Virus

Spoiler: se ne sconsiglia la lettura a un pubblico emotivamente suggestionabile
(poi non dite che non ve lo avevo detto, eh)

La sento arrivare, sì.
Per ora è solo un sospetto, ma l’esperienza sembra riconoscerla ugualmente. Un sospetto, un alito sotterraneo che sa di freddo e umido, di tanfo di topo, di muffa. A tratti sembra soffiare più forte, più insinuante, e sempre alle spalle, nel bel mezzo del prato sotto il sole; ma se mi giro per sorprenderla gira anche lei, e mi sta sempre dietro, come un sicario. Ne parlo al femminile perché è subdola e traditrice, e il suo bersaglio è l’inerme, quello già perdente in partenza.
Come avversaria è sleale e camaleontica, una femmina  senza scrupoli, un’avvelenatrice. Non fa rumore. Non ronza, non sibila, non ruggisce; è silenziosa come una cantina, di un silenzio assordante come le pulsazioni nelle orecchie in una stanza anecoica. Il suo piano è identificare un pertugio poco presidiato, una vecchia cicatrice mal rimarginata – e ne trova, ah se ne trova – in cui iniettare il suo contagio, e poi, una volta dentro, dilagare ovunque, svegliare le spore dormienti lasciate qui l’ultima volta, colonizzarmi tutta. Vuole la mia vita, la mia giornata proficua, il fiato con cui parlo e spesso rido, le mani che non starebbero mai ferme, se lei non le incatenasse con i suoi lucchetti. Vuole staccare la luce, vuole il tutto grigio, il tutto piatto, il tutto senza forma né alcun calore, un tutto così uguale che è come essere già morti. Ma prima vuole succhiarmi fuori la mente e la volontà e tutti i sensi, la vista e l’udito e il tatto, e naturalmente al loro posto mi lascerà un vuoto smarrito, rassegnato, assolutamente inutilizzabile, come quello dei pazzi.
Mi odia, e io ricambio il suo odio con le uniche energie che riesco a difendere mentre mi prosciuga tutte le altre. A volte vorrei parlarle, spiegarmi, avviare un confronto e una trattativa. A volte invece vorrei ignorarla, lasciarla a bocca asciutta, che si fotta da sola. Meglio di tutto sarebbe non nominarla nemmeno, mai e a nessuno: distruggerla con il silenzio e con il disprezzo. Ma quando ci provo vince lei lo stesso. Perché quando azzanna non posso fare a meno di urlare, di dibattermi, di chiedere aiuto (portatemi via, non lasciatemi qui sola con lei!), e a chi intorno a me si allarma o si addolora non so come spiegare che sono di nuovo in trincea, in un cunicolo fangoso e senza appigli, a vedermela con la mia Nemica che non ho mai visto in faccia, che mi vuole a tutti i costi, che ha il solo implacabile obiettivo di svuotarmi il pensiero e venirlo a occupare lei, che si ritira ogni tanto solo per sorprendermi dopo ancora più indifesa di prima, e che conosce tutti i miei trucchi infantili – nascondermi, abbracciarmi le ginocchia, chiudere gli occhi forte forte gridando dentro – per tenerla non dico a bada ma almeno un minimo più distante, lo spazio per tentare un’ultima rincorsa e scappare più lontano possibile dalla Paura di lei.

Il verso del Tempo

Da un quadro una storia:
Salvador Dalì – Orologio molle al tempo della prima esplosione, 1954

Hai idea da quanto tempo sono qua che ti aspetto?
Dovevamo incontrarci dopo il lavoro, fare colazione insieme e parlare un po’ del nostro futuro. Era primavera. L’appuntamento era alle 12.30, ma non quelle che segna adesso l’orologio: le 12.30 di qualche èra fa, quando ancora la spiaggia era pulita, la costa non era franata, l’acqua del mare non era radioattiva e sulla Terra esistevano gli uomini e le loro città. Sono certa che ti ha trattenuto un contrattempo, uno di quelli grossi visto che non riesci tuttora a liberartene. Io nel frattempo ho sempre tenuto la postazione, soprattutto da quando ho visto sgretolarsi uno a uno i grattacieli e gli alberghi, esponendo, secolo dopo secolo, scheletri arrugginiti dopo che le radiazioni ne avevano eroso le budella.
La bomba non ha estinto la vita in un colpo solo; è stato un processo millenario di contaminazione, mutazione e interminabile agonia. All’inizio, dal deserto bruciato hanno avuto il coraggio di riemergere inaspettate forme di vita vegetale geneticamente abnormi, e fra quei cespugli macilenti si aggiravano superstiti allucinati, talmente impazziti da nutrirsi di radici infette e di acqua avvelenata, forse per morire più in fretta. L’Uomo si è estinto fra le prime specie, troppo complesso per battersi contro insetti e microbi elementari. I corsi d’acqua sono diventati canyon disseccati nel corso di poche decine di migliaia di anni, e il vento solare tuttora ne modifica in continuazione la morfologia sollevando nubi di polvere rossa che chiazza le distese di cenere fossile. Ma anche quel vento si è affievolito, come tutte le attività del Sole, compresa quella di sorgere e tramontare con un minimo di logica. Adesso per esempio è lì fisso allo zenit da tempo incommensurabile, forse perché si sono guastati irrimediabilmente certi meccanismi nell’ordine arcaico delle orbite dei pianeti. Forse perché non è nemmeno più il Sole che conoscevamo, ora che la Terra è diventato un relitto bitorzoluto e farneticante che perde rottami alla deriva. La Luna si è talmente corrosa da disfarsi in sabbia primordiale che si è posata a coprire le vette sublimate delle montagne terrestri. C’è stato tutto un lungo divenire di consunzione e involuzione di cui alla fine sono rimasta testimone solo io, bloccata qua su quella che era la rotonda sul mare dove avremmo dovuto incontrarci. Il calore senza requie ha cotto il mio orologio, lo ha liquefatto e poi temprato e fissato così come lo vedi, deforme e piangente, sempre sull’orlo di un baratro ma senza più l’inerzia per lasciarsi andare.
Come ho fatto a resistere, non lo so neanche io. Aspettarti era un buon motivo per farlo, probabilmente, e poi anche devo aver imparato a prendere il Tempo per il verso giusto.
Ma quello che ho capito in tutti questi anni e secoli e milioni di millenni è che ci si può abituare a tutto, ma proprio a tutto. All’attesa, alla solitudine, allo sconforto, al silenzio, alla bomba, alle radiazioni, alla fame e alla sete, alle domande senza risposta, all’assenza, al suo stesso ricordo.

Qui sono sempre le 12.30. Qui sono sempre io. Ho tutto il tempo per stare a vedere come andrà a finire. O forse invece a ricominciare, magari da un’ameba che, faticosamente e fra molti tentativi falliti, prima o poi metterà branchie o ali o zanne, oppure due gambe con cui risalire le rocce fino a una caverna e lì  imparare daccapo ad accendere un fuoco.

