Madeleine

Nell’ottobre del 1895, agli esordi della mia fortunata carriera di neuropsichiatra, mi imbattei in un caso a dir poco arduo e insieme commovente, che avrebbe cambiato la mia vita in un modo inatteso.
Me ne incaricò il professor Waldenstein, decano all’Hôtel Dieu, del quale ero stato l’allievo prediletto. Si trattava di una giovane donna dell’alta società che aveva perduto la memoria in seguito a un trauma emotivo dei più brutali: il marito era morto annegato sotto i suoi occhi nel mare di Capri durante il viaggio di nozze in Italia, e non riesco davvero ad immaginare un epilogo più straziante per quello che appariva a tutti un perfetto matrimonio d’amore. L’amnesia che l’aveva colpita aveva cancellato dalla sua mente tutti i ricordi antecedenti l’incontro con il futuro marito, risucchiando perciò nell’oblio la sua infanzia e le immagini dei suoi stessi familiari. Essa li riconosceva per tali solo perché le era stato provato che lo erano, ma tuttavia non rammentava di aver mai visto prima i loro volti né pronunciato i loro nomi. Incapace di ambientarsi nella sua famiglia d’origine, si era ritirata nella casa maritale, dove viveva infelice coltivando gli unici ricordi sopravvissuti, che le parlavano di un amore e di una felicità durati così poco e ormai perduti per sempre.
Acconsentii a occuparmi del suo caso dopo averlo frettolosamente classificato come una amnesia isterica, statisticamente abbastanza frequente fra i soggetti di sesso femminile soprattutto se giovani, benestanti e sensibili, e, confidando in un pronto successo, la ricevetti nel mio studio privato al pianterreno della villa di Neuilly dove dimoravo da solo.
Essa quel giorno, come poi tutti i seguenti, indossava un abito nero di ottima fattura e calzava un cappellino dello stesso colore, la cui veletta le copriva il volto lasciando trasparire solo il tenue rosa delle labbra.
Quel primo incontro fu dedicato a raccogliere quanti più dati possibile, ma a fine giornata mi resi conto di avere ben poco in mano: nulla che comunque non mi avesse già anticipato nel dettaglio il mio Maestro, perché dalla bocca e dalla memoria della mia giovane paziente non uscì null’altro di illuminante. E così anche negli appuntamenti seguenti: essa non faceva che ripetere le stesse frasi, rievocare le stesse scene, ribadire la propria impotenza davanti a quel muro nero che le si parava dinnanzi ogni volta che cercava di spingersi indietro nel passato.
“Un muro, voi dite”.
“Un muro. Un muro nero”.
“Nero come? Anche il nero è un colore, e dunque può avere varie tonalità, vari registri, a seconda di quale prevalga fra i suoi tanti componenti… ”
“Nero, signore. Nero. Non ci sono sfumature, è tutto nero”.
“Nero come la notte? La notte ha qualcosa di blu profondo. O come la seta del vostro abito? Però contiene dei riflessi argentei, smorzati ma comunque riconoscibili”.
“Se intendete dire che anche in un pozzo, anche in una grotta, il buio può essere sempre interrotto da qualche lieve bagliore, ebbene non è il mio caso. Il nero del muro che abita in me è definitivo e ineluttabile come l’interno di una tomba molti metri sotto terra, signore”.
La sua patologia persisteva ormai da qualche mese, e si era mostrata refrattaria ai principali rimedi posti in essere: non le avevano giovato né calmanti né eccitanti, né viaggi all’estero né riposi in un chiostro, né soggiorni al mare né in montagna, né applicazioni calde o fredde o elettriche o magnetiche, e nemmeno l’ipnosi. Il muro resisteva nel fondo della sua mente, nero e crudele, solido e beffardo.
“Vi scongiuro – mi supplicava – fate qualcosa. Finora tutto è stato inutile, e il tempo passa privandomi della gioia di vivere. Presto invecchierò senza mai essere stata giovane!”
Ah, essa che paventava la propria vecchiaia non aveva che ventuno anni! Si può immaginare nulla di più straziante? Quanto atroce era il suo destino di ricordare solo un marito oramai perduto e irraggiungibile e di non potersi rifugiare con confidenza nel grembo della famiglia che tanto l’amava e a cui si sentiva estranea? Sarebbe stato preferibile il contrario, e forse sarebbe stato anche più facile da curare.
Avevo adottato fin dall’inizio un mio metodo personale: durante la seduta, le facevo indossare sopra gli occhi una benda nera ben accomodata in modo da precludere il passaggio di qualunque spiraglio di luce. Lo scopo era quello di ricostruire in concreto la sensazione di muro nero e di stimolarla affinché si sforzasse di vedere oltre, di scavare quella superficie e scoprire al di sotto i tenui disegni dell’affresco del suo passato. Pronunciavo parole e nomi di luoghi che avrebbero dovuto rievocarle qualche ricordo fondamentale, oppure le facevo toccare oggetti che avrebbero dovuto esserle familiari, come la bambola preferita di quand’era bambina o il collare dell’adorato cagnolino dei genitori, ma pareva ormai che anche quei tentativi dovessero restare infruttuosi.

