La prassi dello scaricabarile nell’educazione dei figli

I bambini.
Oddio, non sono una che stravede per i bambini, non per quelli degli altri, almeno. Ciascuno straveda per i suoi, voglio dire,  e io trovo un po’ forzate certe manifestazioni di commozione e viscerale amore indiscriminati, soprattutto se rivolte ai bambini pasciuti e maleducati che rappresentano la maggioranza di quelli che allignano oggi. Se mi dite i bambini poveri, maltrattati, affamati, sfruttati o orfani, è un altro discorso; benché anche per loro non sia il caso di stravedere a parole e lacrime quanto di agire in concreto, e io nel mio piccolo l’ho fatto e lo faccio, in base alla profonda convinzione che i figli di nessuno siano, al contrario, figli di tutti.
Ma perché sto parlando di bambini? Ah sì, perché la premessa è che davanti a loro non sono il tipo di donna che si sdilinquisce di default. Sono piuttosto il tipo di donna che li considera altrettante persone, da capire e rispettare come gli adulti seppure mutatis mutandis. E naturalmente da guidare: con fermezza e saggezza, ma senza agitare spettri di uomini neri o di orchi mangiabambini.
I bambini li vedo in biblioteca. Ne vengono tanti ogni giorno, dagli zero ai 13 anni; dopo li colloco nella categoria ragazzi, che meriterebbe considerazioni a parte solo che mi viene il nervoso solo a pensarci. Già, sui 13 anni comincio a non sopportarli proprio, diventano dei marziani, dei trogloditi anzi. Forse perché a quell’età si imbozzolano e stanno lì dentro a maturare per uscirne farfalle verso i 18. E da lì si può ricominciare a ragionarci. Anche se.
In biblioteca, a seconda dell’età, vengono soli o accompagnati. E io è di quelli accompagnati che volevo parlare. Perché non sono loro, ma le mamme. Che i bambini giochino, corrano, facciano casino, tirino fuori i libri e li sparpaglino per terra, li calpestino, li colorino con i pennarelli, stacchino le pagine o ci rovescino sopra la cocacola, vabbè non è un bel vedere però uno dice “sono bambini, non sanno quello che fanno”. Ma io dico anche “sono bambini, non sanno quello che fanno però hanno ben una mamma che dovrebbe saperlo lei”. E invece col cavolo. I piccoli vandali saccheggiano e le madri se ne stanno al cellulare. Questo, fanno, le madri. Se poi la gazzarra raggiunge limiti estremi e accidentalmente disturba anche le loro telefonate, il massimo che fanno è – dopo qualche blando avvertimento – coinvolgere ME ricordando ai frutti dei LORO lombi che “la signora si arrabbia e ci manda via”.
Io mi arrabbio?? Io li mando via?? Ma come vi permettete? Certo che mi verrebbe voglia di spezzargli le braccine o di fare viola il loro paffuto culetto, ma non si illudano che lo farò al loro posto, passando oltretutto per la strega che non sono e rischiando di dissuadere i nostri più piccoli utenti dalla frequentazione della biblioteca. Quello è il tipo di madre cieca e sorda che non ha voglia di scomodarsi, il tipo di madre che non ha le palle per rimproverare, il tipo di madre che non si espone di persona e piuttosto raccomanda ai figli di non fare capricci perché sennò Gesù bambino piange o la bibliotecaria (che ovviamente è meno paziente di Gesù bambino) si arrabbia. Il tipo di madre, probabilmente, che per convincerli a mangiare gli spinaci li minaccia nascondendosi dietro l’Uomo Nero, e che quando obbediscono gli dà lo zuccherino e li porta alle giostre. Educazione per delega o per ricatto. Le nuove frontiere del rapporto genitori/figli. E con questo no, non sto invocando le sberle e gli sculaccioni di un tempo, ma solo quella doverosa fermezza che costituisce la base di un imprinting convincente e ragionato.
Ho appena ammesso, con la massima onestà e trasparenza, di non avere una particolare attitudine a essere paziente con i bambini, ma giuro che ne ho poca o nessuna a spaventarli passando da castigamatti, e ancor meno che ho a togliere le castagne dal fuoco a madri scarsamente idonee. Io non mi presto, e non tanto perché esula dal mio mansionario ma proprio per principio.
Ci pensino loro. Una volta passi, la seconda è già cartellino giallo, alla terza non si appellino a me, ma prendano su armi, bagagli e bambini e li portino fuori, al campetto, a giocare all’aria aperta e a fare quel cazzo che gli pare, alla larga dai nostri poveri libri. Col piffero che ve li educo io, i vostri piccoli mostri.

Hotel du Lac

Il libro che ho presentato ieri sera in biblioteca al pubblico dei circa trenta Lettori Assatanati del Venerdì è dell’inglese Anita Brookner, oggi ottantaquattrenne, una storica e critica dell’arte che ha insegnato a lungo all’università di Cambridge. È però anche una valente scrittrice, più nota nei Paesi anglofoni che in Italia, ed è stata paragonata a nomi del calibro di Henry James, Jane Austen e Virginia Woolf. Con questo romanzo, Hotel du lac, del 1984, ha vinto il massimo premio letterario d’Inghilterra, il Booker Prize, che equivale al nostro Campiello o allo Strega.