Chi non lavora non fa l’amore

L’anno che chiusero la fabbrica e misero in strada quasi duecento operai, io ero un poppante ancora attaccato al seno di mia madre, perciò questa storia me l’hanno raccontata dopo, ma c’è da crederci.
Mio padre, che era un rosso di quelli irriducibili, dapprima arringò i compagni con comizi ringhiosi, poi li convinse a incatenarsi con lui davanti al municipio, e alla fine organizzò la resistenza a oltranza. Con un manipolo di incazzati a morte si installò sul coperto dello stabilimento e proclamò col megafono l’intenzione di rimanervi senza scendere fino a che il padrone non avesse fatto marcia indietro. Furono compilati dei turni, stesi degli elenchi di generi di sopravvivenza, pitturate delle lenzuola con slogan battaglieri, e la guerra di resistenza ebbe inizio ai primi di dicembre, un’alba buia e annegata nel nebbione padano. Parenti e amici, dal piazzale, salutavano gli eroi che si arrampicavano sul tetto portando in spalla rotoli di coperte e sacchetti di viveri. Da lassù, una volta arrivati, si affacciarono come scalatori giunti in vetta all’Everest e agitarono striscioni presaghi di vittoria.
Mia madre quel mattino a quell’ora stava preparando il caffelatte per i miei fratelli che andavano a scuola, con me attaccato alle tette. Il suo uomo lo aveva salutato la notte prima, brontolando molto perché a lei quella storia pareva una bravata da imbecilli. Due volte al giorno, con le altre mogli e sostenitrici, portava il pranzo agli assediati, i quali calavano cesti e panieri pieni di panni da lavare e li recuperavano colmi di cartocci di cibi caldi. Inneggiavano, gli stolti, e le donne un po’ si commovevano e un po’ si innervosivano. Alcune addirittura già il secondo giorno cominciarono a imprecare mentre schiaffavano il ben di Dio in quei panieri e poi dovevano tornare a casa e dividere avanzi con il resto della famiglia. Mia madre era una di queste ultime, perché con un marito senza stipendio che perdeva tempo a fare il Robinson Crusoe su un tetto invece di cercarsi un altro lavoro non è che se la passasse molto bene.
Faceva freddo, i fossi gelavano, i miei fratelli più piccoli dovevano percorrere tre chilometri di sterrato fangoso per andare a scuola, e appena uscivano di casa la mamma spegneva la stufa per riaccenderla solo alle quattro, quando tornavano. Per racimolare qualcosa, si portava a casa la roba da stirare delle signore del quartiere nuovo, ma di più non poteva fare perché non aveva nessuno a cui affidarmi. Tutti speravano che il padrone si lasciasse intenerire per Natale, invece ovviamente non avvenne, né sarebbe potuto avvenire dato che il padrone se l’era filata da tempo in Sudamerica. Avvenne invece che i comitati di sostegno, i sindacati e la Caritas, per mostrare la loro vicinanza agli operai asserragliati, cominciarono a fare collette per fornirli di qualche comodità in più, che ne so, stufette, indumenti pesanti, casse di liquori forti, un televisore, il nuovo calendario Pirelli.
Io intanto mi ero preso una bronchite per via della stufa spenta, così adesso, oltre al cibo di tutti i giorni e alle bollette della luce, mia madre doveva lasciar giù dei soldi anche al farmacista. Mia madre si imbacuccò, mi affidò temporaneamente alla perpetua del canonico e si avviò alla fabbrica, decisa a salire su quel dannato tetto e a trascinare suo marito alle proprie responsabilità. Arrivata in cima, anzitutto le toccò difendersi dai grossolani complimenti degli operai, che erano a digiuno di donne da quasi un mese, e poi affrontò il marito, che sembrava il più esaltato e allegro di tutti, e infatti per l’allegria prima le rise in faccia e poi la insultò, rispedendola al suo posto, che secondo lui era quello accanto alla stufa a fare la calza mentre gli uomini erano in prima linea a rischiare la salute per il futuro delle famiglie.
Quando scese, rossa in viso per l’indignazione, tutte le altre donne le si fecero intorno per sentire come avesse trovato la situazione.
“Stanno benone, ve lo dico io! Non gli manca niente, hanno le tende, le coperte, le stufette, le carte, la grappa, il televisore, i giornaletti sporchi e pure il pallone quando fa bel tempo. ‘Sti disgraziati! E noi a cucinargli i mangiarini e a lavargli le mutande! E i bambini con i buchi nelle scarpe! E il piccolo con la bronchite! E il padrone in Sudamerica! E intanto chi è che tira la carretta, eh? Indovinate un po’! Ma aspettate che scendano (perché prima o poi scendono, eh se scendono!), e non so voi ma io il mio lo faccio correre, a gambe levate lo faccio correre!”
Mia madre era così: la vera rossa della famiglia, la vera sindacalista, la vera lottatrice, era lei. La mattina dopo, prese la carriola, mi ci sistemò dentro ben infagottato e scarriolò baldanzosa fino all’emporio. Gastone era nel retro.
“Tu mi devi qualcosa – lo apostrofò lei con aria decisa.
Lui arrossì:
“È passato tanto tempo, avevo vent’anni…”
“Io invece sedici. Ero minorenne – gli ricordò lei, implacabile.
“Cosa vuoi? – si arrese Gastone, temendo conseguenze imbarazzanti.
E lei glielo disse. Voleva un sacco di farina, mezzo chilo di lievito, due chili di burro, due di zucchero e trenta uova. A credito, ché se le cose fossero andate per il verso giusto, lo avrebbe pagato entro un mese fino all’ultimo, miserabile centesimo.

Mia madre passò tutta la notte a cuocere torte. La mattina dopo, era domenica, le impilò nella carriola, coperta da una tovaglia pulita, e andò a venderle sul sagrato all’uscita dalla messa grande. Aveva preparato un cartello: Torta Proletaria della Rosina, fatta a mano e genuina. Il primo ad avvicinarsi fu il Maresciallo dei Carabinieri, che con aria di disapprovazione le chiese:
“Ma Rosina, ce l’hai la licenza?”
E la Rosina, che non aveva paura della verità, gli rispose dura:
“La licenza no, però ho quattro figli, e un marito sul tetto della fabbrica”.
Le prime torte andarono a ruba: tutti volevano un dolce fatto in casa per il pranzo domenicale, compreso il farmacista, le signore del quartiere nuovo e perfino la fornaia, che le chiese la ricetta. Mia madre gliela diede (“Le solite cose, farina, zucchero, uova, burro e lievito”) ma tenne per sé i suoi due ingredienti segreti, cosicché nessuna delle massaie che tentò di riprodurre l’ottima Torta Proletaria della Rosina otteneva lo stesso risultato di gonfiezza e leggerezza.
Il giorno dopo cominciarono ad arrivare le prime ordinazioni. La torta era squisita, si scioglieva nel latte della prima colazione, accompagnava i bambini a scuola nel cestino della merenda, completava degnamente un pranzo e si presentava trionfante agli ospiti. Mia madre infornava torte tutta la notte, e le vendeva nella sua cucina. A mio padre non la fece neanche assaggiare: gli portava ogni giorno la minestra, lo spezzatino, le melanzane alla parmigiana, ma la torta no.

