cominciato il tormento dei geloni, che ti deformavano i sensibili polpastrelli e li gonfiavano e ulceravano fino a farti piangere in silenzio mentre ti imponevi di suonare lo stesso. Il contatto con le corde del tuo strumento li fa sanguinare, ed è così umiliante, oltre che doloroso.
I soldi poi non bastano mai: l’affitto, la lavandaia, le lezioni, i libri. I tuoi scarpini eleganti e inutilissimi non hanno retto ai primi geli e li hai fatti riparare due volte, prima di rassegnarti a procurarti degli stivaletti più dozzinali ma perlomeno più caldi e robusti.
Eppure la passione per la musica finora ha mantenuto viva la tua volontà di resistere; a volte hai suonato per nessuno, sui gradini di un ponte o di una chiesa, per il solo incanto di dialogare con il tuo strumento che sempre risponde con voce celestiale al fiotto di felicità che ti nasce in cuore quando pensi alla musica.
Ma ora, povero Serafino, c’è questa nuova disgrazia che ti sta rodendo l’animo da qualche settimana: quel rumore che ti assilla notte e giorno, ti attraversa la testa da un orecchio all’altro, diabolico e multiforme, a volte come uno stormire di fronde, altre come risacca di alta marea, oppure rauco come un soffio forzato dentro una canna, talora persino simile a uno squittire di topo, o un pigolio di uccelli impazziti. Ti dà poca tregua, ti toglie il sonno, ti smagrisce di giorno, ti rende un povero spettro febbrile che ha perso l’orientamento e rabbrividisce anche alla solita eco dei suoi passi, diventata un rimbombo insopportabile. E il peggio è che anche le note del tuo violino sono contagiate da questo male, ed escono distorte, irriconoscibili, raschianti come le unghie su un vetro, uno strazio che va peggiorando e ti spegne pian piano non solo la dignità ma la stessa voglia di vivere.
Ti torna alla mente il nonno. Era sordo, sordo quasi del tutto. Anche lui sentiva rumori inesistenti, e se ne lamentava con tutti, e tuttavia non avvertiva le parole di chi cercava di consolarlo. Il suo mondo era popolato di stridori e cigolii, e null’altro. E ora sta succedendo a te, povero Serafino, che hai solo diciassette anni e quell’orecchio assoluto che avrebbe dovuto fare di te un grande artista.
L’ultima notte in bianco ha fatto di te uno straccio. Senza la musica, non hai più motivo di vivere, non hai più alcun futuro su cui contare, alcuna gioia da raccogliere.