L’ho letto per due motivi. Anzitutto mi è stato consigliato da mia sorella (sì, la cito spesso, ma converrete che ha un suo perché), la quale come lettrice è ancora più assatanata di me e poi legge in lingua originale ed è anche una meticolosa conoscitrice di Virginia Woolf, che anche questo ha un suo perché. Il secondo motivo è che il titolo suggerisce una vicenda ambientata in un albergo. L’idea di un albergo mi interessava perché è uno di quei posti, come chessò un condominio, un treno, una sala d’aspetto eccetera, anche solo una banale coda a uno sportello, in cui va e viene un’umanità varia, fatta di sconosciuti di passaggio che magari non hanno motivo di parlarsi ma che portano, ognuno, una propria storia nascosta. Quindi un ambiente che si presta moltissimo per uno studio di caratteri, un ambiente che molti scrittori amano riprodurre perché consente loro di mettere in scena molte storie diverse all’interno di un’unica storia, con un filo conduttore non troppo vincolante, che lascia ampio spazio all’immaginazione e alla riflessione.
La vicenda dunque si svolge in un vecchio e distinto albergo sul lago di Ginevra, dallo stile aristocratico e forse appena appena un po’ decaduto, ma sempre frequentato da persone altolocate in cerca di un soggiorno tranquillo e confortevole. La stagione è l’inizio dell’autunno, quando ormai i villeggianti più giovani e animati sono ripartiti e rimangono solo ospiti di una certa età, ovviamente facoltosi. In questo albergo arriva Edith, scrittrice quasi quarantenne, una figura dimessa, riservata, malinconica, per un soggiorno che potremmo definire coatto: non è una vera vacanza, bensì una specie di esilio temporaneo cui è stata costretta in seguito a uno scandalo di cui è stata al centro, e che verrà rivelato solo intorno alla metà del romanzo. Edith scrive storie romantiche e ha un buon successo; si è scelta uno pseudonimo le cui iniziali sono V, come Virginia, e W, come Woolf. Anche nell’aspetto somiglia alla grande scrittrice, glielo dicono tutti, e questo particolare ha un suo retroscena curioso nella realtà perché la stessa Brookner, come dicevo, è stata paragonata a Virginia Woolf, e devo dire che sono piuttosto d’accordo.
Questa Edith è un’eroina un po’ fuori moda, se vogliamo, di quelle in gonna di tweed e cardigan; una donna che può ormai dirsi quasi una zitella, che non ha avuto molta fortuna con gli uomini, che ha una relazione segreta con un uomo sposato che non lascerà mai sua moglie, che si aspetta dalle amicizie qualcosa di più che parole e gesti convenzionali. Una donna che vive in penombra, abituata più a subire che a essere protagonista. E in questo momento della sua vita si trova, volente o nolente, nella condizione di doversi tenere ancora più in disparte, e di questa quarantena forzata approfitta per tentare di completare il suo ultimo romanzo ma anche di sottoporre ad autocritica la sua esistenza sull’orlo del fallimento.
All’albergo si trova obbligata dalla buona educazione a frequentare gli altri ospiti. I personaggi più importanti e meglio delineati sono tutti femminili, e la loro funzione è principalmente quella di esaltare il confronto con la protagonista perché tutti, in un modo o nell’altro, rappresentano un mondo di ricchezza, superficialità, vanità, camuffate da successo.
C’è una vecchia nobildonna completamente sorda e per nulla socievole, Mme de Bonneuil: una donna anziana, molto piccola, con la faccia simile a quella di un bulldog, e gambe così arcuate che sembrava ondeggiare da una parte e dall’altra nello sforzo di tenersi in piedi.
Un’altra, più giovane, dall’aspetto affascinante, si chiama Monica: una donna alta, di straordinaria magrezza, con la testa stretta e ciondolante di un uccellino. In lei tutto sembrava esagerato: la statura, la lunghezza delle sue straordinarie dita, la voce imperiosa, gli enormi occhi color ostrica dietro le lenti scure degli occhiali.
Ci sono due donne inseparabili, madre e figlia, Iris e Jennifer, che solo da vicino rivelano la loro vera età: quasi ottanta la prima e verso i quaranta la seconda, ma entrambe giocano a fare le sirene, sono belle, ricche, lussuosamente vestite e ingioiellate, sempre al centro dell’attenzione, ostentando la loro familiarità con gli ambienti più raffinati.
All’inizio Edith è in imbarazzo nei confronti di queste donne così diverse da lei, ma poco a poco capisce che ognuna di loro è una maschera. La nobildonna è una vecchia sola, trascurata dal figlio e dalla nuora e isolata dal mondo anche a causa della sua sordità. La bella donna magra che sembra una flessuosa danzatrice nasconde una storia di nevrosi e frustrazioni. Madre e figlia, così incantevoli, sono in realtà due persone arroganti, superficiali e meschine.
Nel cast vi sono anche degli uomini, ma sono delineati meno acutamente e in fondo si somigliano un po’ tutti. L’autrice, e questo secondo me è un suo limite, li ha disegnati secondo lo stereotipo del maschio egoista che non capisce i misteri della sensibilità femminile e che bada prima di tutto alla propria immagine di uomo arrivato e rispettabile.