Era ormai primavera. Io gattonavo. Mio fratello maggiore, quando seppe che sarebbe stato bocciato, lasciò la scuola e si occupò delle consegne a domicilio. Il papà, lassù sul tetto, cominciava a smaniare perché aveva voglia di andare a pesca, ma si era preso un impegno e gli seccava darsi per vinto, anche se ormai le piogge avevano dilavato gli striscioni e i giornaletti sporchi erano venuti a noia.
Una volta la settimana il Sindaco andava sotto la fabbrica – che stava ormai vistosamente arrugginendo – e gridava:
“Dai, scendete. Non serve a niente. Vi troviamo un lavoretto, in qualche modo si farà!”
Ma loro volevano riavere il posto in fabbrica, mica accettare un impiego da spazzino o da becchino.

In capo a un mese mia madre si era fatta una fama. Le sue torte partivano ogni mattina per i clienti del paese e dei dintorni. Erano Torte Proletarie a prezzo proletario, perché mia madre era onestissima, però chi chiedeva delle varianti pagava qualcosa di più, perché gli ingredienti extra costavano. Nacquero ed ebbero successo la Torta Proletaria con le mandorle, quella con le mele, quella con il maraschino e la ricotta, e infinite altre. Mia madre aveva ripulito e imbiancato il vecchio capanno degli attrezzi e aveva trasferito lì il suo laboratorio di pasticceria. Tutto andava a gonfie vele. Io fui svezzato a colpi di torta, e questo è il ricordo più remoto che ho della mia infanzia.
Il Primo Maggio i vigili del fuoco fecero una sortita: salirono sul tetto e riportarono giù i dimostranti, che  opposero una resistenza solo formale. Da settimane annusavano, da lassù, il profumo di torta che aleggiava costantemente sul paese, e fu questo senza dubbio a farli capitolare. Quel giorno, le vendite della Torta Proletaria registrarono un picco mai visto, il primo di una serie ininterrotta a tutt’oggi.
Il papà entrò in casa mogio mogio. La mamma lo spedì a lavarsi, poi lo rifocillò, gli mostrò le pagelle dei figli e il conto del farmacista, e la mattina dopo lo mandò all’Ufficio Collocamento, dove il Sindaco aveva messo una buona parola per un posto di lava-auto in un garage. Probabilmente lo riprese anche nel suo letto, perché l’anno dopo nacque un altro bamboccio, una femmina che adesso studia da estetista.

Oggi compio ventun anni. Li ho passati quasi tutti nella pasticceria di mia madre, in piazza. Mia madre è diventata un’imprenditrice: in laboratorio ha quattro aiutanti, e due ragazze stanno al banco. Lei arriva per prima, se ne va per ultima, passa le giornate a impastare e decorare, esce ogni tanto nel suo grembiule immacolato per salutare qualche cliente di riguardo, ma non ne vuole sapere di lasciare il suo posto al tavolo di lavoro. Mio padre quest’anno è andato in pensione: ora trascorre i pomeriggi al bar con gli amici di un tempo e continuano il torneo di scopa iniziato sul tetto quand’erano giovani combattenti e martiri del lavoro. I miei fratelli e le mie sorelle si sono sistemati tutti; quello bocciato ha poi ripreso gli studi e adesso fa il commercialista per l’azienda di famiglia. Io sono diventato capo-pasticcere e ho anche inventato nuove torte di tendenza (al kiwi, alla papaia, ipocaloriche, senza glutine) che però non supereranno mai la gloriosa Torta Proletaria di mia madre, sempre in vetta alla classifiche e esportata ormai in tutto il mondo.
Per il mio compleanno, mia madre mi ha fatto una sorpresa: sull’insegna, accanto al suo nome, è comparso il mio. “Rosina e Figlio“, c’è scritto adesso. Ora che sono diventato ufficialmente suo socio ed erede, ho finalmente avuto accesso al segreto dei suoi ingredienti speciali, quelli mai rivelati a nessuno e responsabili della universalmente acclamata unicità delle sue torte. Me li ha confidati solennemente.
“Incazzatura per impastare, coraggio per lievitare. Senza questi due trucchi non si arriva da nessuna parte. Tienilo bene a mente, Tonino”.

Mia madre, che gran donna. Mi chiedo dove sarebbe arrivata se fosse entrata in politica.

L’età dell’argento

Da un quadro una storia:
Henri Matisse – Mme Matisse, 1913

Grazie, sì, adesso sto bene. Mi sono rimessa abbastanza, da qualche giorno ho anche ripreso a uscire, adesso poi con questo sole tiepido, queste prime giornate di primavera… Ho preso l’abitudine di mettermi qui, a questo tavolino tranquillo nel parco. Mi faccio servire un tè, mi leggo un libro, mi guardo intorno, respiro. Insomma sto meglio, anche internamente. Come serenità, intendo.
È stato un inverno un po’ così, difficilino; sa, quella tosse che non passava mai. In famiglia poi abbiamo sempre avuto tutti i polmoni un po’ delicati: il povero papà è morto giovane in un sanatorio svizzero, lei capisce dunque. La mia comunque è stata solo una brutta bronchite. Vede? mi porto sempre dietro una sciarpina, per prudenza.
Sì, sono stata dieci giorni in ospedale, più che altro per precauzione. Il cuore non c’entrava, per fortuna quello è a posto. Dice però il mio dottore che mangio troppo poco, così mi fa fare delle curette a casa. Le iniezioni viene a farmele la sua infermiera in persona, una carissima signora con la mano d’oro. Poi ho tante amiche, ci sentiamo, vengono a trovarmi, oppure vado io da loro. Mia sorella è venuta a stare con me qualche giorno, appena uscita dall’ospedale, e ci siamo fatte molta compagnia. Come quando eravamo ragazzine, abbiamo passato pomeriggi leggendo libri ad alta voce.
Mio figlio insiste che mi trasferisca da lui, in campagna. Hanno una casa grande con tanto verde intorno, un posto tranquillissimo. Dice che l’aria di città mi fa male, con tutto questo smog, questa umidità. Non che gli dia torto, sa. Però cosa vuol mai, non è che abbia tutta questa voglia di cambiare. Alla mia età, poi. Ottanta, carissima, ottanta. Lei lo farebbe? Sia sincera: lascerebbe la casa dove ha vissuto quasi una vita?
Lo smog, capisco; però qui ho tutto, tutto quello che mi serve, tutte le cose che amo. Le mie abitudini, le mie comodità. Il dottore, le dicevo, che mi conosce da tanti anni; le amiche; un appartamento grande con un bel terrazzo pieno di piante, tutti i miei libri, i miei quadri, i miei armadi pieni di cose, il mio studiolo così confortevole col pianoforte e la collezione di fermacarte di cristallo. La mia libertà, capisce. La mia intimità. Sono doni che cercherò di difendere più a lungo possibile, proprio per cercare in questo modo di fermare la vecchiaia.
Sola no, non mi sento sola. Non mi sento affatto sola, e non lo sono realmente. Mi sentirei più isolata in una villa di campagna, dopo aver vissuto tanti anni in un palazzo di città.
Quando era vivo mio marito, abbiamo viaggiato molto. Sono stata in alberghi di lusso nelle più grandi capitali del mondo, ho visitato musei e castelli, però sa, ogni volta che tornavamo a casa era un bel momento. Ritrovare gli odori e i rumori di casa propria dopo un viaggio, beh è impagabile.
Non so, tutt’al più potrei pensare di svernare in Riviera l’anno prossimo. Ma è presto per pensarci, non crede? Per adesso mi godo questo inizio di primavera in città. Mi sento proprio benino. Aspetto le rondini, questione di giorni.