Sei in cima a un ponte. Ti affacci alla spalletta. L’acqua del canale è verde e pigra, e muove lentamente con sé qualche immondizia: quasi una metafora della deriva senza più rimedio che è diventata la tua vita. Due cose sole ti restano da fare. La prima è la più facile: scavalcare quel parapetto e lasciarti cadere nell’acqua fredda e sporca. La seconda invece è troppo difficile, e sai già che non ci riuscirai: non riuscirai a lasciarti anche andare a fondo perché ci vorrebbe uno sforzo di volontà disumano per rinunciare a nuotare, e tu sai nuotare e sei anche un po’ codardo, così ti salveresti malgrado tutto.
Ma ci provi lo stesso, spinto da un nuovo attacco di fruscii e scampanii che ti si scatena in testa più forte del solito, forse animato dal galoppo del tuo cuore portato allo stremo. Sei magro e agile, una gamba è già sopra la spalletta, tiri su anche l’altra.
“No no, bambin mio, cossa fastu? – grida una donna, e ti senti trattenere un braccio, poi anche l’orlo della giacca, e la donna insiste a gridare e altri passanti si fermano, ti soccorrono, ti strappano al parapetto, ti parlano tutti insieme, accalorati, premurosi, e tu ti abbandoni fra le loro braccia e ti afflosci a terra chiudendo gli occhi pieni di lacrime.
Un uomo grande e grosso ti carica in spalla, qualcun altro si preoccupa del tuo violino, la donna materna ti cede il suo scialle per coprirti la testa nuda, e tu sei senza forze e pieno di vergogna e lasci fare, non ti opponi più a niente, avresti voluto morire e forse sei morto lo stesso, anche se quelli te lo hanno impedito.
Ti portano lì vicino, nella bottega dello speziale. Lì dentro c’è un bel tepore e profumi pungenti. Lo speziale ti accoglie bonario, gli raccontano la cosa, lui ti fa sedere su una poltroncina e ti esamina con mani calde e sorriso indulgente.
“Su su, giovinotto, non sono cose da fare, queste. È stato un brutto momento, lo so, ma adesso è passato, vero? Prendete qua, bevete questo – ti danno qualcosa da bere, ti brucia un po’ la gola ma ti dà forza e conforto.
Poi lo speziale manda via tutti e avvicina una sedia per fare due chiacchiere con te, come farebbero un padre o un buon prete confessore.
“Allora, adesso potete dirmi cos’è successo – ti invita.
E tu, riscaldato nelle vene da quel cordiale, cominci a raccontargli il tuo male, prima con pudore e poi con sempre maggiore sincerità e particolari. I rumori, gli incubi, la paura, il nonno sordo. Gli confessi – e non sai nemmeno tu da dove hai trovato tanto coraggio – di esserti convinto di andare incontro a pazzia e morte precoce, perché un tormento come quello che soffri da qualche mese non può che far impazzire chiunque, soprattutto se giovane, inesperto e lontano da casa come te.
“Macché macché, per morire ce ne vuole, giovinotto. Intanto vediamo un po’ se si può fare qualcosa: ho già un’idea, sapete? E se è quella giusta, vi assicuro che tra pochi minuti uscirete dalla mia bottega guarito e rinato”.
Il sant’uomo va nel retrobottega, e quasi subito ne torna con degli oggetti in mano e un panno pulito. Hai paura, eh, Serafino? Paura di quella bacinella fumante, di quei piccoli strumenti metallici, di quel rito sconosciuto che sta per iniziare e potrebbe rivelarsi doloroso. Non ne sai niente, tu, di malattie, di dottori. A casa, in campagna, era tua madre a curarti quando avevi bisogno: tisane, impiastri, purganti, e via. Tutto andava a posto subito, grazie alle sue mani sante e all’aria familiare di casa tua, del tuo lettino, dei tuoi cari vicino a te.
Lo speziale comincia con guardarti l’interno dell’orecchio avvicinando una candela per vederci meglio. Lo senti ridacchiare piano, un riso più di soddisfazione che di derisione. Poi avverti un liquido caldo e oleoso entrarti in un orecchio; lo senti diffondersi piacevole e indolore, e chiudi gli occhi ormai pronto a tutto. Ora qualcos’altro si fa strada nel tuo orecchio, ma sempre in modo delicato anche se stavolta hai capito che si tratta di uno strumento, qualcosa di metallico, prudente e preciso. Ancora qualche istante, ed ecco la voce trionfante dello speziale che estrae la pinza, si raddrizza e annuncia “Ecco fatto!”
E infatti nello stesso attimo il tuo orecchio esacerbato si è riaperto alla vita come per incanto e senza dolore, solo un lieve ed euforico stordimento nel momento in cui l’ovatta e la risacca e gli squittii si sono dissolti per lasciare tutto lo spazio a un colpo di vento benefico e alla perfezione totale dei rumori circostanti, ora nuovamente distinti, puliti, intonati, non più stranieri. Anzi, ogni rumore è un suono, un’armonia vergine, un balsamo.
“Eccolo qua, il male che vi dava tanto fastidio: un frammento di paglia, nientemeno! – lo speziale ha un po’ l’aria di canzonarti, ma benevolmente, mentre ti fa vedere il frustolino ancora trattenuto nella pinzetta. Tu sgrani gli occhi, sei confuso, arrossisci: mai avresti pensato che una pagliuzza potesse rischiare di far impazzire un uomo. E allora ti viene in mente che sì, Marcolina, il fienile, il giorno prima di partire, lei un po’ piangeva e un po’ rideva, perché non voleva lasciarti andare, e non ti ha detto di no, e neanche tu hai detto di no a lei, e quel fienile era caldo e odoroso e ci avete passato le ultime ore e le più belle alla vigilia della partenza. Poi quella pagliuzza è partita con te, forse per impedirti di dimenticare Marcolina, o forse invece per farti diventare uomo davvero.
Adesso è tempo di tornare a vivere: ringrazi lo speziale, sei colmo di gratitudine, e gli chiedi quant’è il suo onorario. Ma lui non vuole denaro, no. Lui guarda il tuo violino, e tu per un attimo ti senti nuovamente morire all’idea che voglia essere ripagato proprio con ciò che più che ti sta a cuore.
Invece no, hai capito male: non è lo strumento che vuole, lo speziale, ma il piacere di ascoltarti suonare qualcosa solo per lui, ora, lì, tra quegli scaffali di noce, i vasi di ceramica con le scritte in latino, gli aromi canforati che impregnano il bancone. E tu, Serafino, suoni con le lacrime agli occhi, e il tuo violino è tornato a essere il violino degli angeli e alza verso le travi del soffitto e oltre la vetrina e su per la calle e in alto fino ai tetti e alle cupole e al cielo di marzo le note perfette del tuo orecchio assoluto.