Il romanzo si basa quasi tutto su questa analisi di caratteri. C’è pochissima azione, a parte l’antefatto dello scandalo che qui non rivelerò per rispetto di chi volesse scoprirlo da solo; viceversa c’è molta atmosfera, ed è questo che me lo ha fatto apprezzare. Ho anche apprezzato il finale, in cui la protagonista sembra aver preso maggiore coscienza di sé e all’ultimo momento riuscirà ad evitare  un altro ennesimo errore.
È una storia in cui l’amore ha il suo peso ma per fortuna non è trattato con eccessivo sentimentalismo, altrimenti non avrei letto fino in fondo. La mano femminile si avverte molto proprio nella capacità analitica e descrittiva e nell’eleganza raffinata dello stile. Un romanzo con un suo fascino, che può fare compagnia senza deprimere, adatto però più a un pubblico femminile.

Arrampicarsi sugli specchi

 

Attività equilibristica assai esercitata quotidianamente in tutti i campi e in moltissime situazioni. Noi italiani, dotati di poco ma indubbiamente di ciarlatana fantasia, ne siamo maestri nel mondo. E a proposito di maestri, mi viene in mente che a scuola, al liceo che ho frequentato a Trieste, nel nostro gergo si usava un’altra immagine: scavare. Nel senso di grattare il fondo del barile contenente quelle quattro misere nozioni che avevamo fatto finta di studiare per tirarne fuori un succo che, ingegnosamente diluito di sostanza e spudoratamente edulcorato da ingegnose fioriture, avesse effetti convincenti sul professore che ci interrogava, o quanto meno lo inducesse a rimandarci al posto per sfinimento con la sufficienza del furbo. È stupefacente come gli insegnanti ci cascassero sempre; i compagni invece avevano un sesto senso per queste operazioni ardite, e si scambiavano ammiccamenti e commenti ammirati (“Che scavo!“).
Quanto sopra per introdurre la spinosa problematica in cui mi dibatto da due giorni nella mia veste di sguattera di biblioteca addetta alla consulenza culturale.
Nel senso.
Arriva una fanciulla prossima all’esame di maturità (per motivi sentimentali mi rifiuto di chiamarlo col suo nuovo nome) e quindi alla ricerca di fonti per la sua tesina, che dovrà avere un indirizzo psicopedagogico. Che francamente immagino a malapena cosa può voler dire, ma magari sono solo idee mie, e anche piuttosto vaghe. Le parole-chiave della sua esposizione (detta anche elaborato) sono: “lo sguardo”, inteso come linguaggio del corpo ma non solo, e “il viaggio”, inteso come tutto ciò che è facile associargli in termini di metafora. Detto viaggio, per motivi a me ancora ignoti, è preferibile sia effettuato “in treno”, e qui lei stessa mi propone le immagini a me carissime delle locomotive e dei treni di Monet, sulle quali e sui quali ricordo di avere scritto fanfaluche personali più di qualche volta, ma è area riservata.
Arriviamo al dunque, perché l’esame si avvicina e urge aiuto per la compilazione della tesina. La studentessa, dotata – guarda il caso – di bellissimi occhi azzurro-acqua che conferiscono al suo sguardo una profondità sognante che da sola basterebbe a scrivere macché una tesina ma un capolavoro della letteratura, mi chiede suggerimenti sotto forma di libri a vasto raggio, dalla psicologia all’etologia alla narrativa all’arte ai reportage di viaggio. E qui mi sto quasi annegando, lo confesso. Il mio principio imperativo secondo il quale la biblioteca deve categoricamente offrire sempre e comunque delle risposte sta vacillando sull’orlo di un vuoto mentale. Ci annaspo da due giorni, e ho rinviato tutto a venerdì (omadonna, cioè domani!) quando la mia protetta tornerà a ritirare i testi cui ho promesso di pensare.
Se mi venisse in mente in qualcosa, però!
Che ne dite di un po’ di Chatwin? Sulle Ande avrà pur viaggiato in treno, e il suo sguardo di poeta e fotografo deve avere spaziato quanto basta per riempire un paio di capitoletti di una tesina di quinta liceo.
E di Cuccette per signora di Anita Nair? Non l’ho letto ma so che si svolge in treno, è una storia di donne eccetera eccetera, con tutti i risvolti introspettivi che è lecito aspettarsi. Poi suppongo che gli occhi scuri delle donne indiane possiedano una profondità sognante almeno pari a quella della mia giovane amica, con in più magari la vibrazione criptica degli sguardi orientali.
E lo sguardo di Monna Lisa, cosa esprime? Detto fra noi, a me dice poco, però è una citazione su cui si può ricamare per pagine e pagine, come del resto hanno sempre fatto gli storici dell’Arte. Con la Gioconda si vince a mani basse. Però col treno che c’entra?
Sicché sono qua che mi lambicco, e stanotte ho fatto sogni incresciosi incentrati proprio sulla biblioteca: perdevo le penne, mi cadevano i fogli, il computer si impallava, restavo chiusa dentro tutta la notte, e il bandolo non si trovava.
Qualcuno sa per caso dove si è cacciato? 

nell’immagine, Edward Hopper: Scompartimento C, carrozza 293 (1938)

Scusi, dov’è il bagno?