Un pomeriggio di tardo autunno (la luce era scesa presto, pioveva a raffiche e il vento dall’Atlantico frustava le imposte), nel corso di un colloquio particolarmente impegnativo accadde qualcosa di sorprendente. Ad un certo punto, mi accorsi che era molto provata e aveva il mento e le mani tremanti.
“Perdonate, ma sono troppo stanca per continuare. E a dire il vero ho molto freddo… – mormorò.
Subito mi adoperai perché si riprendesse, e la sorressi fino alla poltrona più vicina al caminetto, dove ardeva per la verità un fuoco più che sufficiente a riscaldare la stanza, ma evidentemente non il suo piccolo cuore afflitto. Le sistemai sulle ginocchia una coperta da viaggio e le misi in grembo il suo manicotto di pelliccia affinché si scaldasse le gelide manine, poi uscii per ordinare alla mia governante qualcosa di caldo e corroborante. In tutto questo, la mia pallida paziente non aveva mai tolto la benda dagli occhi, e tuttora la teneva, forse per trovare rifugio alla stanchezza in quel vuoto foderato di raso nero senza riflessi.
La governante entrò poco dopo con una tazza di cioccolata fumante, me la consegnò e lasciò che fossi io a offrirla alla giovane sofferente, ma rimase al suo fianco con un tovagliolino candido pronta a nuovi ordini.
Dopo il primo sorso, la spossatezza sembrò prendere il sopravvento, e la testa si reclinò all’indietro sullo schienale imbottito, mentre le sfuggiva un lungo e doloroso sospiro.
Ma subito dopo, tornò a bere il liquido dolce e bollente e stavolta gli dedicò un’attenzione insolita: pareva che le sue papille gustative analizzassero freneticamente densità e sapore e stessero trasmettendo al cervello una corrente di segnali vorticosi. Al terzo sorso, più lungo e concentrato, esalò una parola:
“Cannella”.
“Come avete detto? – chiesi, perplesso.
“Cannella. Cioccolata con la cannella. Una spruzzata di cannella. Un nonnulla di cannella. Il vapore la scioglie e vi entra nel cuore”.
Bevve ancora, sempre cieca eppure visibilmente rianimata. E disse un’altra cosa stupefacente:
“Il capriccio del diavolo. La cannella: il capriccio del diavolo”.
Mentre cercavo di capire se fosse per caso uscita di senno, non mi accorsi del cambiamento avvenuto nell’espressione, solitamente riservata, della governante, che all’udire quelle parole si era impercettibilmente chinata verso la paziente e scrutava incredula il poco che restava visibile del suo volto velato.
“Avete veramente detto il capriccio del diavolo? – chiese con voce rotta dal turbamento.
Ed essa, la paziente smemorata, dal fondo del suo buio confermò con inattesa decisione:
“L’ho detto. La cannella sulla cioccolata è il capriccio del diavolo. Lo diceva sempre la mia bambinaia”.
La sua voce si era fatta sicura e io trasecolai, ma non ero pronto a quanto stava per accadere. Stavo per inserirmi con alcune domande prudenti e studiate per valutare il grado di completezza di quel primo ricordo che pareva affiorare, quando la governante mi rubò la scena e continuò il dialogo relegandomi a semplice ascoltatore.
“E ricordate come si chiamava, la vostra bambinaia? – indagò con trattenuto fervore.
La risposta arrivò dopo un istante:
“Berthe”.
La governante si coprì la bocca con le mani, colta da intensa emozione, ed esclamò:
“Madeleine, siete dunque voi?”
Madeleine si strappò la benda dagli occhi, i loro sguardi si ritrovarono e si riconobbero e davanti a me le due donne si abbracciarono singhiozzando di gioia e coprendosi di epiteti affettuosi ripescati nel passato.
“Madeleine, confettino mio, mia nuvoletta, mia colombella!”
“Berthe, mia fata buona, mio angelo, mia aurora boreale!”
“Avete riconosciuto la mia cioccolata!”
“Nessuno la fa come voi, nessuno ci mette la cannella!”
“E vi siete ricordata di me!”
“Chi mi è stata più vicina di voi quando ero piccina?”
Stravolto dall’epilogo inaspettato, non mi rimase che restare in disparte e assistere a quel fiume di ricordi che si snodava fra le due, a tratti gaio, a tratti commosso. Il muro nero si era dunque infranto? E quale pietosa divinità aveva posto Berthe, la mia decennale governante bretone, al centro di quella straordinaria guarigione? Forse il Caso, il più bizzarro di tutti gli dèi.

Nei giorni seguenti, la mia paziente compì rapidi e risolutivi progressi. Berthe la seguì amorevolmente nel percorso di riavvicinamento alla famiglia e i risultati non si fecero attendere.
Allo scadere del tempo di lutto, presentai a Madeleine la mia proposta di matrimonio ed essa accettò con cuore gonfio d’amore. Lo stesso amore che mi dedica da ormai quarant’anni e che si è manifestato nella nascita dei nostri tre figli e recentemente in quella dei nostri primi nipoti.
Berthe è rimasta sempre con noi, e quando la sua tenace salute bretone ha cominciato a venir meno l’abbiamo tenuta come una di famiglia, accudendola con affetto e gratitudine quanto lei aveva accudito tutti noi. Ci ha lasciato l’anno scorso, molto compianta. Negli ultimi tempi, una grave forma di artrite diffusa l’aveva immobilizzata a letto, ed essa, mostrandoci le sue povere mani deformi e ormai inutilizzabili, ci ammoniva con affetto:
“I ricordi non spariscono, tutt’al più si nascondono. I miei, li vedete, sono tutti qui: nelle mie ossa”.

(nell’immagine: Sul balcone, di Berthe Morisot)

E via, partecipiamo a questo eds Nero di Natale della solita stregonessa Donna Camèl, non lasciamoli soli, gli altri. Che sono:
Hombre con Ti prego, non chiamarmi Barbie
Dario con Zebre e savane
Leuconoe con Placida come il fiume
Pendolante
con Natale con soffritto
Kermitilrospo
con Pedalata nera
Fulvia
con Il quadro capovolto – 2a parte
Lillina
con Una vita segnata
Calikanto
con Nero livido
La Donna Camèl
con Se tu mi amassi
Singlemama
con Dissolvenza in nero
Angela
con Chi è di scena
Angela
(ancora) con Taccido 