*   *   *

All’eds della Donna Camel hanno partecipato, prima e meglio di me:
MaiMaturo – Il movimento
Lillina – Ti lascio una parola
Fevarin e carnazza – Un errore di sbaglio
*cla – Il pallone
Hombre – Testa di ignudo
MaiMaturo (bis) – Il rumore del vento
La Donna Camèl – Amico mio
Pendolante – Il sibilo
Dario – Michelino e Filippo

Morgue

In quarant’anni di servizio e ormai alla vigilia della pensione, che progettava di festeggiare con un viaggetto in Italia, Sister Dorothy Kitting aveva visto di tutto: travagli di 72 ore, tisici che tossivano brandelli sanguinolenti di polmone, alcolizzati che vomitavano secchi di sangue vinoso, operai con mani ridotte a bistecche da presse, bambini ricoperti di pustole che scoppiavano schizzando pus verdastro, piaghe da decubito che mettevano a nudo l’osso sacro, persino stigmate isteriche e infezioni da bacillo megaloschiphidus. Per non parlare di certe amputazioni genitali autolesionistiche e dei numerosi casi di allucinazioni bipolari e deliri da rabdotossina, che comunque aveva sempre affrontato senza mai perdere il sangue freddo e badando bene a che la sua uniforme non rischiasse l’impeccabilità immacolata di cui andava fiera. Ma verso la fine della sua carriera ebbe un’esperienza che mise a durissima prova la fiducia in se stessa e nella verità scientifica.