Storia d’amore e di cerotti

Ci era nato, con le orecchie a sventola.
I suoi genitori gli avevano preparato un nome gentile e leggiadro, da angelo biondo, Gabriele, e lui era nato con le orecchie a sventola. Si erano annunciate prima ancora che mettesse la testa fuori, inceppandosi nel canale del parto e rendendo il tutto molto più lungo, difficoltoso e doloroso del necessario. Uscite loro, il resto era stato uno scherzo, come un tappo incastrato che si sblocca.
Mamma, nonne, zie e madrine sferruzzarono un intero assortimento di cuffiette per nascondere l’obbrobrio, pregando la Madonna che col tempo si aggiustasse da solo. Una cuffietta per ogni occasione, a casa e fuori, d’estate e d’inverno, e tutte calcate ben strette nella speranza che un po’ alla volta domassero l’intemperanza di quelle due escrescenze carnose.
Poi venne l’epoca della scuola, e con essa quella dei cerotti. La mamma gli lasciò crescere i capelli come una femminuccia per coprire i cerottini con i quali forzava le alucce di Gabriele a starsene appiccicate alle tempie.
Alle superiori ebbe una grande intuizione: scoprì che le ragazze subivano il fascino dell’eroe ferito, e si incantavano davanti a ginocchia, gomiti o altre parti scoperte suggellate da cerotti. Così, per meglio convivere con quelli che teneva gelosamente nascosti sotto i capelli, cominciò a esibire cerotti visibili di guasti inesistenti, e a darne conto alle ammiratrici con spiegazioni rudi e laconiche che le facevano arrossire di piacere.
“Niente, una pallottola di striscio”.
oppure
“Roba da poco, la freccia di un Comanche”.
Il patatrac successe quando la biondina più ambita della terza C, infiammata d’ormoni, lo baciò sulla guancia scompigliandogli audacemente i capelli e scoprendo così il suo vergognoso segreto. Gabriele, sopraffatto dal disonore, si ritirò da scuola e rinunciò alle donne.
Ora al mattino si alzava presto per seguire suo padre al mercato, dove avevano un banco di ortaggi, e aveva escogitato un’altra buona scusa per portare tutto l’anno un berretto di lana calcato sulle orecchie incontinenti e incerottate:
“Otite cronica”, spiegava.
E le comari si intenerivano:
“Poverino, così giovane! E ti fa tanto male?”
E lui, virilmente ma sinceramente: “Sopporto”.

Gli affari andavano bene.
C’era, al banco di fronte, una ragazza con i capelli rossi che vendeva piantine di salvia e rosmarino. Gabriele se ne innamorò senza speranza, conscio della sua deformità, e quando lei lo guardava di sottecchi e gli sorrideva da dietro il basilico lui si girava e la sfuggiva dietro le pere William. Ma l’Elisa sapeva quello che voleva e non si fermò davanti a tanta timidezza. Un giorno, mentre a mercato finito stavano tutti sbaraccando, gli si presentò davanti e in tutta franchezza gli dichiarò il suo sentimento. Gabriele sentì il calore e il rossore partirgli dal cuore e risalire al galoppo fino al collo e alle orecchie, tanto che avvertì chiaramente i cerotti staccarglisi dalla pelle per l’emozione.
“No, no, tu non sai… – provò a difendersi – Non sai chi sono io veramente!”
E pazzo d’amore si strappò berretto e cerotti: “Lo vedi, sono Dumbo!”
Elisa si era portata le mani sul cuore e guardava con espressione rapita quelle esuberanti sporgenze.
“Ma sono adorabili! Ti stanno benissimo, parlano di te, della tua grinta e della tua fragilità insieme. Le coprirei di baci!”
“No, no, dici così perché ti faccio pena – Gabriele sprofondava nell’umiliazione.
“Ti amo davvero, così come sei, e non vorrei nessun altro che te. Oh, come vorrei svegliarmi ogni mattina accanto alle tue orecchie!”
Le orecchie, l’incredulo Dumbo se le tappò con le mani e scappò disperato a nascondersi, mentre Elisa, affranta, lo implorava inutilmente:
“Pensaci! E quando ti sentirai pronto, sai dove trovarmi. Io ti aspetterò!”

“Capperi, queste sì che sono orecchie a sventola! – il commento ammirato era proprio sfuggito di bocca al chirurgo estetico. – Ma lei non si preoccupi, un’incisione qui e un’altra qui, non sentirà niente, e tra quindici giorni, quando toglieremo i cerotti, nello specchio vedrà un altro uomo”.
Per te, Elisa. Lo faccio per te – così si faceva coraggio Gabriele, mentre si stendeva sul lettino e si lasciava sommergere dall’anestesia.
Per Elisa sopportò il dolore postoperatorio, il gonfiore, il pizzicore, l’odore del disinfettante, il bendaggio stretto come quello che mettono ai morti intorno alla testa. Si chiuse in casa a ruminare rovelli esistenziali, ricordando le ultime parole di Elisa e chiedendosi se fosse stata davvero sincera. Perché in quel caso, era chiaro che era fottuto. Aveva sacrificato per vanità la parte di sé che lei giurava di amare di più, le orecchie che lei desiderava trovare sul suo cuscino ogni mattina della sua vita.
Il giorno dell’ultimo controllo varcò la porta dell’ambulatorio con passo da sonnambulo (non dormiva da quindici giorni) e l’aria lugubre di un condannato. Il chirurgo si complimentò ugualmente per la sua buona cera e si dispose a contemplare il successo dell’operazione; l’infermiera cominciò a svolgere le bende intorno al viso di Gabriele con una lentezza desolante. Erano peraltro metri e metri, un bel pacco, una specie di pannolone a strati, e intanto Gabriele ebbe tutto il tempo per darsi dell’imbecille. Ma ormai il disastro era fatto, Elisa era perduta per sempre.
“Ecco, adesso finisco io – intervenne il chirurgo nel momento cruciale – Restano da togliere gli ultimi due cerotti, e poi vedrà, vedrà che capolavoro le ho fatto!”
Dumbo prese in mano lo specchio che gli porgevano, chiuse gli occhi, inspirò a fondo, li riaprì e si abbandonò inerme al suo destino.
Via un cerotto.
Via anche l’altro.
Per un istante tutti trattennero il respiro: quelle che sporgevano – appena appena – dalla testa di Gabriele non erano più due ali sfacciate bensì due armoniose, proporzionate, invidiabili conchiglie rosate dal portamento perfetto.
Le ammirarono commossi senza una parola, come davanti all’improvvisa rivelazione di uno spettacolo della Natura.
Ed ecco che proprio allora, in quel momento di incanto sospeso, le orecchie di Dumbo sembrarono destarsi, tremarono leggermente; poi si scartocciarono, prima una – slap – poi l’altra – slap – come una corolla che sbocci e si dispieghi al sole sotto una spinta imperiosa e, non più trattenute dalle ingabbiature, le bende e i cerotti di tutta una vita in cattività, ripresero gagliarde la loro naturale posizione a bandiera.
“Forse li abbiamo tolti troppo presto, quei cerotti… – fece in tempo a esalare il chirurgo prima di svenire.
“Troppo presto? Al contrario: speriamo che non sia troppo tardi! – esclamò Dumbo euforico. Abbracciò l’infermiera, rincuorò il dottore e uscì nel corridoio a vele spiegate.
Lungo le scale, accese il cellulare, e chi lo incrociò lo sentì giubilare nel telefono: “Pronto! Pronto! Sono pronto!”