L’appartamento

L’ultimo cliente era uscito da venti minuti.
Alle diciannove e trenta, Augusto Linassi, libraio in Campo santa Margherita, spense le luci, chiuse il negozio e percorse i pochi metri che lo separavano dall’ambulatorio dell’amico dottor Attilio Cavagnis. Lo faceva almeno due volte la settimana da oltre vent’anni; passare, affacciarsi un momento solo per un saluto, oppure aspettare che terminasse e poi uscire per fare un pezzo di strada insieme, chiacchierando sobriamente.
La sala d’attesa era vuota, e un lieve mormorio segnalava la presenza di un ultimo paziente dietro la porta chiusa. Non ci mise molto.
Attilio lo ricevette serenamente rilassato sulla sua poltrona dietro la scrivania in disordine.
“Finito?”
“Credo”.
Seduti uno di fronte all’altro, si guardavano con vecchi sorrisi virili, assaporando la soddisfazione in cui si stemperava la stanchezza di fine giornata.
“Allora”.
“Allora – ripeté Augusto. Era un vezzo quello di rimpallarsi l’esordio della conversazione, la quale avrebbe dovuto svolgersi senza fretta, su un registro disteso. Potevano farsi compagnia per interi minuti così, senza parlare, senza affrontare alcun tema, solo lasciandosi scorrere addosso quei preziosi istanti di serenità e reciproca confidenza.
“Tanto lavoro? – chiese il medico.
“Non mi lamento. C’è ancora chi regala libri a Natale, per fortuna. Meno di una volta, ma c’è”.
“Adesso va il tecnologico – notò Cavagnis.
“E tu, qua? Arrivata l’influenza?”
“Il solito, i malanni di stagione, i certificati di malattia, sai com’è”.
“Guarda che io non mi vaccino, sai. Il vaccino è per i vecchi, io mica sono vecchio. Ho la tua età!”
Risero affettuosamente.
“Casomai dovrei vaccinarmi io, che passo tanto tempo in mezzo a gente piena di bacilli”.
Poi, come ricordando improvvisamente la sua missione, chiese:
“E Liliana come sta? Tanto che non passa a misurarsi la pressione”.
“Liliana sta da dio, figuriamoci. Sempre in giro a conferenze, corsi di yoga. La pressione se la fa vedere dal farmacista, dice. Costa 3 euro”.
Attilio si alzò prendendo l’apparecchio:
“Vieni qua che a te la misuro io, e gratis”.
“Tre euro! – ribadì Augusto, scoprendo il braccio.
“E vai sempre a remare? – chiese Attilio dopo la misurazione.
“Come no, come no. E do dei punti ai giovini, anche”.
“Ci credo, ci credo. Sei sempre stato uno sportivo”.
“Com’era la pressione?”
“A posto”.
Tornarono a sedere l’uno di fronte all’altro.
“Cosa fai a Natale? Perché non vieni da noi? Liliana mi ha raccomandato di invitarti”.
“Vado a Padova da mia sorella, ma ti ringrazio lo stesso”.
“Attilio, da quant’è che siamo amici?”
Attilio Cavagnis la conosceva, quell’ouverture. Saltava fuori nei momenti di maggiore abbandono, di più intima confidenza, e preludeva a un piccolo viaggio nella commozione della memoria.
“Dall’asilo, Augusto. Dall’asilo”.
“Suor Geromina, te la ricordi?”
“Eccome se me la ricordo. Cicciottella ma con manine piccolissime. Anche i piedi. Piedini minuscoli. E il resto, tutto cicciottello”.
“Ci soffiava il naso fino a farci uscire il cervello”.
“E il liceo, te lo ricordi?”
Domande che non necessitavano di risposte.
“Tu sei l’unico con cui non abbia fatto a pugni al liceo. Perché portavi gli occhiali” – rievocò Augusto, e aggiunse, togliendoli per pulirli col fazzoletto:
“E adesso li porto anch’io”.
Tacquero per qualche istante, poi fu il medico a prendere in mano la situazione:
“Ma tu volevi dirmi qualche cosa, vero?”
I loro sguardi, da dietro le rispettive lenti, si fecero complici. Il libraio assunse un’espressione da cospiratore e si sporse sulla scrivania per dare un tono più teatrale alla sua rivelazione:
“L’appartamento. Quello sopra il negozio. Due piani luminosi più soffitta abitabile – qui una pausa strategica, per poi subito dopo raddrizzarsi e annunciare trionfante: “L’hanno messo in vendita”.
La notizia era delle più felici.
“Ma non mi dire!”
“Il vecchio è morto l’anno scorso, e ora il figlio, l’australiano, sì, quello emigrato in Australia, si è deciso a venderlo. Sì sì. Già”.
“E tu hai fatto un’offerta, immagino?”
“Fatta. E accettata. Lunedì firmiamo”.
Il dottore rimase senza fiato:
“Bel colpo, vecchio mio! Erano anni che gli stavi dietro!”
“Anni. Anni che me lo sognavo anche di notte. Casa e bottega, capisci.  Così il giorno che mi stufo di lavorare affido il negozio a qualcuno e mi limito a scendere qualche ora ogni tanto, per vedere se tutto va come dico io”.
“Son contento, son proprio contento”.
“Sai, mia moglie è figlia unica e ha ereditato bene. Io ho messo da parte un po’ di soldi, e poi ho il mio appartamento ai Frari, che se la banca mi fa un prestito posso venderlo bene, con calma”.
“Ottimo, ottimo. Passerete un bel Natale. Son proprio contento – ripeté Attilio, sul viso un largo sorriso.
Poi, stringendosi un po’ nelle spalle come per timidezza, si decise a mettere in tavola la propria, di notizia.
“Anch’io, Augusto, ho una cosa da dirti. Niente di che, in confronto alla storia dell’appartamento, però nel suo piccolo per me è importante”.
Augusto lo incalzò con aria canagliesca:
“Dai, spara!”
Attilio Cavagnis abbassò gli occhi, congiungendo le mani sul piano della scrivania in atteggiamento imbarazzato, ma felice.
“Un editore mi ha offerto un contratto. Il mio libro uscirà tra poco”.
Augusto saltò su dalla sedia alzando le braccia giubilante:
“Alleluia, era ora! Il tuo romanzo storico, quello sulla peste a Venezia! Grande lavoro, grande affresco, io l’ho letto in bozza e posso ben dirlo!”
“Allora, lo venderai nel tuo negozio? – chiese Attilio ridendo.
“Gli farò una vetrina apposta, scherziamo. Ti organizzerò una presentazione al pubblico e farò venire mezza città. Ah, lascia fare a me che conosco tutti!”
“Vedremo, vedremo… – si schermì il medico, notoriamente schivo.
“Qua ci sta uno spritz! – tuonò Augusto alzandosi – Alla nostra salute, alla salute di due vecchi veneziani che alla loro non fresca età ancora sono capaci di fargliela vedere!”

Sulla soglia sostarono a infilarsi i guanti osservando benevolmente i passanti con i pacchetti lucenti, le luminarie rosse e oro, le vetrine dei caffè appannate di vapore.
Augusto alzò gli occhi annusando il cielo buio sopra i tetti invisibili.
“Sai cosa ti dico? – annunciò in tono sapiente – C’è aria di neve”.

 nell’immagine, un’opera di Renato Ambrosi

A me mi

A me mi vorrei chiedere scusa per tutte quelle cose che avevo promesso e non ho fatto.
Perché volevo danzare Lo Schiaccianoci, correre i 100 metri alle Olimpiadi, scavare nella valle del Serengeti, fare il cardiochirurgo, diplomarmi al Conservatorio in pianoforte e direzione d’orchestra, imbarcarmi come mozzo sulla Vespucci, soprattutto diventare una scrittrice, e invece non ho proprio avuto tempo.
A me mi vorrei però anche ringraziare per la pazienza, a volte il fatalismo, più spesso la tenacia e facciamo anche per l’impulsività che qualche volta mi ha pagato e per il resto mi ha dannato, ma pure insegnato. E per l’ottimismo e per il realismo, che insieme formano il pragmatismo che io dico che è la cosa più utile che ho. Senza dimenticare la voglia di fare e un tot di immaginazione che bene o male dà un senso a tante cose che ne avrebbero poco o niente.
A me mi vorrei suggerire di prendermela più comoda, di volermi un po’ più di bene, di dedicarmi un po’ più di tempo tipo per oziare con un gatto addosso o farmi una lunga manicure o cazzeggiare su word come adesso, senza scopo né di lucro né di altro. Soprattutto quando è novembre e piove. E di fissare quanto prima un alberghetto da poco ma affacciato sulla spiaggia per il prossimo giugno senza provare il minimo senso di colpa, che è poi – il senso di colpa – la rogna più brutta di cui soffro e che è ora di mandarla al diavolo una volta per tutte (sapendo come si fa, se qualcuno me lo insegna).
E infine a me mi darei una pacca sulla spalla (la sinistra, ché la destra è fottuta), vecchia mia che cadi eppure sei sempre in piedi, che di cose ne hai fatte comunque, di buone e di cattive, tante inutili, qualcuna speciale, come le mie figlie, come l’inventario della biblioteca e altre due o tre che adesso non ricordo. Avanti così, che ormai di cambiare più di tanto non c’è rimasto granché di tempo, pure se la voglia ci sarebbe.