Erano gli ultimi giorni del St. Bartholomew Hospital: il vecchio edificio sopraffatto da malanni senili inguaribili era stato dichiarato obsoleto, e i malati cominciavano a essere trasferiti nel nuovissimo ospedale in collina, ancora odoroso di vernice fresca, dove si diceva avessero installato le apparecchiature più avanzate e assunto personale giovane e preparato secondo le metodiche più aggiornate. Ascensori silenziosi, ampie vetrate esenti da qualsivoglia spiffero, pareti verde acqua, cromature scintillanti, asepsi cristallina, piastra operatoria integrata, camere con massimo due letti. Al St. Bartholomew le stanze ne contenevano otto, di letti.
Alla fine di ottobre, il trasferimento delle attività e degli uffici era quasi ultimato e al St. Bartholomew restava aperta un’unica ala, dove erano stati riuniti gli ultimi 17 degenti rimasti, quelli giudicati intrasportabili.
Il numero 17, che occupava da solo la terza stanza, morì quella notte. Si trattava di Morgan Potter, il vecchio barbone storico del quartiere, che si era buscato una polmonite pentalobare cadendo – ubriaco – nel laghetto del parco. E quella era, fatalmente, la notte di Halloween, una notte, fuor di retorica, buia e tempestosa; pioggia e vento facevano oscillare gli alberi del viale e infiltravano penosi spifferi nei vecchi locali mal riscaldati. Il vecchio edificio si stagliava vagamente contro le tenebre del cielo, appena identificato dai lampioni esterni e dalla luce gialla della finestra della guardiola al pianoterra, l’unica accesa in tutto il vecchio maniero.
Dopo aver preparato la salma con l’aiuto della collega Edith Peabody, Sister Dorothy si accinse a trasportarla nell’obitorio al piano interrato.
“Io resto qui – aveva detto Edith – il numero 4 non mi piace per niente, temo stia preparando un’altra crisetta di gormitospasmo”.
“Vado e torno, replicò Dorothy; poi prese il grosso mazzo di chiavi, si munì prudentemente di torcia, si chiuse bene il giacchino di lana e si avviò lungo il corridoio spingendo la barella con il fu numero 17 coperto da un lenzuolo.
Gran parte dell’impianto elettrico era stato disattivato per economia, in quegli ultimi giorni, cosicché di notte restavano accese solo fioche lucette notturne fuori dalle porte delle stanze di degenza, ma lungo i corridoi deserti che si approfondivano nel cuore disabitato dell’edificio si poteva contare solo sull’aiuto di uno stanco neon ogni due. Larghe porzioni di pavimento e muri erano fasciate di pesante penombra, che si addensava angolo dopo angolo verso il vetusto montacarichi. Era fermo al piano, e le sue fauci grazieaddio erano (molto sobriamente) illuminate dal solito neon ingiallito e sfrigolante. Dorothy spinse dentro la barella, entrò a sua volta e fece scorrere la grata suscitandone il familiare gemito di ferraglia.
– Non fare scherzi, eh – mormorò in tono minaccioso mentre premeva il pulsante del sotterraneo.
Gli scherzi del montacarichi erano famosi persino quando l’ospedale era giovane e in buona salute, figurarsi adesso che perdeva pezzi e per di più con la burrasca autunnale di quella notte che rappresentava un buon motivo per aspettarsi qualche interruzione di corrente. Tuttavia il vecchio carrettone partì. Con un sobbalzo, del resto previsto, ma partì. E addirittura prese la direzione giusta, per una volta: verso il basso, verso il buio. Adagio, e con qualche perdonabile beccheggio. Ma non si fermò esattamente al capolinea – sarebbe stato chiedere troppo – bensì qualche centimetro prima, una mezza spanna più su, e con un sussulto di tutto rispetto.
– Uffa, ti avevo chiesto per favore – bofonchiò Dorothy contrariata.
Nel silenzio del sotterraneo cavernoso e semibuio che si apriva davanti, quell’uffa rimbalzò ovattata contro una parete e parve tornare indietro come un’eco. Come due uffa invece di una. Ma Dorothy non era lì per fare conti, perché si stava industriando a far superare il dislivello alla barella con manovre energiche, e finalmente ci riuscì con un altro paio di inevitabili trabalzoni.
– Accidenti a te! – fu la sua reazione, ma stavolta si limitò a pensarla perché non era da lei pronunciare simili imprecazioni ad alta voce. Tuttavia doveva averla pensata molto intensamente, perché ebbe la netta sensazione di udirla con le sue stesse orecchie, seppure in tono più soffocato e sgraziato di come l’avrebbe espressa lei di persona, anzi per la verità anche un pochino diversa, più simile a un dannazione! che a un moderato accidenti!
Come disturbato dall’esclamazione, un pipistrello in semiletargo sbatté le ali nell’angolo oscuro del soffitto e si staccò di lì squittendo terrorizzato alla ricerca di un anfratto più nascosto. Dorothy, nel riconoscere la natura di quel sinistro svolazzare, incassò il collo nelle spalle e si protesse il capo con le braccia. Poteva accettare a cuor leggero di trovarsi da sola in piena notte in un sotterraneo con un cadavere, ma le sue ginocchia vacillavano alla presenza di insetti, ratti e soprattutto pipistrelli. Se non altro perché le comunicavano un’insormontabile sensazione di orrore verso tutto ciò che è antigienico.
– Pipistrelli. In un ospedale. Gesù! – sbuffò sdegnata.
– U-u-u! – le fece eco qualcosa, forse il vento fuori oppure il secco fruscio delle ali inamidate della cuffia contro le orecchie.
Decisa a farla finita, riprese a spingere la barella con passo risoluto fino alla porta grigia, di metallo rinforzato, dell’obitorio. La chiave girò più volte prima che la serratura di sicurezza cedesse. All’interno era freddissimo, e ovviamente buissimo; Dorothy girò l’interruttore accanto allo stipite con scarse speranze che funzionasse, e fu piacevolmente sorpresa nel vedere che, al contrario, il neon sul soffitto ce la fece, seppure dopo qualche sinistro sfrigolio, risvegliando freddi riflessi sulle mattonelle bianche delle pareti. Si diceva che l’ospedale nuovo fosse dotato di celle frigorifere individuali e di un termostato infallibile, ma qui l’impianto che garantiva la refrigerazione del vasto stanzone era discontinuo e agonizzante, e le barelle con i cadaveri vi restavano allineate in attesa il minimo indispensabile. Al momento ve n’era una soltanto, e Dorothy parcheggiò il numero 17 di fianco a essa. Intorno c’era silenzio e ordine, come ci si aspetta in luoghi poco frequentati da esseri viventi; il tavolo autoptico era spoglio e gli strumenti sul carrello d’acciaio, minacciosamente allineati con le loro lame e ganasce dalle fogge sinistre, mandavano la fosca lucentezza di un arsenale di armi bianche ben tenuto e pronto all’uso. Dorothy era consapevole di essere l’unica persona viva in quel tempio della Morte, e prima di andarsene dedicò un pensiero rispettoso allo Spirito Oscuro che vi presiedeva, il che per lei non era una vera e propria preghiera – poiché era tendenzialmente agnostica – ma piuttosto un tributo alle forze della Natura che regolavano gli eventi terminali della specie vivente, che la Scienza, di questo era certa, presto avrebbe compreso e svelato per intero, andando ben oltre le patetiche superstizioni del comune pensare.
Non fu necessario girare nuovamente l’interruttore. In quell’esatto momento, il neon si spense da solo. Più che spegnersi, morì. E con lui morirono, non tutti insieme bensì uno dopo l’altro in lugubre sequenza, gli altri che si erano sforzati di illuminare il corridoio cavernoso dei pipistrelli.
Dorothy si affrettò ad accendere la torcia e la diresse sul pavimento a indicarle la via d’uscita nel buio totale, preparandosi mentalmente a visioni ributtanti di topi o tarantole snidati dai loro anfratti tenebrosi e abbagliati dal cono di luce. Ma il pericolo veniva dall’alto: il pipistrello di prima sbucò da qualche punto delle tenebre del soffitto e le sfrecciò sopra la testa con un gemito derisorio. Dorothy istintivamente agitò le braccia per difendersi, e la torcia le sfuggì di mano schiantandosi a terra qualche metro più in là, spenta, anzi morta anche questa. Ora sì che il buio era totale. E il generatore d’emergenza, perché non era ancora scattato? A volte ci metteva un po’, un minuto, due minuti. Quanto durano due minuti in un obitorio la notte di Halloween?
Troppo per aspettare. Troppo, per i gusti di Sister Dorothy Kitting, che avvertiva nelle gambe e nelle braccia tutti i sintomi di una imminente crisi di panico. Un cerino, sarebbe bastato un cerino. Ce n’era una scatola fra gli strumenti del carrello, Dorothy lo ricordò in quel momento con assoluta certezza. Sarebbe bastato rientrare nella morgue, avanzare a tentoni, tastare qua e là cercando di orientarsi, e soprattutto avere la fortuna di cascarci sopra con le mani trafitte da un incontrollabile formicolio isterico.
La porta era rimasta accostata, con la chiave ancora infilata. Dorothy fece per spingere, e in quel momento il sangue che le pulsava follemente nelle tempie prese la forma di voci che pronunciavano frasi perfettamente intelligibili, reali.