Questo stupidesso partecipa all’eds lanciato dalla Donna Camèl in lieta compagnia con:
C di magneTICo sul blog okkietti spenti
Principesse di Dario sul blog Solo Testo
Catena di perle di Lillina sul blog Ora e qui
C come cioccolato di La Donna Camèl sul blog Il diario intimo della Donna Camèl
Carta e Corsa 5 di La Carta sul blog La Carta
E Cenere ritorneremo di Hombre sul blog La Linea d’Hombre
Cera fusa di Mai Maturo sul blog Mai Maturo
SpeakerMutismo AKA La centrifuga di SpeakerMuto sul blog Radio Free Mouth

Come fu che

Era buio fitto e c’era parecchia umidità, ma C-162 avvertì chiaramente il loro arrivo tumultuoso. Si spintonavano per farsi largo, e i più ingenui restavano indietro, fuori gara. In breve ne fu circondata: un brusio nervoso emanava dalle loro piccole teste feroci, e c’era tanta elettricità nell’aria che si potevano intravedere i loro occhietti fosforescenti. C-162 capì subito di non avere scampo, e che l’unica soluzione era trattare. Non si sarebbe arresa per poco: voleva qualcosa in cambio, e loro sapevano benissimo, a loro volta, di dover gareggiare per conquistarla. Ne passerà uno solo, era scritto.
“Sentiamo, cosa mi avete portato?”
“Io ti darò una Y! Non ti piacerebbe un primogenito maschio? – si lanciò G-180.444.512.
“Adesso come adesso sarei più per una femmina. Magari più avanti”.
“Io ti regalo il gene dell’apprensività – azzardò G-180.444.513.
“No no, mi basta il mio!”
“E se ci aggiungo pessimismo e tetraggine? Pensaci, è un affare – insistette lui, ma era già precipitato nell’ansia, nella depressione e nella certezza della sconfitta.
Infatti C-162 lo respinse senza appello: “No grazie, diffido dei 3×2”.
“Io avrei il gene degli occhi chiari. Guarda che è bello sai! – ci provò G-180.444.514.
“Non ne dubito, ma è un gene recessivo e con me non attaccherebbe”.
“E se ci aggiungo un orecchio assoluto? – rilanciò speranzoso G-180.444.514.
“Sarebbe uno spreco, io sono troppo stonata e te lo rovinerei”.
“Se ti interessa, mi degnerei di condividere benignamente con te il mio gene della megalomania – propose l’altero G-180.444.515.
“Per carità, io sono timida!”
Cominciava a circolare un certo imbarazzo. Restava poco tempo e ancora nessuno era riuscito a passare l’esame. Poi uno, G-180.444.516, visto che era arrivato fin lì solo per quello e che comunque non c’era biglietto di ritorno, si fece coraggio e giocò la sua carta:
“Senti, non so se dirtelo… ma io ho il gene di – scusa, un po’ mi vergogno – di leggere molto”.
G-180.444.516 era arrossito nel buio perché temeva di avere troppo poco da offrire. Invece ecco che C-162 subito drizzò le orecchie e manifestò un certo interesse.
“Mi piace! Ce l’ho anche io, sai che botto facciamo se li mettiamo insieme?”
Gli altri cominciarono a preoccuparsi. Oddio, vuoi vedere che quello lì ha trovato la combinazione giusta?
“Scusa se ti faccio una domanda, ma sai com’è, prima di prendere una decisione del genere devo pur calcolare tutti i rischi”.
“Chiedi pure – accettò G-180.444.516, emozionatissimo.
“Ecco, volevo sapere come stai messo con la erre. Perché vedi, a me manca”.
“Celò, celò! La erre celò! Con me vai tranquilla, fidati! – oramai G-180.444.516 sentiva la vittoria in pugno, e si lanciò in una serie di guizzi e capriole. C-162 tirò un sospiro di sollievo. La scelta era fatta e le pareva fosse la migliore possibile. Ora poteva cedere con dignità.
“Allora sei tu quello giusto. Entra pure, e diamoci da fare perché c’è molto lavoro”.
Gli altri, gli scartati, rimasero lì fuori a digrignare i denti nel buio, e il buio piano piano se li inghiottì.
Così fu che, nove mesi dopo, spingi e tira, più con le cattive che con le  buone, una domenica sera d’inverno che pioveva e i lampioni striavano di riflessi dorati l’acqua del Canal Grande, nacqui io.
Non ho la deliziosa erre moscia di mia madre né gli occhi chiari o l’orecchio assoluto di mio padre, ma quanto a libri ne ho letti più di tutti e due messi insieme.

I più son fuori

L’ha fatto di nuovo. Ma stavolta sulla sua strada ha trovato una persona del tutto priva di umanità, comprensione e carità cristiana, benché sia il Vescovo. Un uomo di Dio. Di un Dio forse che non conosce l’ironia, e nemmeno le piccole fantasie che fanno così felici le sue creature.
Ieri mattina, domenica del Corpus Domini, le campane suonavano più festose del solito. Luigi, che è curioso e anche un po’ vanitoso, ha lasciato a metà il caffè d’orzo col pan secco e si è affacciato per vedere cosa succedeva.
“C’è la cresima, Maestà – l’ho informato.
“Ma quale cresima, oggi deve essere San Luigi, è il mio onomastico, e il popolo mi onora con una messa solenne. Presto, i miei vestiti!”
Io non discuto mai. L’ho aiutato ad agghindarsi mentre lui improvvisava il discorso da tenere, grondante tenerezza per i suoi sudditi.
“Come sto? Come sto? Sono bello? Sono regale? – mi chiedeva ansiosamente.
“Siete un Sole, Maestà – è quello che vuol sentirsi rispondere in questi casi.
“Non sei male neanche tu – ha ammesso, perché è un gran signore – Aspetta, un ultimo tocco…” e mi ha slacciato il grembiule, dopodiché ero pronta. Nel mio vestito da casa, con gli zoccoli dell’orto e tutto. Mi sono buttata in testa la parrucca della domenica, che di solito sta sullo sgabellino del gatto, e siamo usciti, lui davanti ridente e splendente, io dietro reggendogli lo strascico attraverso la piazza.
Al nostro ingresso in chiesa, tutti si sono alzati e si sono inchinati profondamente; lui passava radioso, dispensando saluti e benedicendo i neonati, mentre l’organo piantava a metà un inno sacro e intonava una marcia trionfale. Luigi, arrivato all’altare, si è subito installato sullo scranno dorato del Vescovo e si è aggiustato gli ermellini dando segno di essere pronto a cominciare. Il Parroco, sotto gli occhi allibiti del suo Superiore che aveva perso la parola per lo stupore, gli si è avvicinato con deferenza:
“Maestà, noi qui staremmo cresimando…”
“Benissimo. Date qua l’occorrente, ci penso io. E se c’è qualche battesimo, faccio anche quello”.
Era così felice di fare qualcosa per il suo popolo! I diaconi e i chierichetti subito lo hanno affiancato con turiboli e ampolle, mentre i cresimandi uscivano dai banchi e si mettevano in fila come avevano imparato al catechismo, orgogliosissimi che a ungerli non fosse un Vescovo qualunque ma il Re in persona.
Il Vescovo qualunque stava ritrovando la voce e pareva sull’orlo di una incazzatura per nulla qualunque. A poco è servito che il Parroco cercasse di prenderlo da parte e di spiegargli che il Luigi ha una sua piccola mania, assolutamente innocua, e che in paese tutti lo sanno e gli vogliono bene lo stesso, perché il Luigi, Eminenza mi creda, è un buon cristiano e un pezzo di pane, solo che è diciamo così un pochino fuori di testa. “Ma noi, veda, ci siamo abituati – diceva per placarlo.
“Abituati un corno! – sbotta il Vescovo – Questo è sacrilegio, e vi faccio vedere io!”
E se ne è andato imbufalito, non prima di avere scomunicato l’intero paese e sconsacrato la chiesa.