Il ruolo istituzionale (ma vorrei definirlo la vocazione) di una biblioteca comunale è principalmente quello di offrire un servizio culturale gratuito. Ben lo sanno – e ben se ne fregano – i nostri amministratori centrali e locali, che hanno addossato pesantemente alle biblioteche il carico dei tagli alla cultura, erodendo poco per volta il badget a disposizione fino a strangolare gran parte delle iniziative essenziali.
La nostra biblioteca, per di più, è una di quelle che offre/offriva/vorrebbe continuare a offrire il ventaglio più ampio e differenziato di servizi e opportunità. Nel circuito di cui fa parte, infatti, è additata come esempio di creatività, attività ed efficienza.
Vediamoli, questi servizi. Uno per uno.

Servizi culturali.
Il nostro posseduto sfiora, a oggi, le 28.000 voci, e settimanalmente – ma in quantità dimezzata rispetto a prima – si arricchisce di nuovi acquisti scelti in base ai criteri più vari in modo da accontentare tutte le necessità dell’utenza. Le novità vengono seguite puntualmente e messe celermente in vetrina, e quando è possibile si accolgono richieste e suggerimenti degli stessi utenti.
Sugli scaffali, i libri sono suddivisi non solo nelle categorie tradizionali della classificazione Dewey, ma anche secondo criteri monotematici che facilitano la libera ricerca dell’utente. Il nostro sito contiene l’elenco di queste sezioni tematiche e le istruzioni per approfittarne.
Siamo all’altezza di consigliare il lettore più incerto e più incontentabile: gli suggeriamo il libro personalizzato ai suoi gusti (anche se spesso ci costa indicargli l’ultimo Faletti) e ci aggiungiamo una invitante sinossi, così, per rendere meglio l’idea. Quando il libro richiesto non è in casa, ci attiviamo per reperirlo presso una delle 30 biblioteche consociate e siamo in grado di metterlo a disposizione dell’utente, grazie a un collegamento bisettimanale, nel giro di uno/sette giorni.
Disponiamo anche di una cineteca in dvd, di diverse enciclopedie cartacee o multimediali, di un archivio riviste e quotidiani, di strumenti per l’integrazione linguistica degli stranieri e di 7 postazioni internet per il pubblico (ogni tanto, è vero, tocca tagliare le manine a qualche furbetto che gira per siti porno).
Nessuno scolaro o studente che acceda alla biblioteca per un aiuto nelle ricerche scolastiche se ne torna a casa a mani vuote. Parola di scout.
La nostra fotocopiatrice funziona a pieno ritmo, anche se ogni tanto si inceppa.
Tra settembre e giugno, almeno una volta al mese si tengono serate culturali rivolte ai lettori con proposte di letture e di approfondimenti. Grande successo di pubblico e divertimento assicurato ogni volta.
Dimenticavo: riforniamo le bibliotechine scolastiche di due scuole materne, due elementari e la media. Non vi dico in che condizioni ci vengono restituiti quei libri, se e quando ci vengono restituiti.

Servizi ricreativi.
L’area dedicata ai ragazzi dispone, oltre che di una ricchissima scelta di letture suddivise per fasce di età e per generi, di un piccolo corredo di giochi per i più piccini (chiamiamolo pure ludoteca). Ai bambini dai due anni in su viene proposto, durante tutto l’anno scolastico, un fitto calendario di appuntamenti con animazioni e recite, che terminano puntualmente con una ricca merenda offerta dalla Casa. Noi operatori ne usciamo col mal di testa, ma siamo ripagati dal picco di prestiti e nuove iscrizioni.

Servizi socio-assistenziali.
La climatizzazione dell’ambiente e la presenza di due fornitissimi distributori di generi di ristoro richiama e conforta viandanti, pensionati, sfaccendati e in generale persone in cerca di relax o di compagnia. Una sedia, un giornale, un caffè, una fetta di torta casalinga quando c’è, due chiacchiere, non si negano a nessuno.
I cani sono ben accetti, mica come in chiesa. Infatti qualcuno va dicendo che siamo comunisti. In effetti, abbiamo anche un piccolo acquario con due pesciolini rossi. I bambini ne vanno matti: chissà se così stiamo facendo della propaganda?

Servizi igienico-sanitari.
La contiguità con un parco-giochi è frequente causa di prestazioni extra. Ginocchia sbucciate o bozzi in testa passano da noi per un primo intervento di pronto soccorso prima di tornare a casa a farsi curare dalla mamma.
Un’altra richiesta frequentissima che siamo in grado di soddisfare al meglio è
“Scusi, c’è un bagno?”
“Corridoio a destra, la prima porta”.
Abbiamo anche il bagno per disabili e il fasciatoio per il cambio pannolini dei più piccoli.
Ditemi voi. Ditemi voi se ce li meritiamo, i tagli.

Ma noi, come dice il nostro bibliotecario, ci faremo bastare la passione.

Perplessità in biblioteca

Confusione
Utente assidua ultrasettantenne, che legge solo thriller e polizieschi ma in quantità, mi chiede urbanamente, per la nipote che studia:
“Vorrei Orgoglio e pregiudizio di Jane Eyre”.
Orgoglio e pregiudizio o Jane Eyre?
Orgoglio e pregiudizio di Jane Eyre”.
Orgoglio e pregiudizio è di Jane Austen – la avverto.
“Ah sì? Mi sarò confusa. Ma allora Jane Eyre cos’ha scritto?”