E smettila di stirare anche gli stracci della polvere.

E curati quella spalla.

Hai capito? Ci sei? Mi ascolti?

A me non mi ascolta mai nessuno.

*    *    *

campagna (anomala) di sostegno a A TE TI, di Sonupueti, votabile qua
(votabile nel senso DA VOTARE ASSOLUTAMENTE E SUBITO ! ! !)

aderiscono alla campagna:
A noi ci di La Donna Camèl
A egli gli di Hombre
A voi vi di Lillina 

La pappa!

Questa è vera quant’è vero Iddio, tramandata negli annali della mia famiglia come una delle pagine più pittoresche e significative della prima infanzia di me medesima, quella me medesima che, nata sotto il segno dell’Acquario, già in tenerissima età manifestava intraprendenza, talento artistico e doti creative.
Era una bella estate sul finire, al Lido passava la Mostra del Cinema (fu l’anno di Rashomon, per illustrare il livello) e sulla spiaggia attricette e parvenus si facevano immortalare dai fotografi, mentre nelle serate danzanti dei grandi alberghi impazzavano le musiche elettrizzanti di Perez Prado.
Io avevo mesi pochi ma sufficienti a gattonare e a progettare guai, ragion per cui nei momenti di maggiore indaffaramento mia madre mi neutralizzava deponendomi all’interno di un box con sbarre di legno. Mi ci trovavo, contro ogni mia volontà, anche il mattino di quella famosa telefonata. Il telefono lo avevamo da poco, e infatti a poco serviva. Lo avevamo messo più che altro in caso si dovesse chiamare il pediatra, perché quasi nessuno dei nostri parenti e conoscenti lo aveva. La nonna, per esempio, che abitava a Venezia, non lo aveva. Quella santa donna, per avere notizie della sua prima nipotina, si alzava all’alba, puliva casa, preparava il pranzo per il nonno, prendeva il vaporetto e in un’oretta, pian pianino, fermata dopo fermata, sbarcava al Lido e si presentava a casa nostra con la sua sporta piena di piccoli doni umili.
Una che aveva invece il telefono era la più cara amica della mamma, e con lei stava parlando quella mattina di bel sole, finestre spalancate e Tico Tico dalle radio di tutte le case vicine.
Io nel box mi annoiavo. I giocattoli li avevo già gettati tutti sul pavimento, avevo tirato anche un po’ di strilli nervosi e tentato inutilmente di scardinare le sbarre, ma quelle due ne avevano, da raccontarsi. Avessi avuto una sorellina, un fratellino, un gatto. Ma vennero tutti dopo, col tempo..
A proposito di gatti, lo sai cosa fa un gatto quando non sa più come attirare la tua attenzione? Ti fa gli scherzoni. Ti rubacchia la penna, ti fa cadere un soprammobile, ti graffia il divano, finché non gli dai retta.
Io feci la cacca.
E dato che avevo mangiato la pappa di carote, feci la cacca di pappa di carote, per colore e consistenza perfettamente identica, giusto un po’ differente quanto a odore. La feci, l’osservai e mi dissi che com’era entrata così era uscita, tale e quale. Arancione e papposa. E siccome non mi era nemmeno piaciuta, l’idea di averla trasformata in cacca fu un po’ una vendetta.
Solo che non è tutto qua. Una marmocchia di pochi mesi è perfettamente autorizzata a fare la cacca nel box, non c’è nulla di cui rimproverarla, soprattutto se la mamma è temporaneamente distratta altrove.
Bisognava aggiungerci il tocco speciale, quello che avrebbe trasformato un evento naturale in un monito degno di essere ricordato.
Così, mentre la mamma continuava a parlottare al telefono, io con le manine sante cominciai a raccogliere la santa cacchina papposa e a spalmarla coscienziosamente dappertutto, sulle odiate sbarre, sul pavimento di cartone, sulle gambette nude e, con maggiore abbondanza, sul bel musino lentigginoso che mi ritrovavo e che tutti volevano sempre sbaciucchiarmi. Tracciai pennellate spontanee secondo una tecnica di mia invenzione (successivamente copiata da certi pittori astratti) ottenendo interessanti effetti cromatici e soprattutto materici, e avrei continuato a perfezionare la mia performance se ad un certo punto non mi fosse venuta a mancare la materia prima.
Finita la telefonata, la mamma mi trovò così, placida e orgogliosa della sontuosa opera pittorica che mi circondava e di cui facevo parte. Un quadro vivente, e olezzante. Mi sentivo come mi sarei sentita tante altre volte nella mia vita, in futuro: appagata per un atto artistico originale, come quando metto la parola fine a un racconto perché ormai quello che avevo dentro è uscito tutto (sì, ammetto che il paragone è imbarazzante, potete astenervi da battutacce ovvie).
Qui il biografo dice solo che a mia mamma cascarono le braccia, sorvolando con eleganza sulla scena isterica che ne seguì, e che sfociò in una nuova telefonata di sfogo, stavolta a mio padre, il quale non la prese tanto bene e minacciò di sciogliere il contratto con la Telve. Poi però non lo fece. E neppure mia madre mi fece più la pappa di carote.

*    *    *

Scherzosamente scritto per l’Eds arancione del grande cocomero, bandito dalla Donna Camèl che ormai tutti ben conoscono…
Leggi gli altri:
Matilda di Dario
Condomini di La Donna Camèl
PC gate di Lillina
Giuseppe di Pendolante
Essere Johann Cruijff di Hombre
La torta di amarene
di Calikanto 
Notte insonne con gatti rosso arancio di Angela
Jamaica discromatica di Cielo
In pirlo veritas di Singlemama
Tequila sunrise di Leuconoe
La stessa tonalità di Marco C.
Il quadro capovolto (1a parte) di Fulvia
Pronto soccorso di La Donna Camèl
Maracaibo di Lillina 

Latte o limone?