Così stamattina, quando sono arrivati gli infermieri e il sindaco, costernati ma costretti da ordini superiori, abbiamo capito tutti che era una vendetta del Vescovo, che invece non ha capito niente di come vanno le cose qui da noi. Le cose vanno che il Luigi ha dato un po’ di matto anni fa, per tutta una serie di motivi che chiunque con un minimo di buon senso troverebbe plausibili. Il conte suo papà, lui sì che era matto davvero: aveva titolo, terreni, villa, e si è mangiato tutto in bischerate. Quando è morto, il Luigi si è trovato con un pugno di mosche e tanti debiti, che per pagarli ha cercato di vendere la villa ma primo è sotto la tutela delle Belle Arti e secondo le Belle Arti non gli danno neanche un centesimo per restaurarla così cade in pezzi e non se la compra nessuno. Un quadro, una statua, un mobile, un incunabolo dopo l’altro, si è dovuto vendere tutto. La moglie del Luigi, visto che si era fatta tutta un’altra idea sull’essere contessa, se ne è andata ai primi scricchiolii, e lui è rimasto solo nelle sue quaranta stanze affrescate coi segni dei vuoti sulle pareti.
Le tasse, soprattutto l’ultima, quella sulle prime case, gli hanno dato il colpo di grazia. Una mattina è scappato via da questa vita ingrata e si è rifugiato nella vita di un altro, uno che sentiva più simile a sé nell’animo: un altro Luigi, il quattordicesimo di Francia, uomo elegantissimo fra l’altro, e molto amato dai sudditi.
Io sono la sua fantesca, l’ultima rimasta dello stuolo di domestici dei bei tempi. Mi chiamerei Mariuccia, ma per lui sono la Maintenon, che poi ho letto da qualche parte che era una marchesa, e la cosa non mi dispiace neanche, toh.
A volte sono anche qualcun altro. A tavola, quando gradisce un piatto, mi manda a chiamare il cuoco. Io esco e poi rientro subito, e in quel momento divento il cuoco. E lui mi colma di gratificazioni commoventi.
“La bisque di gamberi era eccellente!”
Era tapioca, senza gamberi.
“Questo soufflé è sublime!”
Era una frittatina di due uova.
“Con questo coq au vin avete superato voi stesso!”
Erano ali di pollo lessate.

Perché, Eminenza, dovete capire: lui è così, vive in un mondo tutto suo, felice e dorato, e non chiede niente di impossibile. Chiede solo che glielo lasciamo credere, e in cambio non fa del male a nessuno. Stamattina, quando sono venuti a prenderlo per portarlo dai matti (potevate risparmiarvelo, però), si è fatto trovare in pompa magna, anche se ci era appena arrivato l’ultimo avviso dell’enel che ci toglierà la luce per morosità. Agli infermieri ha chiesto benignamente:
“Dove si va?”
“All’ospedale, Maestà – gli hanno dovuto rispondere, molto amareggiati.
“Ah, benissimo! A trovare i derelitti! Giusto, giusto: porterò loro il mio conforto, voglio che sappiano che sono con loro, che sono uno di loro”.
E li ha seguiti mitemente. Tutti noi avevamo quasi le lacrime agli occhi, e anche fuori, in strada, c’era gente mogia che si era raccolta per salutarlo, fargli ala per l’ultima volta. Luigi sorrideva a tutti, li rincuorava, dava buffetti ai bambini che gli porgevano disegnini colorati, accettava mazzi di papaveri dalle donne e strette di mano dai mariti. In ambulanza l’hanno fatto sedere davanti, perché potesse salutare anche i contadini sui cigli dei campi e le lavandaie sugli argini.
E in mezzo al cielo c’era un Sole, ma un Sole! 

immagine: Le Roi Soleil, di Hyacinthe Rigaud (1701)

Cerca di capire

Da un quadro una storia:
Edward Hopper – Summer evening, 1947


È proprio questa piattezza, questa immobilità, questa voluta assenza di vibrazioni, di una seppur minima brezza, che mi affascina nei quadri di Hopper. Mi affascina quello che affiora evidente dalla fredda geometria dei suoi spigoli, dei suoi volti inespressivi. Mi affascina e mi commuove il sottinteso d’angoscia, un’angoscia giunta a tal punto da trasformarsi non tanto in disperazione (che può essere anche un passaggio transitorio da cui si riemerge) ma in definitivo disconoscimento di qualunque speranza di comunicare. Uomini e donne, le coppie e i singoli e anche i gruppi, nei suoi quadri sono pedine scompagnate di un mondo muto, fissato in un fermo immagine, senza domani. L’ieri si può immaginare, ma sarebbe un gioco sterile.

Quei due sulla veranda in una sera calda come immagino siano calde le estati negli stati americani del sud (lo immagino io, senza mai essere stata in America e senza sapere dove l’artista abbia ambientato il quadro; ma deve essere un posto dove le sere d’estate hanno quel particolare calore che nemmeno il buio allevia, quel particolare calore che inghiotte i gesti, come le braci accartocciano la carta, con lo stesso silenzioso torpore distruttore).
Chi sono, quei due? Chi sono uno per l’altra?
Potrebbero essere due innamorati.
No, non c’è nulla di innamorato fra loro, nulla di romantico.
Lui potrebbe essere passato a trovarla dopo cena, e se così fosse le starebbe raccontando quanto le è mancata tutto il giorno, quanto ha aspettato la sera per tornare dal lavoro, lavarsi, bagnarsi i capelli e correre da lei. Ma avrebbe un altro tono, un altro ardore. Non starebbe seduto sul parapetto. La starebbe abbracciando dentro il buio del prato, un po’ più in là, fuori dalla vista del pittore, fuori da quella luce cruda della veranda che, a lei, spiove sul viso tirato e le infossa gli occhi in due buchi scuri senza fondo.
Potrebbe essere comunque il suo innamorato, e la loro potrebbe essere una crisi. Ecco, lui magari, una mano sul cuore per rafforzare le parole, le starebbe spiegando che c’è stato un equivoco, è solo un po’ di stanchezza, ma niente è cambiato fra loro. Lui la ama sempre. Devi credermi, le starebbe dicendo. Ma lo sforzo di lui è così debole, così poco convincente. Lei invece, la sua bocca ha una smorfia troppo amara, e c’è troppa tensione nel suo corpo tornito di bella statua. Lontana, inavvicinabile.