Apparenze
Mammina volonterosa con pargoletto quattro-cinquenne mi chiede La festa dei pigmei.
“Forse intendeva La foresta dei pigmei di Isabel Allende?”
“Ah sì, volevo dire la foresta!”
Del resto una rapida ricerca nel catalogo e poi anche in ibs mi conferma che non esiste un libro con il titolo che dice lei. Le vado dunque a prendere il libro giusto, ma quando lo prende in mano la costernazione si dipinge sul suo viso:
“Ma non è una storia per bambini?? Sa, dal titolo…”
Li ho dirottati su una storia dei Puffi, che sono come pigmei ma blù, e poi fanno un sacco di feste nella loro foresta.

Dilemma
La Tribù dei Lettori della biblioteca, reduci dallo spasso del Nobel secondo noi, si è inventata un’altra carnevalata: una serata dedicata ai libri da S-consigliare. Ciascuno presenti un libro acclamato che secondo lui è una bufala e lo stronchi senza pietà. Divertimento assicurato. Il guaio è che i libri che non mi piacciono entro le prime 50 pagine io li mollo senza finirli, quindi con quali argomentazioni potrei stroncare, chessò, City di Baricco o un qualunque Paasilinna o La solitudine dei numeri primi eccè eccè eccè? Solo barando di brutto, temo.
Però non credo di avere tutta quella faccia tosta, per cui mi sa che stavolta passo.

Questo è per te, Dave

Sì, lo so, non sei mai stato tipo da celebrazioni né da salotti. Tuttavia quella di ieri sera non è stata una celebrazione, bensì un incontro fra amici, e non si è tenuta in un salotto, ma nella sala mensa di una scuola, dove ti saresti sentito a tuo agio anche tu, te lo assicuro. Lascia che ti racconti come è andata, perché io c’ero.

La data: venerdì 3 febbraio 2012, ore 20:45. Poi naturalmente si è iniziato dopo il solito quarto d’ora accademico, e sempre come al solito si è fatto tardino, perché chi viene a queste serate in biblioteca alla fine non ha mai voglia di andar via, e tra una chiacchiera, un progetto, un prosecco e una torta fatta in casa ecco che viene mezzanotte come niente.
Il posto: come ti dicevo, la sala mensa della scuola media, del cui edificio la biblioteca occupa (standoci stretta) il seminterrato. La suddetta sala mensa, basicamente già dotata di spifferi congeniti, era allestita con un fondale di drappi neri, una pedana di moquette blu con tavolo per il notaio (Lorena verde di occhi e rossa di capelli), tre leggii con microfono e un dannatissimo faretto dritto negli occhi di chi doveva rivolgersi al pubblico (forti di precedenti esperienze, i lettori più che leggere si erano imparati il copione a memoria oppure avevano preso lezioni di Braille). Di lato, la postazione per Luca e Gabriele, che hanno inframmezzato gli interventi con musica dal vivo a base di chitarra, tastiere e amplificatori (scusa, non sono molto esperta).
L’occasione: proporre al voto dei più affezionati frequentatori della biblioteca una rosa di candidati al premio Nobel per la letteratura fra quelli che non lo hanno mai ricevuto. Insomma un gioco, una sfida fra amici per scaldare una serata di pieno inverno così fredda che non poteva nemmeno nevicare.
Funzionava così: cinque i candidati e cinque i proponenti, ciascuno coadiuvato da uno o più voci recitanti per la lettura di brani originali degli autori in lizza. Al termine, voto popolare mediante biglie di vetro da collocare nelle ciotole sistemate sotto la foto di ciascun candidato.
Come vedi, di una semplicità non so se casalinga o goliardica. Una specie di tombola in famiglia, ma senza null’altro in palio che il riconoscimento – e se possibile la condivisione – di una passione convinta. Io la mia passione l’avevo, ed era più che convinta. La mia passione porta il tuo nome, e nel tuo nome l’ho espressa, come ha fatto Elisa – con l’aiuto di Alessia e Daniela – in nome di Marguerite Yourcenar, Andrea con Liliana per Sandor Marai, Beatrice con Enrico per Philip Roth, Cristina, con Daniele e Marisa, per Anita Nair.
Non puoi lamentarti della qualità dei tuoi antagonisti, direi. Forse avrai trovato un po’ beffardo essere costretto a uno scontro alla pari con quel Philip Roth con il quale hai sempre avuto rapporti  un po’ ruvidi. Lo so: troppo bravi tutti e due, una rivalità sul filo del rasoio che però mette generalmente d’accordo i lettori di entrambi. Due voci diverse, due diverse mediazioni, tutto qua; poi sul genio non si discute, la scelta può essere anche solo questione di pelle.
Non ti annoi, vero? Perché il bello deve ancora venire, e viene quando tocca a me salire sulla pedana di moquette blu per farmi accecare dal faretto e ciononostante fare la mia parte nel migliore dei modi davanti alla pozza buia del pubblico che, per quel che vedevo, poteva anche essere composto di persone già addormentate o al contrario di mostri assetati di sangue. Ma avevo al mio fianco un compagno esperto e rassicurante, Mirko, che non loderò mai abbastanza e che si era talmente calato nel contesto da cercare di somigliarti anche nel modo di vestire, di sorridere con ironia, perfino nell’ombra di barba che si era lasciata crescere apposta per due giorni.
Io ho raccontato certe cose che sapevo sul suo conto, ma in tre occasioni mi sono interrotta per cedere la parola direttamente e legittimamente a te attraverso la voce di Mirko, che ha offerto al pubblico tre brevi passaggi dalle tue opere. Avrai senz’altro presente: là dove, in Infinite jest, spieghi che per un depresso il suicidio è la scelta obbligata di una soluzione, la morte, che lo terrorizza meno dell’orrore della vita; poi l’incipit di quello stravagante racconto dove c’è quel tipo che accompagna dall’avvocato la madre col viso ridotto a una maschera di terrore indelebile dopo due interventi di chirurgia estetica; e infine i punti di forza della tua descrizione della vita a bordo della Nadir, dove il divertimento, più che relax, è un obbligo stressante.
Il pubblico ha riso, ha pianto, ha drizzato le orecchie e soprattutto ha riflettuto. Guardate, gli ho detto, che Dave non scrive cose incomprensibili: se dite di non capirle, è perché probabilmente sono capitate anche a voi o vicino a voi ma non vi va di ammetterlo. E credo che alla fine mi abbiano dato ragione, perché alla conta dei voti si è visto che avevano creduto in te. Già, perché è così che è andata: David Foster Wallace ha vinto alla grande il premio Nobel per la letteratura dei lettori della biblioteca, distaccando i nomi celebri e meritevoli che si erano battuti con onore, ma forse senza riuscire a cogliere il bersaglio più segreto nel cuore di chi ascoltava.
Sei curioso di conoscere la motivazione? L’ho redatta io, in qualità di proponente, perciò se non ti soddisfa prenditela solo con me. Eccola: “per la sua capacità di drammatizzare e sdrammatizzare la condizione umana del nostro tempo” (mi avevano imposto di essere brevissima!!)
E dopo, come si suol dire, gioia e incredulità, abbracci e baci, diplomi e foto, brindisi e scherzi. E per me, missione compiuta: quella di contribuire a far scoprire ad altri il dono della tua comunicatività, dei tuoi messaggi, delle tue analisi e dei tuoi perdoni. Tu dicevi: “Vorrei riuscire a scrivere libri che la gente leggerà fra cento anni”. Non dubito che ciò accadrà, ma è meglio cominciare da subito, non trovi?