Anni ’60, le festicciole dei ginnasiali si tengono il sabato pomeriggio, in casa, tassativamente fra le 16 e le 19.
Il gruppetto della quinta A si è dato appuntamento sotto i portici della scuola per andare tutti insieme a casa di Isabella, quella nuova, quella ricca, quella con l’autista che la porta e la riprende, quella tutta perbene ma ancora tanto spaesata. I ragazzi per l’occasione hanno raccolto i soldi e acquistato un 33 giri di Toquiño e Chico Buarque de Hollanda, una cosa raffinata e un po’ esotica insomma, non le solite canzonette.
La casa è in cima a una stradina in salita; quando arrivano davanti al cancello sono già spettinati. Il vialetto taglia un giardino pieno di alberi un po’ trascurati, un tappeto di foglie secche ocra, rosse e arancioni che il vento perenne gira di qua e di là, e in particolare attorciglia alle caviglie.
Sulla soglia, ad attenderli, la bella emozionata Isabella con un abito color pesca matura tutto a sbuffi e merletti, affiancata da cameriera con crestina pronta a ricevere giacche e cappotti, e non accetterà rifiuti. Sulle sue braccia si ammucchiano un po’ vergognosi giubbotti di tweed grezzo e sciarpe rosse, fucsia o dell’Inter. Sul lindo pavimento dell’ingresso, foglie fradice entrano insieme alle scarpe non proprio lucide.
Si accomodano in un salotto un po’ troppo formale per i loro gusti, tutto cuscini di velluto color zabaione e nappine alle tende, più un cane quasi arancione, un cocker dall’espressione scostante che al loro ingresso, invece di fare le feste, abbandona il tappeto e la compagnia. In sottofondo, ballabili americani degli anni ’40 e chansonniers francesi, mentre Toquiño e Chico Buarque de Hollanda sono rimasti su un tavolino di ninnoli ancora avvolti nella carta da regalo. E pensare che con quel disco erano convinti di fare bella figura.
Non sanno cosa dire, di cosa parlare. Gonfiano i loro sorrisi per simulare piacere, eccitazione e divertimento, ma il ghiaccio è duro da rompere. Isabella doveva averlo previsto e infatti ecco saltar fuori una scatola piena di fotografie. Si siedono in circolo intorno a lei e si dispongono pazientemente a passarsele una dopo l’altra: Isabella da piccola, Isabella alla prima Comunione, Isabella a cavallo, Isabella in Svizzera sugli sci, Isabella e il cucciolo, Isabella a Parigi, a Londra, davanti alla Sagrada Familia, sotto il Corcovado.
“Se volete, vi mostro la mia camera – propone speranzosa al termine.
In processione, consapevoli dei loro maglioncini fatti dalla mamma, delle calzamaglie di filanca, dei pantaloni di tutti i giorni senza piega, mettono il naso dentro la stanza crema e rosa della bella Isabella, con fotografie di cavalli dappertutto, in cornici d’argento.
I maschi sono sempre più in imbarazzo, le femmine occhieggiano l’arredamento e i particolari sofisticati, che ricordano tanto i rotocalchi delle mamme o le scene di certi film americani. E mentre si chiedono cosa ci faccia una loro coetanea così snob in una città schietta di mare, vento e pietra carsica come quella dove sono nati loro, ecco che arriva l’ora del tè.
“Latte o limone?”
Perché è questo il rinfresco: tè e pasticcini, serviti in modo raffinato e scomodissimo dalla cameriera del rotocalco insieme a salviettine così candide e preziose che nessuno si azzarderà a usare. Qualche stomaco quindicenne brontola, coperto inutilmente da colpetti di tosse finta.
Nel frattempo, si sono fatte le sei. Ospite e ospiti hanno esaurito le loro risorse di reciproco intrattenimento, ma non si sa come darci un taglio. Inaspettatamente, è Adria a risolvere, Adria, la capitana della squadra di pallavolo, quella con più note sul registro, quella capace di fare a botte con i maschi. Con incredibile faccia tosta arrossisce e si tormenta le mani, emettendo una vocina indifesa:
“Scusate, ma si sta facendo tardi e io ho paura del buio…”
Ci mettono un attimo a capire, e poi tutti ad assecondarla. Le altre femmine di colpo sono tutte in agitazione, i maschi le calmano offrendosi di accompagnarle a casa. Si congedano un po’ frettolosamente, con goffe strette di mano e assicurando che è stato tutto bellissimo.
“Grazie per essere venuto, grazie per essere venuta – dice meccanicamente Isabella a tutti, uno per uno. La cameriera distribuisce pastrani e sciarpe, il portone di casa si apre e via, sono liberi.
Ma Adria non ha finito. Lungo il vialetto ha scorto un albero di cachi, già così maturi e arancioni da risplendere come lanterne accese nell’imbrunire della sera. Cosa le salta in mente, come le viene in mente il tocco finale, la firma su quel pomeriggio insipido… si avvicina alle fronde più basse e, con uno stecco raccolto tra le foglie, incide occhi, naso e bocca sulla buccia tesa dei frutti. Gli altri la imitano, ridacchiando (“Tu, Roby, controlla che non ci guardino da qualche finestra”), e in breve tutti i cachi raggiungibili vengono sottoposti al trattamento.
E ora scappano, fuori dal triste cancello, giù per la discesa, correndo a zig zag, liberando risate sguaiate, lanciando in aria sciarpe e berretti.
“Chissà domani che colpo quando vedono i cachi che ridono!”
“Io ho fameee! – grida uno.
“Tutti in Città Vecchia! – grida un altro.
In Città vecchia, dalla Siora Rosa, in quella bettola fumosa dove per pochi soldi ti fanno panini enormi farciti di prosciutto tagliato grosso, senape e una spalmata di crauti saporitissimi da farti venire le lacrime agli occhi.
“De bever cossa volé, muli? – chiede burbera Siora Rosa.
“Aranciata, aranciata, aranciata!”

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Scherzosamente scritto per l’Eds arancione del grande cocomero, bandito dalla Donna Camèl che ormai tutti ben conoscono…
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Notte insonne con gatti rosso arancio di Angela
Jamaica discromatica di Cielo 
In pirlo veritas di Singlemama
Tequila sunrise di Leuconoe 
La stessa tonalità di Marco C.
Il quadro capovolto (1a parte) di Fulvia 
Pronto soccorso di La Donna Camèl
Maracaibo di Lillina 

L’albatro – 4 di 4

A volte fui malato. Un’estate, la dissenteria. Sudavo freddo e tremavo, e il mio corpo si svuotava di continuo lasciandomi stremato. In più occasioni mi procurai ferite brutte, talora slabbrate, con gli attrezzi da lavoro. Mi capitò di dover stare inattivo e a riposo sulla branda, alternando la coperta contro i brividi e la fiasca dell’acqua per la febbre che mi prosciugava. Quando non mi vedevano affacciarmi, cominciavano a preoccuparsi, così predisposi un cartello ed ebbi cura di appenderlo al parapetto non appena avvertivo segni di malattia: “Tutto bene, sono solo molto occupato”. Mentivo, un po’ per orgoglio e un po’ per amore.
Una mattina, però, più o meno un anno fa, al risveglio dopo una notte d’inferno in cui ero stato più che altro incosciente a causa di una febbre polmonare, feci una scoperta che mi fece singhiozzare di tenerezza: sulla panchetta accanto al mio letto madido qualcuno aveva deposto un bottiglino di sciroppo e un biglietto: 3 cucchiai al giorno per abbassare la febbre.
Qualcuno, Maxim o il dottore o entrambi, erano saliti a bordo furtivamente per portarmi soccorso, infrangendo le regole e i vincoli finora rispettati da tutti.
Ed è successo ancora, più di recente, e stavolta erano compresse di aspirina o asciugamani puliti, brodo di carne, disinfettanti, un cuscino di piuma d’oca, mutandoni di lana ruvida, liquore d’erbe. Libri, tanti libri. Contro l’ignoranza e l’isolamento.
Approfittano delle mie infermità, dei miei stati di sopore, e si curano di me più di quanto si curino della Legge. Non si fanno sentire né vedere, non si lasciano ringraziare. Di tutto questo non si parla, non si deve parlare. Succede, lo fanno, e io lo accetto in silenzio. Un patto più forte di tutti i patti. Dio lo chiamerebbe Misericordia.