– Molly Doherty, vecchia battona irlandese, anche tu qui?
– Non dirmi. Quel lurido ubriacone di Morgan Potter!

Dorothy sentiva le voci, non c’erano dubbi; ed era un dialogo.

Il suo corpo si rifiutò di andare oltre, ma anche di tornare indietro. Solo la sua mente, la sua bella mente agnostica, razionale e scientifica, sopravviveva alla paralisi motoria che la stava inchiodando su quella soglia.

– E che ci fai qui, splendore?
– Quello che ci fai tu, topo di fogna, ah ah ah.
– Io polmonite. E tu?
– Mi vergogno a dirlo, ma cirrosi.
– Ah ah ah, l’ho sempre saputo che io lo reggo meglio di te!
– Il solito gentiluomo…
– Ma… i tuoi capelli, la tua fulgida criniera di capelli rossi? Cosa le è successo?
– Non mi ci far pensare. Sgrovigliati e lavati. Però hanno dovuto aspettare che entrassi in coma per farlo. Mai glielo avrei permesso, da viva.
– Assolutamente, mai e poi mai. A me hanno tagliato le unghie dei piedi, ti rendi conto?
– Non hanno rispetto, lascia che te lo dica.
– Comunque non trovi che sia fantastico ritrovarsi io e te proprio qui e proprio stanotte? Non avrei potuto immaginare una morte migliore.
– Oh già, anche io. L’ambientino, la compagnia… una vera pacchia.
– Però quel montacarichi, di una scomodità…
– Alludi allo scossone? Non hanno rispetto, te l’ho detto.

Dorothy ascoltava come in trance, i piedi congelati e la testa in fiamme. Era certa, certissima, che fossero state espletate con scrupolo tutte le procedure mediche prima della dichiarazione ufficiale di avvenuto decesso, ma quella notte troppe delle sue certezze stavano subendo un attacco frontale da parte di energie malefiche che sfuggivano al metodo scientifico. Poteva spiegarsi la latenza del generatore, ma doveva assolutamente provare a se stessa di essere ancora all’altezza delle proprie responsabilità.
Fu da questo antico orgoglio professionale che trasse il coraggio di emettere un filo di voce, e lo fece improntandolo al massimo rispetto:

– Signor Potter? Mi scusi, signor Potter… ma lei è morto oppure…?
– Ah ah ah, miss Kitting, spero proprio di sì!
– E lei, signora Doherty…
– Signorina, prego. Stia tranquilla, sorella, sono morta anche io. Siamo morti tutti e due.
– Sister, ci creda: mortissimi. E non abbiamo bisogno di niente, davvero. Lei ha fatto tutto il possibile, ma noi ora stiamo bene così, vero Molly?
– Già, dici bene, Morgan. Mai stati meglio nelle nostre grame vite.
– Sentito, Sister? Perciò vada pure, vada in pace. Ci lasci da soli, che abbiamo tanto da raccontarci prima che venga mattina.

Sei mesi dopo, mentre firmava cartoline per le vecchie amiche seduta sulla terrazza di una pensioncina sulla costa amalfitana, Dorothy non avrebbe saputo ricostruire con esattezza cosa fosse successo dopo. Di fatto, il generatore era partito con vari schianti e sibili, i corridoi si erano illuminati e lei in qualche modo era risalita fino al reparto, trovando tutto tranquillo. Non ricordava se il numero 4 l’avesse poi avuta, la crisetta di gormitospasmo paventata da Sister Edith, né se nei giorni successivi al St Bartholomew si fossero verificati altri decessi. Di certo nella morgue non era più tornata, e nessuno che vi fosse sceso al suo posto ne era mai risalito raccontando storie d’orrore.
In effetti, nell’austero ambiente del vecchio ospedale quel genere di facezie era considerato di pessimo gusto.