Come dici?
No, no, non se ne parla neanche: per me è stato un onore e un atto d’amore.
Grazie a te, piuttosto. Grazie di tutto.
Hi, Dave.

Più gente entrano e più bestie si vedono

La nostra biblioteca, oltre che multietnica come è doveroso, è anche multispecie, il che è già più insolito. Nel senso che, a differenza di chiese, negozi e luoghi pubblici in genere, l’accesso non è interdetto agli animali da compagnia dei nostri utenti lettori. Fortunatamente si tratta, finora, solo di cani: anaconde e basilischi non ne abbiamo ancora mai visti. Ma per dire: non abbiamo pregiudizi. Almeno un paio dei cani che frequentano regolarmente la nostra biblioteca accompagnando i loro padroni sono talmente abituati che assistono anche alle serate culturali e alle recite, e non disturbano come certi adulti cui squilla il telefonino nel momento topico.
Durante le vacanze di Natale, mi arrivano due fratellini sui 10 e 12 anni con un cucciolotto casinaro al guinzaglio. Dono di Natale, dicono tutti euforici. E mi chiedono un libro che parli della “coltivazione” del pastore tedesco. A parte che il dono di Natale tutto mi sembra possa diventare crescendo tranne il pastore tedesco che i pischelli dovevano aver sognato, mi chiedo se pensino di doverlo annaffiare e potare. Comunque apprezzo la serietà: almeno stanno cercando il libretto delle istruzioni. E speriamo bene per il quattro zampe.
Ieri invece (qui i cani non c’entrano, casomai i porci) una studentessa acerba di brutto mi chiede Il Principe di Machiavelli, però in italiano, perché così come è scritto non ci si capisce niente. Qui è quando mi cascano le braccia, ma non per l’ignavia degli adolescenti allo sbaraglio quanto per quella dei loro prof.
Come l’altro foruncoloso, tempo fa (forse l’ho già citato) che cercava “Il folle, di un certo Rotterdam“.
O l’universitaria anglofona a oltranza che voleva leggere “La lunga vita di Marianna UcrAIa“.
Saranno quattro anni che non presto uno Steinbeck. Volo invece va via come il pane.
Mah.