Il resto è nel diario, un quaderno ormai slegato, con i fogli che si staccano e cambiano posto, invertendo e confondendo la cronologia di questi dieci anni, forse quindici.

Aprile
Da tre giorni non vedo Maxim. Il secondo giorno un pescatore mi ha detto che sua moglie sta male. Il terzo giorno che è morta. Non sapevo avesse moglie. Non sapevo fosse malata. Vorrei solo essere con lui. 

Settembre
Sento dire che la guerra è finita, o sta finendo. Di più non si sa, ce lo racconteranno i reduci se e quando torneranno. Questa nave non potrà mai più navigare, questo è certo. Un po’ per volta ho utilizzato tutti i materiali sfruttabili, tramezzi di legno e piastre di ferro, lucerne, pezzi di ricambio, barili, olio, pece, cordami, vernici, manopole di ottone. L’ho mangiata viva. 

Agosto
Ho letto un libro che parla di me. Si intitola Robinson Crusoe. 

Dicembre
Il capo dei gendarmi mi ha regalato una bottiglia per Natale e mi ha messo in guardia. Dice che a guerra finita non finiranno automaticamente anche i miei guai, perché dovrò rispondere del reato di diserzione, clandestinità e furto di beni della Compagnia armatrice. Dice che devo essere paziente e aspettare ancora un po’ finché non si chiariscano le cose. Io invece penso che dopo tanto tempo si saranno dimenticati sia di me che della nave, che ci avranno creduti naufragati e buonanotte. 

Giugno
Ho chiesto consiglio a Maxim. Gli ho detto che vorrei scrivere una lettera a qualcuno perché mi aiuti a risolvere la mia situazione. Non so, un giornale, un ministro, un presidente di qualcosa. La Croce Rossa, eventualmente. Mi ha risposto che il servizio postale ancora non è ripreso del tutto, ma che intanto, se voglio, posso buttar giù qualche brutta copia. Lui me le correggerebbe volentieri. 

Luglio
A volte mi prende il delirio  che mi stiano ingannando tutti. Fin dall’inizio. Mi hanno convinto a restare qua, libero purché rimanga a bordo, e anche adesso che sembra che la guerra sia finita continuano a esortarmi a non fidarmi, a non scendere, ad avere pazienza. Io non lo so più cosa sto aspettando, a cosa serva avere ancora pazienza. Mi chiedo per quale diabolico motivo non vogliano lasciarmi andare. E subito dopo mi do dell’idiota per averlo anche solo pensato. 

Luglio
E se chiedessi asilo politico? 

Luglio
Ma a chi? 

Novembre
Tosse. 

Novembre
La nave sta andando in malora. Ruggine. Cattivo odore. Non ce la faccio, non ho più voglia. Mi metto sulla branda e faccio buio nella testa. Posso passare interi giorni così. Nella nebbia. 

Novembre
Ancora tosse, schiena indolenzita, testa che mi scoppia. Fa notte troppo presto. A volte sogno i topi, allora mi decido a ispezionare dappertutto, ma per ora nessuna traccia. Se arrivassero anche loro, non 

Febbraio
Freddo secco, rigido. Tutto bianco e d’alabastro. La tosse va meglio. Appetito, niente.

 Febbraio
Quanto mi manca un lungo bagno caldo, quanto. 

Marzo
Rondini!

Uno di questi giorni verranno festanti ad annunciarmi:
“Tutto a posto, è finita, sei libero, puoi scendere a terra!”
E per quel giorno io vorrei essere pronto, aver domato questa tosse, rimpolpato un po’ queste gambe scheletriche, raddrizzato questa schiena ingobbita, cicatrizzato tagli ed escoriazioni, ripassato come si fa a ridere, e preparare per loro una grande festa, farli salire, mostrare loro con orgoglio questo relitto generoso ripulito e lucente, e brindare, consegnare a ognuno piccoli doni (metterli in quelle mani che non ho mai toccato), ballare le loro canzoni suonate con la chitarra e la fisarmonica, girare girare girare fino a rischiare di perdere i sensi, e alla fine abbracciarli tutti e chiedere loro “Tenetemi con voi”.

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L’albatro – 3 di 4

Certe albe verde-azzurre, certe nottate di stelle estive passate in coperta un po’ dormendo e un po’ piangendo, certi cigolii di gomene sfilacciate, cullanti o stridenti a seconda della marea, gli odori dell’acqua stagnante e del ferro riscaldato dal sole, di vecchio combustibile e di alghe fresche al mattino. Le bitte di pietra, i gabbiani di cristallo.
Le case stinte con imposte da bambole, i tetti violacei dimore di cicogne; il fumo dei focolari in inverno, qualche spruzzo di neve, le ventate che scendono impetuose dalle montagne lontane e ruggendo si allargano verso il mare aperto lasciando turbini di foglie e polvere e stracci  e un cielo più vasto e abbacinante. Le lunghe sere di primavera, un muggito lontano dalle stalle, il canto semplice e contadino dei secchi di zinco. Il timbro antico di zoccoli di legno sui selciati sconnessi, le campane della domenica e dei morti, i bambini con lenze improvvisate che imparano a pescare dal molo, a piedi scalzi.
Un paese mai veduto eppure imparato a memoria.