* * *

Con questa facezia di pessimo gusto chiedo umilmente di partecipare all’Eds 27 spousev paura! bandito dalla Donna Camèl, insieme a:
– lillina con Vite malate
– MaiMaturo con 0.10.35
– Hombre con Wonderwall
– Dario con I guerrieri del caos
– Pendolante con Il collega
– Hombre con Cimici
– MaiMaturo con Il prescelto
– La Donna Camèl con Gatto nero
– Pendolante con Racconto banale

La guardiana di oche

Il nostro era un villaggio felice. Poche anime, una dozzina di famiglie in tutto, e ognuna aveva la sua casupola col tetto di paglia e fango, la sua mucca, le sue galline, l’orticello e il gatto. Gli uomini andavano nel bosco a far legna e a cacciare, le donne lavavano i panni nel torrente e cuocevano delle gran zuppe sui focolari; non ci mancava niente, nemmeno la benevolenza del nostro barone, Bonocòre di Monteplacido, che non ci strangolava di tasse, al contrario si accontentava di un cestino di ciliegie o una dozzina di uova ogni tanto. La valletta era inondata dal sole e punteggiata di fiori; la terra era fertile e vi cresceva ogni cosa. Ma la cosa più bella era che si andava tutti d’accordo, in armonia e senza brutti pensieri, cosicché era un piacere viverci.
Poi un giorno arrivò da noi un forestiero. Non veniva mai nessuno, perché il villaggio era così piccolo e isolato da non avere nemmeno un nome, perciò forse la nostra ospitalità fu eccessivamente entusiastica e, come capimmo troppo tardi, anche abbastanza ingenua.
Era un vecchio alto, magro e coperto di stracci, dai quali sbucavano braccia e caviglie nere di sudiciume e così stecchite che nell’insieme pareva un albero seccato da un fulmine. Portava una lunga barba incrostata e un bastone, più adatto a minacciare che a essere di appoggio. Si annunciò come un monaco predicatore, in cammino da molti anni col solo conforto della fede e delle elemosine. Subito gli offrimmo da mangiare, da bere, da riposare. Mentre si ingozzava di oche arrosto e gran boccali di sidro, noi donne gli lavammo gli stracci al torrente e gli scaldammo dell’acqua perché potesse lavarsi anche lui, ma non parve interessato a questo programma igienico – che pure non gli avrebbe fatto male – e preferì approfittare subito di un giaciglio accanto al fuoco, dove dormì tre giorni di fila. Noi, zitti per non disturbarlo. Perfino le mucche trattennero i muggiti, i neonati se ne stettero buoni buoni e nessuno si azzardò a fischiettare tornando a casa dai campi la sera.
Quando il buon uomo si svegliò, gli fu servita una nuova abbondante colazione con focacce al miele e torte di sanguinaccio, e poi ci sistemammo tutti seduti intorno a lui per sentire cosa aveva da dirci.
L’albero secco si erse in mezzo a noi, girò lo sguardo severo tutt’intorno e finalmente parlò:
– Allora – disse – vediamo: chi di voi è il pastore?
Alzammo la mano tutti quanti.
– Io ho tre capre e una vacca!
– Io di capre ne ho solo una, ma ho anche un maialino!
– Io, sette capre!
Alzai la mano anche io, orgogliosa del mio lavoro:
– Io pascolo oche! Dodici oche una più bella dell’altra, bianche come cigni e grasse… grasse come oche!
Ma non era quello che il monaco voleva sentirsi rispondere, e ci fulminò con lo sguardo:
– Pastore nel senso di pastore di anime, intendo! Chi è il vostro pastore? Qui non ho visto né una pieve né una cappella né uno straccio di chiesucola: chi è che provvede alle vostre anime? – tuonò l’albero secco agitandosi in una collera apocalittica – Volete dirmi che siete una setta di eretici, che avete rinnegato Dio e la sua Chiesa? Che siete figli del demonio?
Ecco una cosa che ci mancava. Uno crede di avere tutto, e poi scopre che gli manca un pastore di anime. No, non lo avevamo, un pastore di anime. Noi, come dire, ci pascolavamo da soli. Andavamo a messa due sole volte l’anno, a Natale e a Pasqua, al castello del barone Bonocòre, ma ci volevano due giorni di cammino, e mica potevamo permettercelo tutte le domeniche.
Era furibondo. Pareva lui il demonio, con gli occhi iniettati di sangue e il fumo che gli usciva dalle narici come un drago.
– Iddio vi punirà! Ascoltatemi bene: Iddio ascolterà le mie preghiere e vi manderà una piaga terribile, mai vista prima!
– … cavallette?
– Troppo poco!
– … mosche?
– Di più, di più!
– … rane?
– Peggio. Una piaga che non riuscite nemmeno a immaginare. La Paura!
Infatti non riuscivamo a immaginarla; perciò chiedemmo spiegazioni:
– Ma paura di cosa?
– Paura! Paura di tutto! Non una paura qualunque, ma La Paura! Vi entrerà nelle vene, vi invaderà l’anima, diventerete degli spettri! Ah, voi non sapete cosa vi aspetta! Avrete paura di voi stessi, delle vostre stesse facce, e delle cose più innocenti, come la brocca del latte, le pietre del fiume, gli uccelli sugli alberi, il sole che vi guarda, i vostri pagliericci! Vi pentirete di essere nati! Paura di giorno e di notte! Una Paura che vi paralizzerà, e non riuscirete a fare più niente, camminare, sedervi, vangare la terra, mungere le vacche, accarezzare i vostri bambini! Ah, i vostri bambini! Loro saranno colpiti quanto voi, il veleno della Paura contagerà anche loro, e sarà tutta colpa vostra! Desidererete solo morire, e non ci riuscirete, perché la Paura è più forte della stessa Morte.
Doveva essere davvero una piaga tremenda, questo lo capimmo. Ci guardavamo pallidi e tremanti e ci sembrava che la paura che già provavamo fosse più che sufficiente, come piaga, invece c’era da aspettarsene una molto più grande, che poteva arrivare in qualunque momento e distruggerci. In un attimo ogni cosa perse la luce, la gioia, i colori, e il nostro piccolo villaggio ridente ci sembrò sbiadire come un fantasma nelle nebbie spesse di una palude di totale infelicità.
Il profeta se ne andò recitando infuocate maledizioni verso il Cielo e sottolineandole con veementi gesti delle braccia; ci lasciò così, in preda alla paura di una cosa chiamata Paura.
La notte non dormì nessuno, e la mattina dopo si cominciarono a vedere gli effetti dell’anatema: una dopo l’altra, le famiglie raccolsero le loro masserizie su carretti e carriole e lasciarono il villaggio con le facce smunte e invecchiate, in mesto esodo verso il castello del barone per mettersi sotto la sua protezione. I camini smisero di fumare, le braci si raffreddarono, i cortili rimasero deserti.
Rimanemmo solo in tre. Noi tre.
La vecchissima Brigida perché da piccola si era persa nel bosco ed era stata allevata dai lupi, e da allora non aveva paura di nulla nella vita.
Malvino perché era lo scemo del villaggio e ciò lo rendeva immune da qualunque paura, vera o inventata.
E io, sola a mondo, perché ero innamorata di Malvino e l’unica cosa che mi faceva paura era vivere lontana da lui.
Continuavo a pascolare le mie dodici oche, che continuavano a essere bianche e grasse, e lui mi faceva compagnia. Ci stendevamo sull’erba, che continuava a essere verde e cosparsa di fiori, e guardavamo il cielo, che continuava a essere azzurro e pieno di sole. Io gli facevo delle domande, come:
– Ma tu davvero non hai paura, Malvino?
E lui mi dava sempre risposte bislacche, come:
– Guarda Fiammetta, guarda quella nuvola! Non ti sembra la valvola di decompressione di un acceleratore positronico di isoscuotoni delta?
– Cosa sono gli isoscuotoni, Malvino?
– Ma che bella che sei, Fiammetta! Sei bella come Michelle Pfeiffer in Tequila connection!
Chissà di cosa stava parlando, ma io capivo che era una dichiarazione d’amore.
E i giorni passavano sereni come era sempre stato, le oche ingrassavano, i meli davano frutti copiosi, Brigida ci cucinava delle focacce squisite, la valletta era il nostro paradiso e di Paura neanche l’ombra.