Oppure è suo marito, e quella è la loro casa, e dentro, in cucina, lei ha lasciato i piatti sporchi sul tavolo per seguirlo fuori. Dobbiamo parlare, le ha detto. E lei sa di cosa. Di quel divano dove lo ha costretto a dormire da un mese. Dove lui si sente solo. E scomodo. Di quel divorzio che per lei è ormai cosa fatta, passo compiuto, decisione non più negoziabile. Vattene o me ne vado io. Lasciami libera, ché non sono più quella che hai sposato. Che è finita. Che è stato uno sbaglio. Non parliamone più, non serve, non si torna indietro. Non promettermi niente, non farmi proposte, non cercare di impietosirmi. Non offrirmi altro tempo per pensarci, perché sei tu, non io, quello che deve capire. Ma tutte queste cose lei non ha più voglia di dirle. Lascia che parli lui, e non lo ascolta neanche più. Ha la testa altrove, al buco nero della sua stanchezza, che lui non immagina neanche. E quando due, un marito e una moglie, non condividono nemmeno questo, allora è proprio finita davvero.

E se fossero, invece, fratello e sorella? E quella la casa dei vecchi genitori, sempre più sordi e esigenti? E se lui avesse deciso di andarsene, di tentare una nuova vita per il suo giovane futuro? Lui può. È un uomo. Può andare in città e cominciare dal basso, dalla gavetta, da qualche rischio.
Tu devi restare, lo capisci, vero? Devi stare con loro, non puoi abbandonarli. Ma io non posso continuare così, devo scappare da questa prigione, riuscire a combinare qualcosa di buono e poi tornare a prenderti quando potrò rendere libera anche te.
E lei lo sa che ha ragione, che deve lasciarlo andare e abituarsi a pensarlo lontano, estraneo, cambiato, mentre a lei resteranno quei due vecchi ormai incapaci di comunicare e di amare, il loro penoso egoismo, la casa che va in pezzi, le pentole nel secchiaio, il bucato alla pompa, il podere, la legnaia, le termiti. E quel caldo, e quel tempo fermo, e quella mancanza di una qualunque minima, umana, tiepida attesa, perché il pittore non l’ha prevista, gliel’ha negata in partenza, in cambio di una stasi che è come un’anestesia. O come il gelo che iberna il cuore e lo incastona in un ghiacciaio eterno.

 Il quadro è del 1947.
Quei due è da 65 anni che stanno cercando di dirsi qualcosa, e non ci riusciranno mai.

A qualcuno piace caldo

Venerdì.

Il caffè era tiepido. Sua moglie Marialucreziafernanda queste cose non le può capire, perché beve solo hag, ma lui, Gianpiergirolamo Paolantoni, sa bene, per lunga esperienza, che un caffè tiepido è il peggiore inizio di giornata che possa capitare a una persona convinta da sempre che la temperatura sia direttamente proporzionale all’effetto stimolante del caffè, e da esso indisgiungibile.
Fuori c’è il sole e non uno straccio di nuvola. La gente per strada indossa già indumenti più leggeri, ma a Gianpiergirolamo Paolantoni non è neanche passato per la testa di tirar fuori la bella giacca nuova da mezza stagione. Perché quel maledetto caffè era tiepido.
Si ingolfa nel solito cappottone da nebbia e esce a testa bassa. Alla fermata, l’autobus è in perfetto orario; all’interno stranamente vi sono dei posti vuoti, ma Gianpiergirolamo Paolantoni li disdegna e sceglie cocciutamente di restare in piedi, perché quando ha in corpo un caffè tiepido ha solo voglia di far dispetti a tutto e a tutti.
Potrebbe entrare nel bar accanto all’ufficio e rimediare con un altro caffè, si intende. Ma non sarebbe la stessa cosa.  È il primo, quello che conta; gli altri, anche se ne prendesse sei o sette durante la giornata, ormai non cancellerebbero più quell’inizio infausto. Gianpiergirolamo Paolantoni compatisce i suoi colleghi che, nel corridoio, lo invitano a unirsi a loro per un caffè al distributore automatico. Quello sarà anche bollente, ma è una fetecchia.
Si chiude nel suo ufficetto e si prepara all’appuntamento con il Cliente Importante. Deve fargli firmare un contratto cruciale per il futuro dell’azienda, ma la vede dura perché la caffeina tiepida non è il carburante giusto per portare a termine l’impresa.
Il cliente arriva puntuale e ottimamente disposto. Non vede l’ora, anzi, di concludere l’affare e di versare un assegno a più zeri, e lo fa senza bisogno di farsi rispiegare tutto daccapo clausola per clausola, affermando di averle lette e approvate tutte. Al momento del congedo ci starebbe bene un caffè, ma Gianpiergirolamo Paolantoni non è dell’umore: una stretta di mano e qualche bofonchiamento sono il massimo che si senta di offrire.
Mentre si appresta a portare il dossier al Capo, gli telefona la moglie.
“Splendida notizia, amore: è tornato il gatto!”
“Ah. Buon per lui”.
“Come, tutto qua? Eri così avvilito che fosse sparito, e adesso non sei contento? Neanche un pochino?”
“Quel disgraziato. Scusa, ma adesso ho altro per la testa – dice, e mette giù. Il gatto sarà anche tornato, ma un caffè tiepido in corpo non aiuta a rallegrarsene e a dimenticare quei tre giorni di apprensione e malinconia, le ricerche in tutto il quartiere, gli incubi in cui gli appariva sfracellato dalle auto sulla tangenziale.
Il Capo è euforico. Deve aver bevuto un caffè bollente, stamattina, lui; infatti lo abbraccia, si congratula, gli offre un sigaro e lo promuove con effetto immediato Direttore Unico del Settore Acquisizioni, il che comporta un nuovo studio panoramico, due segretarie e una bella botta di soldi in più.
“I miei omaggi alla sua signora, e se le serve qualcosa non ha che da chiedere!”
Mi serve solo una macchina per il caffè che faccia il caffè. Che lo faccia caldo, caldissimo, come l’inferno. Così pensa Gianpiergirolamo Paolantoni, ma è troppo giù di corda per dirlo a voce alta.
“Marialucreziafernanda, guarda che oggi non torno a pranzo. Devo raccogliere le mie cose”.
“Ooooohhh, ti hanno licenziato?”
“Mi hanno promosso, e mi trasferisco al piano di sopra”.
“Ma è meraviglioso, amore! –  (Gianpiergirolamo Paolantoni non si spiega come possa essere così elettrizzata una donna che beve solo hag) – Allora stasera ti preparo un pranzetto e festeggiamo noi tre soli, tu, io e Miciomiciomiciolò!”
“Quel disgraziato. Non preparare niente, mi basterà un semolino e forse neanche quello. Stasera avrò senz’altro mal di testa”.

Sabato.