Quando morì il vecchio Elijah, ne ereditai il mestiere e tutti gli arnesi. Mi sistemai un piccolo laboratorio in una cabina con luce e misi in piedi l’unica attività possibile: l’aggiustatutto. Mi facevo mandare su nel cesto o con corde robuste sedie spagliate, madie traballanti, mastelli sfondati, ma anche casseruole da stagnare, orologi incagliati o giocattoli di legno da riparare. Tutti lo impararono presto: se c’è qualcosa di rotto, portatelo a Viktor, sa fare un po’ di tutto e ha tanto tempo. Mi sono mantenuto così in questi anni, in una scambievole assistenza. Dalla mia prigionia a cielo aperto, ho sopperito con le mie alle mani degli uomini – mariti, padri – lontani in guerra.
“Maxim, cosa mi dici della guerra?
“Eh, la guerra. Va e viene”.
La guerra non si vide mai, ma si sapeva che c’era anche quando pareva tacere. Si spegneva qua per riaccendersi a tradimento un po’ più in là, e non si capiva mai chi stesse vincendo.
“Maxim, ma chi è che vince?”
“Non si sa. Devono ancora deciderlo”.
I bambini continuavano ad andare a scuola e a venire sotto la murata a fare i compiti.
A volte sotto la murata venivano anche gruppetti di ragazze, la domenica pomeriggio. Passeggiavano chiacchierando nell’unico giorno di festa, con i loro vestiti rilucidati e rammendati, le gonne coi ricami tradizionali che nascondevano le calze grosse, sui capelli larghi scialli a fiorami con frange di seta. Mi facevano sorrisi e cenni di saluto, ma erano vergognose perché ero un uomo e passavano oltre senza fermarsi. Forse però, allontanandosi ridacchiando a braccetto, fra loro parlavano di me.
Olga no, perché era sordomuta, e con lei usavano il linguaggio dei segni. E io, di Olga mi innamorai. Di quegli amori necessari ma solo sognati, un’invenzione della solitudine e dell’incertezza. Era un volto da riconoscere e cui pensare come fosse cosa mia pur sapendo che non lo era, come i giocattoli costosi nelle vetrine a Natale. Era una buonanotte dolce e malinconica quando scendeva il buio e mi rintanavo come un topo nell’unico letto che mi era concesso.
Più avanti si sposò, con un ragazzo sordomuto come lei, l’unico rimasto in paese perché scartato dall’esercito per la sua menomazione. Ed ebbero anche dei bimbi, che salutavo dal parapetto quando li conducevano a fare i primi passi lungo il molo. Non ero geloso di quella loro felicità, al contrario provavo una gioia dolente e matura nella mia rinuncia, e mi sentivo quasi un saggio custode di quelle giovani vite.

(continua)

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L’albatro – 2 di 4

Maxim mi insegnò la lingua. Una donna con tanti figli piccoli accettò di lavarmi e rammendarmi i panni in cambio di coperte, e le diedi tutte quelle dell’equipaggio, infeltrite. Ricambiavo l’assistenza alimentare come potevo, calando dalla murata ciocchi di legno presi dalla stiva carica o piccoli oggetti di uso comune trovati in cambusa, donando pastrani e cerate lasciati dai marinai la notte della fuga precipitosa. Trascorremmo l’inverno combattendo il freddo ciascuno come poteva: una parte del legname scaldò le casupole più povere del paese, con poco mi arrangiai anche io e ne rimase abbastanza per affrontare almeno un altro anno. A qualche vecchio pescatore donai stivali di gomma e acciarini, e ne fui ripagato addirittura con del vino. Quel giorno mi dissero che era Natale, e che tutti dovevano festeggiare, e oltre al vino mi portarono una ciambella con la glassa di quelle che mangiavano loro. La sorella del prete mi mandò un maglione pesante fatto da lei, ma non si fece vedere perché era donna pia e timidissima.
Tutti questi traffici, i doni reciproci, entravano e uscivano da bordo per un’unica via: attraverso un cesto appeso a un pezzo di fune e calato dalla murata, perché né io né loro mai e poi mai contravvenimmo alla regola del primo giorno. Eravamo due Paesi sovrani e confinanti, con la sbarra abbassata fra di noi. Questo diceva la Legge, e noi ci limitammo a passarci i nostri scambi attraverso il filo spinato virtuale che ci teneva divisi. Per dire le cose come stanno, le nostre mani non si toccarono mai.

Finiva l’inverno e io cominciavo a smaniare. La mia prigione mi stava stretta quando annusavo gli odori della terraferma e la brezza mi portava profumo di erba. Mi tenevo attivo ripulendo parti della nave che nessuno aveva mai curato, liberandomi di ciarpame che cominciava a puzzare di stantio, inventariando quanto di utile restava a bordo e che ormai consideravo tutto il mio avere. Ma non bastava a farmi dormire, e le notti senza altra luce che quella della luna, quando c’era, erano sempre più lunghe e febbrili.
Scrissi un biglietto per Maxim. Lo scrissi perché sapevo che certe cose non avrei mai saputo dirle a voce, con quel nodo in gola che mi soffocava. Glielo calai nel cesto senza una parola, e poi rientrai subito sotto coperta lasciandolo lì sul molo con la faccia accigliata e quel ridicolo pezzo di carta in mano.
Mi chiamò forte, due, tre, quattro volte, finché mi decisi a tornare fuori. Mi sentivo malissimo, mi rendevo conto di essere sul punto di perdere ogni dignità, tutto il mio coraggio, qualunque motivo di vivere.
Avevo scritto:
Maxim ti supplico, fammi fuggire. Una di queste notti io scappo, e tu non cercarmi. Scusa ma non ce la faccio più. Il tuo povero amico Viktor“.
Maxim aveva un’espressione severa, durissima. Agitò il foglio e gridò:
“Cos’è questa idiozia?”
Poi fece una cosa stupefacente: a passi rabbiosi raggiunse l’estremità del molo, scardinò il capanno dei pescatori e ne estrasse una scaletta di legno, che si trascinò dietro col viso paonazzo, e la appoggiò alla fiancata.
“No, cosa fai? – urlai io agitando le braccia.
“Cosa faccio? – ruggì mentre già saliva i primi pioli – Adesso vengo su lì da te e ti do un pugno in mezzo al naso, ecco cosa faccio!”
Era serissimo, deciso e furibondo, lo avrebbe fatto senz’altro, e io ero troppo inerme per reagire.
Non fuggii. Né quella volta né mai.

L’indomani mi sentivo convalescente, ma accadde qualcosa che mi fece guarire del tutto.
Maxim si presentò sul molo nel primo pomeriggio, stavolta seguito da cinque o sei dei suoi scolari: ragazzetti goffi di famiglie povere, con le guance rosse e i piedi irrequieti.
“Ti dispiace – mi chiese tranquillamente, come se il giorno prima non fosse successo nulla – ti dispiace se mi metto qui a fare un po’ di doposcuola a questi piccoli asini?”
Si era portato uno sgabellino, e i discepoli si sedettero per terra come gli indiani, aprendo sulle gambe i loro quadernetti ciancicati. Io assistetti a quell’ora di doposcuola con la commozione e la gratitudine di un figliol prodigo, e imparai anche qualcosa.
Quella notte fu l’ultima inutilmente insonne: la passai a cercare i pezzi di legno adatti e a inchiodarli col martello fino a costruire seggiolini per tutti, e una sedia più grande per il maestro. Alle due del pomeriggio, quando tornarono, li calai uno per uno con la corda e i ragazzi fecero un baccano da non credere. Maxim si pulì gli occhiali con il fazzoletto, o forse gli bruciavano un pochino gli occhi, non so.