E non mi annoio

Da qualche anno passo quattro pomeriggi la settimana in una biblioteca comunale. Farmi assumere come sguattera aggratis è stato facilissimo. Faccio di tutto, da lavori di concetto a bassa manovalanza. Tutto tranne due cose: non spolvero (non lo farei neanche a pagamento, mi basta la polvere di casa mia) e non catalogo (anche se lo saprei fare, ma c’è la catalogazione centralizzata). Tra i lavori di concetto, il più gratificante è stato l’inventario, il primo nella storia pluridecennale della biblioteca. Mi ha richiesto nove mesi (oltre 26.000 documenti, in discreta parte infrattati) e l’ho fatto tutto da sola. Routinariamente mi occupo di tutto, prestiti, restituzioni, riordino, insomma saprete anche voi quanto c’è da fare in una biblioteca di grande traffico. Ma il ruolo che preferisco e che mi riesce meglio è quello di consulente letteraria. Infatti i casi disperati li mandano tutti a me. Il mio slogan è: nessuno deve uscire dalla biblioteca senza aver ottenuto una risposta. Ammetto che a volte, per mettere in pratica questo precetto, occorre barare un po’.
Ne sento delle belle.
I bimbi in età prescolare – o meglio le loro mammine spesso sull’orlo di una crisi di nervi – li sistemo facilmente con Topo Tip, la Pimpa e i dinosauri. Passati i sette anni, mi chiedono soprattutto aiuto per le ricerchino scolastiche: vanno sempre alla grande gli antichi egizi e gli insetti, ma anche gli “altropodi” e gli “anellìdi”. In prima media scoprono il famigerato Stilton o Capitan Mutanda (tutta roba che contribuisce a sviluppare il senso estetico nell’età evolutiva, suppongo). Comunque fra gli zero e i 13-14 anni devo dire che leggono. Cazzate anche, ma leggono. Peccato che alcuni, spavaldi, pretendano di entrare in biblioteca senza togliersi i pattini, ma la loro è fame di cultura che non guarda in faccia niente e nessuno.
Il vuoto arriva con l’adolescenza: se si eccettua il solito drappello di sgallettate che spulciano lo scaffale degli amoretti adolescenziali, a partire dalle scuole superiori smettono di leggere autonomamente e prendono in prestito solo i libri imposti dagli insegnanti. In inverno vanno molto i Visconti dimezzati, i Diari di Anna Frank,  i Bambini col pigiama a righe, i Sergenti nella neve e perfino – quest’anno – Madame Bovary, di cui ho consegnato più di una copia a studentelli costernati che parevano andare al supplizio (e ci andavano davvero, a dover leggere Flaubert a quell’età).
Giorni fa una ragazza di seconda superiore mi chiede:
– Vorrei qualcosa su  (apre un bigliettino e compita) Dickens, col ci kappa.
– Su o di?
(riapre il bigliettino, lo consulta attentamente, poi chiarisce) – Di.
– È per la scuola?
– Sì. La prof ci ha detto di leggere qualcosa di (ancora il bigliettino) Dickens. Una cosa qualunque.
Qualche prof che mi legge si offende se dico che il metodo didattico di quella sua collega mi suscita non poche perplessità?
Comunque cosa potevo fare, dare alla sprovveduta fanciulla allo sbaraglio un David Copperfield? Ma neanche il Circolo Pickwick! Le ho scovato un Canto di Natale illustrato nello scaffale dei ragazzi (però versione integrale) e l’ho mandata a casa in pace.
Un altro, diciottenne in crisi brufolosa, cerca un romanzo sulla vita militare, ma non durante la guerra perché i libri di guerra – dice – li ha letti tutti. Aspe’ che ti interrogo, se li hai letti tutti:
– Anche Comma 22?
– Uhm, no.
Aggiudicato. Mi saprà dire.
Maturanda che vuol prendersi avanti con le tesine:
– Vorrei qualcosa sul simbolismo.
– Quale, in poesia, in arte…
– Ah non so.
Per orientarla le sciorino tutto il nostro posseduto e alla fine opta per il simbolismo in arte, forse anche perché ci sono le figure. Poi però si accontenta di un fascicolo di Art & Dossier (saranno 40 pagine) e vai con Dio anche tu.
La signora che organizza pomeriggi teatrali al circolo anziani è alla ricerca della versione in italiano realizzata da Carlo Goldoni di una commedia dialettale di Giacinto Gallina. Ora, non perché io sia veneziana. E nemmeno perché conosca piuttosto a fondo Goldoni. Ma dico io per una semplice considerazione aritmetica: Goldoni (1707-1793) come potrebbe aver trasposto in italiano una commedia di Gallina (1852-1897)?? È stato uno dei rari casi in cui non sono riuscita ad accontentare una utente. La quale, non convinta, se ne è andata scuotendo la testa e annunciando che avrebbe cercato in qualche altra biblioteca.
E no che non mi annoio!

ps:
– Ma Liala non scrive più?

Se una sera d’inverno il premio Nobel…

Così comincia la breve relazione che leggerò il 3 febbraio davanti al pubblico di lettori e amici della biblioteca, in una serata di cultura e intrattenimento in cui cercheremo di riscrivere il premio Nobel per la letteratura a modo nostro. Ci sarà chi presenterà la candidatura di Sandor Marai, chi quella di Philip Roth, di Marguerite Yourcenar e di Anita Nair. Io presento David Foster Wallace, per il quale ho un debito di gratitudine per avermi prima scossa, poi innamorata e deliziata con il suo mondo così allucinato eppure così umano. E siccome ognuno di noi ha a disposizione solo 14 minuti e l’impresa di condensare è ardua, sono previste altrettante serate monotematiche di approfondimento nei prossimi mesi; un impegno al quale  mi sto già preparando con rispetto e con amore.