Alla fine dell’inverno partorii un figlio a Malvino; Brigida mi aiutò e feci tutto in poco tempo e senza troppa paura. La vita andava avanti così bene che la felicità riuscì perfettamente a farci dimenticare la maledizione che incombeva su di noi. I primi tempi ci chiedevamo se e quando sarebbe arrivata, quella maledetta Paura, ma poi ci convincemmo che forse il vecchio monaco era caduto in un burrone prima di aver pregato abbastanza. Ora invece ci chiediamo che fine avranno fatto gli altri, quelli che hanno lasciato il paese e si sono rifugiati al castello. Magari da quel giorno se ne stanno chiusi dentro quelle mura spesse, oppressi dalla paura di qualcosa che forse non arriverà mai, rinunciando a vivere sotto l’arco azzurro del cielo e tra i profumi dei prati.

Sono passati anni. Malvino e io siamo sempre insieme, e con noi ci sono ormai cinque figli, belli come me, biondi come Malvino e sani come la felicità. Brigida ha passato il secolo ma non se ne preoccupa; ogni tanto prende su e va nel bosco a trovare i suoi amici lupi. A volte si porta dietro i due bambini più grandi, che tornano a casa felici raccontandomi storie meravigliose del bosco e dei suoi abitanti. E così crescono in età e in sapienza, e noi tutti qua coltiviamo il nostro amore e non ci manca nulla.
La Paura annunciata da quel lugubre profeta, ho paura che non verrà mai.