(continua)

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L’albatro – 1 di 4

La ruggine sta avanzando tutto intorno, e dentro di me.
I primi tempi la contrastavo con tutte le mie energie; ero giovane, avevo tempo da buttare e rabbia da sfogare, avevo ideali confusi e bisogno di tenermi attivo per non dare di matto. Ogni giorno pulivo, grattavo, lucidavo, fino a farmi sanguinare le mani. Percorrevo la nave da poppa a prua e in tutti i suoi cunicoli, alla caccia dei segni del degrado che sapevo inevitabili. Tenere vivo e sano questo piccolo mercantile che è tutta la mia casa e la mia prigione era un punto d’orgoglio, era lo scopo del mio tempo interminabile e l’unica buona ragione per alzarmi ogni mattina dalla branda. Per anni, per decine e decine di stagioni, contro l’ossidazione, il salso, il marciume, il disfacimento. Con pochi arnesi, alcuni inventati, e con le unghie e la collera che coltivavo per tenere indietro la disperazione.

Attraccammo una notte senza luna, con le luci spente e i motori al minimo, in un porto nemico che non era la nostra reale destinazione. Era però il più vicino da raggiungere quando il marconista ricevette il messaggio dell’entrata in guerra. Eravamo in alto mare, trasportavamo legname, e nei giorni precedenti una burrasca ci aveva rivelato quanto poco fosse affidabile il nostro piccolo cargo. Il capitano forse perdette la testa quando decise di staccare la radio e di prendere terra ovunque fosse, purché il prima possibile.
Nessuno ci udì ormeggiare. Il paese disteso lungo il porticciolo era chiuso nel buio del coprifuoco. Gli uomini dell’equipaggio sgattaiolarono giù dalla passerella e si dileguarono alla spicciolata, ognuno verso una sorte diversa che li portava comunque a sparire nelle tenebre, come topi o ladri, come disertori o prigionieri evasi, inseguiti dal demone della Paura.
Io, clandestino su questa nave, non vidi nulla di tutto questo, ma dal mio nascondiglio dietro una paratia sentivo le voci e i rumori, e il resto lo immaginai e l’alba me lo confermò, quando finalmente riuscii a spostare i cassoni che mi incastravano e ad abbattere la porticina a furia di calci e spallate. Sul molo si era raccolta un po’ di gente, e osservavano la nave straniera arrivata di notte, chiaramente abbandonata.
Ma a poppa alitava appena nell’aria fredda la bandiera di un Paese neutrale (una scelta di comodo che mai come ora si rivelava opportuna), e ciò conferiva alla nave fantasma il privilegio dell’extraterritorialità, rendendola intoccabile con tutto il suo contenuto. Me compreso. Questo me lo spiegò il maestro della scuola, chiamato a fare da interprete perché loro e io parlavamo due lingue diverse.
“Come ti chiami?”
“Viktor!”
Gridavamo, lui dal molo e io dall’alto della murata, non ancora ben consapevole dell’effetto sconcertante che faceva il mio aspetto denutrito, straccione e allucinato.
“Io Maxim. Dove sono gli altri?”
“Scappati”.
“Lo sai dove sei?”
“No. Ma posso immaginare che i nostri due Paesi siano in guerra uno contro l’altro”.
“È così. Perciò ascoltami bene: qui il comandante dei gendarmi dice che se scendi a terra ha il dovere di farti prigioniero. Questo è quello che mi ha ordinato di dirti. Io però aggiungo che se invece resti a bordo nessuno potrà toccarti, perché il cargo è registrato presso un Paese neutrale e quindi è come se tu fossi in un’ambasciata, cioè al riparo. Finché resti lì godi una specie di immunità. Hai capito bene?”
“Sì, ho capito bene.”
“E allora, cosa pensi di fare?”
“Se resto a bordo non mi succederà niente?”
“Non ti succederà niente. Certo, dovrai cavartela da solo, perché nessuno potrà salire… ne hai da mangiare?”
“Provviste? Penso di sì…”
“Acqua? Da scaldarti? Hai una radio?”
“Credo che l’abbiano messa fuori uso prima di lasciare la nave, e anche tutta la strumentazione”.
“Beh, pensaci. Se hai qualcosa da comunicare, fammi chiamare. Ti ricordi come mi chiamo?”
“Maxim”.

Maxim è stato il mio primo amico. Non fosse stato per lui, forse avrei aspettato il buio e avrei tentato di lasciare il mio riparo la notte seguente, buttandomi alla cieca verso i boschi, le montagne, incontro a un ignoto inimmaginabile.
Maxim i primi tempi veniva al molo tutti i giorni a sentire come me la cavavo e a portarmi qualche notizia, anche se ne arrivavano poche. La guerra era cominciata, ma era lontana. Gli unici effetti erano una certa paralisi nei trasporti e un iniziale isolamento, ma in qualche modo la secondarietà del porticciolo e la sua insignificanza strategica lo tenevano fuori dagli eventi bellici. A volte, in quel primo inverno, nelle giornate più limpide si vedevano lampi e colonne di fumo dietro le vette delle montagne, ma lontanissimo. In paese la vita continuava i suoi gesti arcaici, spartiti fra le donne e i vecchi. Gli uomini validi erano stati in gran parte richiamati, e restavano il prete, il medico, i pescatori anziani.
A bordo provviste ne avevo; non grandi cose, le cose che si mangiano sulle navi da trasporto, cose conservate, secche, insapori e monotone. Non mi feci molti scrupoli a servirmene, anche se sentivo la mancanza di cibi freschi.
Dopo i primi giorni, cominciai a pensare al baratto: alla gente che veniva sul molo incuriosita facevo vedere le mie scatolette e a gesti proponevo di scambiarle con altro. Ebbi latte fresco e pane di casa in cambio di lattine di zuppa e di carne. E quando terminai le provviste di bordo, il pane continuò ad arrivare, insieme a qualche ortaggio fresco, qualche quarto di pollo la domenica, e soprattutto fiaschi di acqua pulita, di pozzo. L’acqua non me la fecero mai mancare: si creò presto fra me e il paese un semplice legame di solidarietà, un rapporto di reciproca adozione. Erano persone pacifiche e oneste, risolvevano i loro casi al modo di una volta, col buon senso e con lo spirito della comunità. Non fummo mai in guerra, loro e io. La guerra ci sfiorava senza vederci né interessarsi a noi, dimenticati in quel lembo di terra di nessun valore né importanza, rimasto quasi estraneo al tempo che passava e cambiava sconvolgendo ogni cosa.

(continua)

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