Stamattina il caffè era perfetto. Nero, amaro e bollente, così bollente da far venire prima i brividi e poi un’ondata di travolgente benessere.
Fuori c’è una nebbiolina malaticcia, di quelle che mandano all’aria i programmi del week end e fanno venir voglia di svaccarsi davanti alla tele senza neanche farsi la barba, però il caffè era eccellente e scottava.
Gianpiergirolamo Paolantoni avverte subito la sferzata di energia e buon umore. Alle sette e mezzo sta già smontando la lavatrice; alle otto ha identificato e risolto la vibrazione del cestello, e la sua signora può dare il via al bucato settimanale.
La serranda del garage aveva bisogno di una registrata, e entro le nove l’ha avuta. A Gianpiergirolamo Paolantoni è venuto il colpo della strega, e lui è entusiasta di questa esperienza nuova che finora la vita gli aveva negato.
Per le dieci è a posto anche il tostapane che mandava in corto tutta la casa ogni volta che si infilava la spina.
Alle undici, ora di punta, Gianpiergirolamo Paolantoni si gode la coda alle casse del supermercato e saluta tutti con spirito di fratellanza, anche quelli con carrelli stracarichi che gli chiedono di potergli passare davanti benché lui abbia in mano solo un etto di prosciutto e i croccantini per il gatto.
Al parcheggio qualcuno gli ha strisciato l’auto, ma che importa. Il caffè di stamattina era una goduria, più lo mandava giù e più lo tirava su, che più su non si può, altrimenti si tocca il cielo con un dito.
Marialucreziafernanda ha invitato a pranzo mammina sua, la suocera criticona.
“Non è che ti dispiace troppo, vero?”
“Ma figurati, se non ci avessi pensato tu le avrei telefonato io!”
L’arrosto è bruciato, la torta poco cotta, Miciomiciomiciolò ieri ha mangiato troppo e poco fa ha vomitato sul tappeto buono. L’importante è che sia tornato, il resto sono sciocchezze. Gianpiergirolamo Paolantoni ci ride su: la vita è bella, se il caffè ha la temperatura giusta.
Nel pomeriggio, per tenere calda la schiena indolenzita riordina a fondo la soffitta e la trasforma in una confortevole camera per gli ospiti, casomai la suocera decidesse di farlo felice venendo ad abitare da loro.
La sera a letto Marialucreziafernanda ha mal di testa e non se ne fa niente.
“Vedi, se facessi come me e smettessi di prendere quell’hag da pensionati, conosceresti anche tu il piacere del vero caffè e i suoi effetti anticefalalgici e afrodisiaci”.
Gianpiergirolamo Paolantoni non lo sa che quello di stamattina, il caffè nero, amaro, fortissimo e bollente, era il decaffeinato della moglie. Una semplice e del tutto involontaria inversione di posto dei vasetti di vetro con i due tipi di polvere.
Voi non diteglielo, a quell’uomo felice.

La strada di casa

Mi ricordo che c’era qualcosa da cui dovevo scappare, non so bene cosa, e qualcos’altro che dovevo raggiungere, non so bene dove. Così mi sono messa a correre, a correre alla cieca, e come i ciechi all’inizio sbattevo contro tutti gli ostacoli. Erano spigoli taglienti che mi procuravano lividi, era filo spinato che mi faceva sanguinare, erano volgari bucce di banana su cui scivolavo a tradimento, o cristallerie tutt’altro che volgari che cadevano con sinistro fragore di vetro esploso al mio maldestro passaggio. Allora sono uscita all’aperto, pur sapendo di rischiare una crisi di agorafobia, e sono corsa più lontano. Ricordo una pietraia che non finiva più, e probabilmente covava serpenti suscettibili tra i crepacci. Saltavo di qua e di là per evitare gli inciampi, e intanto perdevo ancora di più l’orientamento. Un avanzo primordiale di istinto mi ha permesso di scansare una pozza ribollente di sabbie mobili: ero così stanca che avrei anche accettato di morire, ma non così, non per lento soffocamento. Forse precipitando, ecco, da quel ponte tibetano che ho dovuto imboccare per scavalcare un precipizio al cui fondo scrosciava un fiume infernale. Oppure travolta da una tempesta di sabbia o scorticata viva da sciami di cavallette. O piuttosto facendomi scoppiare il cuore nello sforzo di arrampicare una montagna ripida e irta di rovi traditori. E poi in cima trovare non il cielo aperto e l’aria rarefatta, ma un plotone di lupi sanguinari che mi ha rincorsa giù per una discesa vertiginosa verso la regione dei pantani mefitici. Annaspando nel limo ho guadagnato un lembo di terra appena più solida e ho preso a correre più forte, per lasciarmi indietro una paura ormai fuori controllo. Quello che mi auguravo, allo stremo delle forze, era ormai solo un vuoto, infinito e riposante. Ma c’era ancora un bosco da attraversare, fitto e labirintico, stillante di umidità e resine che mi invischiavano come tentacoli. Lì in basso non arrivava il sole, era sempre notte, e io ho vagato fino a perdere la cognizione del tempo in quel buio fatto anche di sibili, scricchiolii, fruscii minacciosi, un buio abitato da creature buie come i buio.
C’è voluto tanto per uscirne, e ancora non so come ho fatto, quale segnale o istinto ho seguito per individuare il fievole barlume che segnava la fine della boscaglia. Forse tutto è durato una notte sola, e un’alba normale come tutte le albe ha disciolto incubi che a me erano sembrati interminabili. Quell’alba acerba indicava un sentiero appena accennato in quella prigione di tronchi ostili, e nel seguirlo con le gambe molli di sorpresa sono riemersa in una radura verdeazzurra. Al centro, illuminato dalla piena luce del nuovo sole, un Unicorno bianco dai grandi occhi ovali accennava con dolci assensi del muso un incoraggiamento e un invito. Il prato era il suo pascolo, come ai tempi dell’Eden. E lì in fondo, scintillante anch’essa ai raggi di un mattino sempre più sicuro, una vasta casa con porticati, torrette e finestre spalancate. Una casa di marzapane.
Sulla soglia mi sono venuti incontro e mi hanno fatta entrare. Erano sorridenti e ospitali. Erano amici fra loro e con me. Non mi hanno chiesto nulla, perché sapevano già tutto, mi avevano aspettata per tanto tempo. All’interno aleggiava il profumo del caffè e del pane tostato. Finalmente ho potuto lavarmi via di dosso il fango secco, sgrovigliarmi i capelli, indossare panni puliti. La stanchezza si scioglieva nell’acqua tiepida di una tinozza odorosa di vecchio legno. Nella grande cucina, qualcuno stava disponendo sul tavolo la colazione per tutti. Mi hanno fatta sedere con loro offrendomi latte caldo e miele, in un cerchio di sorrisi e premure discrete. L’Unicorno ogni tanto ci osservava dalla finestra con i suoi grandi occhi azzurri sognanti da cerbiatto, e annuiva rassicurante.
E poi è venuto il momento di conoscerci meglio. C’era una poltrona vecchiotta vicino al focolare, e ho capito che era riservata a me. Gli altri si sono disposti intorno, su sgabelli di tutte le forme e dimensioni, qualcuno anche accoccolato sul pavimento con un gatto in braccio. Per un po’ ci siamo guardati senza dirci nulla eppure senza smettere di sorriderci. Sorridevamo di gratitudine, godevamo in silenzio la conferma di una affinità. L’Unicorno era tornato a guardarci dietro i vetri, in attesa come noi.
E io, per non sbagliare, ho chiesto: “E adesso?”
E uno di loro, a nome di tutti, ha risposto:
“Adesso, raccontaci una storia”.