* * *

Con questa panzanella in costume chiedo umilmente di partecipare all’Eds 27 spousev paura! bandito dalla Donna Camèl, insieme a:
– lillina con Vite malate
– MaiMaturo con 0.10.35
– Hombre con Wonderwall
– Dario con I guerrieri del caos
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– Hombre con Cimici
– MaiMaturo con Il prescelto
– La Donna Camèl con Gatto nero
– Pendolante con Racconto banale

Notte prima degli esami

21 luglio 1969, stanotte tutti svegli a guardare la tivù: si va sulla Luna!
Io per la verità quel viaggio lo avevo già fatto con Jules Verne, e con Asimov ero sbarcata anche molto più lontano, ma ero pur sempre una fresca diciottenne cresciuta negli anni della guerra fredda  e dell’era spaziale (i comunisti cattivissimi, gli americani invece buonissimi che quindi meritavano di vincere) perciò ma sì, dai, viviamocela, questa notte magica in bianco e nero, con il bel Tito Stagno – il più americano dei nostri giornalisti di allora – e l’arguto Ruggero Orlando che mal che andasse faceva sempre ridere.
Un caldo da liquefarsi. A Trieste quando fa caldo fa caldo, mica si scherza. Il Carso tremolava nell’afa in quei pomeriggi di canicola incorniciati dalla finestra di camera mia. L’acqua del golfo era immobile come uno stagno d’asfalto intorno al molo Audace. Si grondava giorno e notte, in quei tempi remoti in cui l’aria condizionata l’avevano solo a Cape Canaveral. Noi invece, manco la coca cola, che era roba troppo avanti: acqua di rubinetto e limone di frigo. Eventualmente, piedi a mollo in bacinella e ventagli di carta giapponesi.
Questa è la cornice. Vengo al fatto (intanto vi ho fatti aspettare, così resto in tema).
A inizio serata avevamo preso posto tutti e cinque fra divano e poltrone davanti al televisore. Il primo a cedere è papà, cui la giornata risultava sempre pesante e poi non era, per sua natura, un uomo curioso. Mamma è più eccitabile, ma anche lei verso le dieci sceglie di andare a letto con un libro della Du Maurier. I miei fratelli si annoiano, e si eclissano subito dopo. Rimango alzata solo io, decisa a sfruttare l’euforia di quella trasgressione al solito orario. Abbasso al minimo l’audio e mi accomodo nella posizione più distesa possibile e perfettamente al centro dell’eventuale correntina d’aria che si fosse decisa a transitare nel salotto arroventato.
Immagini sfocatelle e grigiastre, piani americani di giornalisti che riempiono l’attesa ripetendo all’infinito commenti e previsioni, preparandosi al grande momento di cui saremmo stati testimoni e che loro avevano il privilegio di scortare nella Storia.
Io allora mica lo sapevo che di ben altri momenti della Storia sarei stata testimone in diretta televisiva. Momenti che, col senno di poi, hanno cambiato le nostre vite assai più di quell’equipaggio di astronauti mandati sulla Luna salcazzo a fare cosa. Le picconate – e le mani nude – sul Muro di Berlino. Il ragazzo di Tienanmen. Le due Torri trapassate dai fulmini di Allah. Ma quella notte mi piaceva essere sveglia e alzata da sola ad aspettare. Ad aspettare, come già detto, salcazzo cosa.
Alle undici mi si chiudevano gli occhi. Resisti, mi diceva Tito Stagno: manca poco. Dopo un altro po’, continuava a mancare sempre poco. Talmente poco che Tito Stagno, forse stufo anche lui come me, provò a bluffare e annunciò emozionato che gli eroi avevano toccato. Magari. Invece macché, lo sgamano e lo fanno rettificare “Mi dicono che non è vero“.
A quel punto, dopo cioè quella storica battuta, il clou dello show per me era già arrivato, e guardando l’orologio decido che non è più così importante seguire centimetro dopo centimetro quegli ultimi dieci metri che mancavano all’allunaggio vero e proprio.
Insomma, non ho aspettato di vedere in diretta il piedone che lascia la prima orma né i saltelli da orso alticcio sulla cenere lunare. Ho spento la tivù e, facendo pianissimo per non svegliare gli altri, me ne sono andata a letto.
Avevo, del resto, un ottimo motivo: la mattina dopo, dovevo sostenere gli orali della maturità. Senza aria condizionata. Quello sì che sarebbe stato un evento storico da coprire in diretta, altro che Luna.

* * *

Questa indegna spiritosaggine partecipa all’eds Attesa, lanciato dalla Donna Camèl, insieme a:
– SpeakerMuto con Ti aspetto
– Hombre, con Faccio lo sborone
– firulì firulà (1) con E tu come stai?
– Lillina con Anime
– Dario con Ombre di fiori sul mio cammino
– Chiagia con In-attesa
– firulì firulà (2) con Quanto manca alle nove
– firulì firulà (3) con Credevo, e invece
– La Donna Camèl con Quanto a me
– Pendolante con Il melo
– MaiMaturo con E se