Se mai l’austera Accademia di Svezia gli avesse assegnato il Nobel per la letteratura, mi piace immaginare che David Foster Wallace si sarebbe presentato a ritirare il premio nella sua tenuta abituale – capelli raccolti in un codino, bandana sulla fronte, guance non rasate, felpa con il logo dell’università, scarpe da ginnastica – e accompagnato dai suoi due cani, che adorava al punto da affermare di aver bisogno di averli tra i piedi quando scriveva.
Mi piace immaginare che, dopo la cerimonia, si sarebbe concesso – per rilassarsi – una masticatina di tabacco che poi avrebbe sputato nella vecchia tazza da caffè che si portava spesso dietro; un vizio che lo faceva sentire in colpa e dal quale si era quasi del tutto svezzato, ma l’occasione eccezionale avrebbe giustificato uno strappo alla regola.
Mi piace immaginare che avrebbe devoluto l’assegno del premio a una di quelle strutture che si occupano del recupero di soggetti con dipendenza da alcol, farmaci o sostanze stupefacenti, come quelle descritte con straziante precisione in quel capolavoro che è il suo Infinite jest.
Mi piace immaginare che il prestigioso e compitissimo parterre non si sarebbe scandalizzato per il suo aspetto trasandato, non lo avrebbe censurato come un eccentrico, irriverente anticonformista, ma avrebbe visto in lui l’espressione di un’anima trasparente e leale al punto da apparire quasi indifesa, e comunque assolutamente libera e autentica.
Mi piace immaginare.
Ma la realtà è che David Foster Wallace non riceverà più alcun premio se non alla memoria, perché si è tolto la vita nel 2008 a soli quarantasei anni, impiccandosi nella sua casa in California. Un atto estremo che familiari e amici da anni paventavano, perché quanti lo conoscevano bene conoscevano anche il tormento che devastava questo ragazzone prestante, sportivo, brillante e scanzonato, e ormai giunto alla notorietà internazionale e al successo di pubblico come scrittore: la depressione. Una depressione evidentemente endogena, una malattia bastarda che lo accompagnava fin dall’adolescenza e che gli aveva fatto conoscere i reparti psichiatrici e la schiavitù degli psicofarmaci. Negli ultimi anni, l’assuefazione ai farmaci antidepressivi e il fallimento di ogni ulteriore tentativo terapeutico aveva fatto di lui un depresso incurabile. E la sua scelta così drastica fra la vita (o meglio la non-vita, perché tale è la vita di un depresso a quello stadio) e la morte è un suicidio annunciato, forse già previsto in questo brano tratto da Infinite jest, il suo romanzo-fiume e il più acclamato, uscito nel 1996, in cui viene descritta la depressione con toni asciutti ma tragicamente rispondenti a verità:

La persona che ha una così detta “depressione psicotica” e cerca di uccidersi non lo fa aperte le virgolette “per sfiducia” o per qualche altra convinzione astratta che il dare e avere nella vita non sono in pari. E sicuramente non lo fa perché improvvisamente la morte comincia a sembrarle attraente. La persona in cui l’invisibile agonia della Cosa raggiunge un livello insopportabile si ucciderà proprio come una persona intrappolata si butterà da un palazzo in fiamme. Non vi sbagliate sulle persone che si buttano dalle finestre in fiamme. Il loro terrore di cadere da una grande altezza è lo stesso che proveremmo voi o io se ci trovassimo davanti alla finestra per dare un’occhiata al paesaggio; cioè la paura di cadere rimane una costante. Qui la variabile è l’altro terrore, le fiamme del fuoco: quando le fiamme sono vicine, morire per una caduta diventa il meno terribile dei due terrori. Non è il desiderio di buttarsi; è il terrore delle fiamme. Eppure nessuno di quelli in strada che guardano in su e urlano “No!” e “Aspetta!” riesce a capire il salto. Dovresti essere stato intrappolato anche tu e aver sentito le fiamme per capire davvero un terrore molto peggiore di quello della caduta.

Una bella gatta da pelare

Per il 3 febbraio ho accettato di partecipare alla nuova (velleitaria?? nooo!) iniziativa della Biblioteca: Il Nobel secondo noi, una serata di cultura e intrattenimento sulla scia del già collaudato Campiello? Remake! che si svolge da due anni poco dopo l’assegnazione del premio-Campiello-quello-vero, e che entrambe le volte ha completamente sovvertito la classifica. In pratica, utenti volonterosi della Biblioteca presentano libri e autori in lizza e li sottopongono al giudizio del pubblico, che ha dimostrato di gradire queste competizioni e finora ha partecipato numeroso e caloroso.
Allora ‘sto Nobel: saremo in cinque e ciascuno proporrà il suo candidato, con il supporto di un partner che leggerà dei brani originali.
Io non potevo dire di no, anche perché non ho mai avuto dubbi sul mio candidato. Ed è qui che dovrò mettermi a pelare la gatta, perché non è uno qualunque ma un personaggio complesso e forse per il grande pubblico anche alquanto indigesto.
Eccolo qua: David Foster Wallace.David Foster Wallace Hai detto niente.
Oh certo, su di lui c’è così tanto da dire da essere solo in imbarazzo, ma appunto in imbarazzo lo sono eccome, dato che dovrò condensare tutto in 14 minuti netti.
Fa niente, per DFW val la pena impegnarsi al massimo. E poi con la mia esperienza di gattofila una gatta da pelare in più o una in meno a me mi fa un baffo.